La presenza del capo della cristianità fa inevitabilmente rivolgere gli sguardi di tutti verso la Sardegna. Ecco perché, in quest ‘giorni, giornalisti, sociologi esperti di vario genere hanno cercato di fotografare più o meno approssimativamente l’isola passandone ai raggi X l’economia, la storia, la cultura, le istituzioni e la società
Ma qual è il vero volto d questa regione, quali i suo problemi, qual è il significato della visita del Papa? Per avere risposte a questo domande, ci siamo rivolti a presidente della Giunta regionale sarda, l’on. Mario Melis.
Al vertice della Regione da poco più di un anno, il leader sardista ha maturato la sua competenza nelle cose della Sardegna nel corso di 40 anni di vita pubblica ai diversi livelli di responsabilità istituzionale: per sedici anni consecutivi è sindaco di un grosso centro del Nuorese, Oliena prima di approdare alla Regione, dove viene eletto per quattro consecutive legislature, ricoprendo incarichi assessoriali. Ha alternato la sua esperienza regionale con quella di senatore e deputato fino a rinunciare all’incarico parlamentare per rituffarsi esclusivamente sui problemi dell’isola. Da tre mesi presiede una coalizione Pci, Psd’Az, Psi, Pri, Psdi.
– Presidente, il Papa viene nell’isola per incontrarsi con la gente della Sardegna; oltre al significato religioso, questa visita ne ha altri, anch’essi importanti. Il presidente della Regione quale senso attribuisce a viaggio papale?
La visita del Papa si presenta sotto molteplici aspetti. Un aspetto emozionale. Essa costituisce un fatto straordinario nella storia della nostra gente: un Pontefice che è riuscito a diffondere intorno sé un carisma e un impatto così forti e intensi, che hanno di per sé la capacità di determinare effetti tali da accentuare la partecipazione dei sardi all’incontro con il Santo Padre.
Il secondo aspetto attiene i valori più profondi della fede cristiana e cattolica delle popolazioni che numerose si stringeranno intorno al Papa affluendo da tutte le contrade dell’isola. La Sardegna ha conservata intatta nei secoli la sua fede cristiana, passando attraverso le sofferenze, le umiliazioni di due millenni di occupazione, tanto che la sua storia, sarebbe meglio de finirla la sua non storia, in quanto scritta dalla serie di dominatori (romani, vandali bizantini, pisani e genovesi aragonesi, spagnoli e catalani e piemontesi), che hanno oppresso l’isola in tutti i modi sotto tutte le forme, impedendone lo sviluppo e sfruttandone tutte le potenzialità in quanto servivano ai dominatori non già ai sardi, impedendone la crescita culturale.
Il popolo sardo è depositario di una cultura e di una lingua che, peculiare e specifica, non presente in altre realtà italiane o europee, costituisce una “nazione sarda”. Il concetto di nazione, inteso in senso mazziniano, attiene a un popolo parlante la stessa lingua e stanziato su ben determinato territorio. È difficile immaginare un territorio più determinato di un’isola dove si parla la stessa lingua anche tra gli intellettuali. La scarsa sensibilità del governi dello Stato nel tutelare questi patrimonio, che una volta disperso, non potrà essere più recuperato, i primi sintomi di chiusura dovuti all’azione dei mass-media, rischiano di uccidere una cultura e una lingua.
– Questo Papa si è sempre dimostrato molto sensibile ai problemi del lavoro e vicino agli operai. Su questo argomento ha scritto un’enciclica, la “Laborem exercens”. La Regione sarda, come insieme di popolo che cosa si attende da Giovanni Paolo II su questi argomento?
Il Papa è sensibile in genera le al problema dell’uomo. Questo lo sta inducendo a spingere il piede sul pedale del sociale. Per cui vedo 1a chiesa molto più attenta e presente in tutto un ampio ventaglio di temi, che coinvolgono la società nel suo complesso e quindi l’uomo. I problemi del lavoro emergono spesso con rilevanza drammatica, soprattutto quando esso manca, perché genera l’angoscia di un sottosviluppo che è alla base di tensioni inquietudini e fermenti difficilmente prevedibili nel loro evolversi e nel loro esplodere e ancora per ciò che riguarda la qualità del lavoro: quindi che sia rispettata la dignità della forza creativa dell’uomo e non ridotta a compiti puramente e aridamente ripetitivi e come tali privati dell’apporto di una partecipazione interiore e intellettiva. In questo senso io considero la figura del Pontefice, la sua testimonianza e la sua solidarietà, a fianco soprattutto di chi noi ha lavoro, cioè di un intero popolo.
Il problema disoccupazione in Sardegna non riguarda soltanto i singoli individui ma l’intera collettività regionale, investita da una crisi economico-sociale così vasta o imponente da coinvolgere l’intera società isolana. Il Papa per me non è solo amico dei lavoratori, ma o amico della nostra isola, perché il futuro della regione è condizionato dalla soluzione di questo problema e dal diverso rapporto che la Sardegna deve realizzare con i poteri esterni, non solo quelli di governo, ma anche con quelli che detengono le chiavi dell’economia italiana. In caso contrario, noi sardi siamo soltanto il termine di decisioni esterne. È, quest’ultimo, un ruolo che rifiutiamo. Un rifiuto comune agli organismi istituzionali (giunta e consiglio) e alla collettività regionale sempre più consapevole d’essere soggetto politico, titolare di responsabilità creativa.
Non dobbiamo attendere dall’esterno la benevolenza, ma dobbiamo costruire noi un nostro sviluppo e dobbiamo chiedere conseguentemente che chi ha oggi la responsabilità di decidere, rimuova gli impedimenti, affinché il popolo sardo possa essere realmente artefice del proprio sviluppo. In queste settimane sto mobilitando la cultura italiana per un progetto di fattibilità di “franchigia doganale”, che restituisca ai sardi libertà di commercio.
Oggi, nonostante gli interventi della Regione, che consentono, in campo lattiero-caseario per esemplificare, ai produttori nostrani di consorziarsi in grande cooperative, che commerciano direttamente con l’America e con i Paesi consumatori delle nostre produzioni, si ha la necessità di essere sempre più competitivi sui mercati internazionali. Si devono allora individuare mezzi e metodi per vincere le diseconomie prodotte dall’insularità, ed entrare nella competizione concorrerziale.
Uno di questi strumenti può essere la zona franca doganale, cioè uno status giuridico, che consenta alla Sardegna di ottenere delle riduzioni nei costi, nell’approvvigionamento delle materie prime e consenta di trasformarle e rivenderle, approfittando della nostra particolare posizione geografica di vicinanza all’Europa, all’Africa e al Medio Oriente, cioè a Paesi produttori di materie prime: ancora oggi la raffineria di Cagliari raffina petrolio portatole dall’Arabia Saudita, che trova più conveniente farlo da noi che non direttamente sul proprio territorio.
Dobbiamo esportare, dunque, lavoro e non materie prime e prodotti che hanno subito una sola lavorazione. Questo sarà possibile se ci verrà riservata una condizione che in genere la Comunità europea riconosce a quelle regioni della CEE, bisognose di superare una condizione di sottosviluppo. Non che io pensi che il Papa possa parlare di zona franca doganale, ma che lui possa schierarsi a favore di una regione che pone problemi reali ed effettivi, che attengono alla sua condizione di marginalità e che rivendica un ruolo primario”.
– Quale contributo possono dare le diocesi sarde al progresso sociale della Sardegna?
Mi pare che le diocesi siano abbastanza attente a questi discorsi. Che non siano più
rapite nei valori mistici e trascendentali, ma che sentano l’ansia e la tensione dei problemi effettivi e che quindi riescano a coglierli per tradurli in azione, volta a coordinare e meglio indirizzare far prendere coscienza alla gente dei loro problemi. Mi diceva anni fa un vescovo sardo, che la cosa che lo impressionava di più era la mancanza di coscienza della condizione di ingiustizia che quest cittadini subivano. Il suo apostolato non era quello di calmare gli animi, ma di armarli di una coscienza di una sfera di dignità, di cui, secondo lui, questi suoi concittadini non si riappropriavano. Le diocesi possono dare forza morale e legittimazione a questo movimento; sfatare i concetto che la rivendicazione, condotta nelle forme civil in cui un popolo può sviluppare questo discorso, non è un dovere delle popolazioni.
– Quali incentivi la giunta ha predisposto e quali strade va percorrendo per realizzare questa ripresa di responsabilità della propria situazione fra la gente sarda, soprattutto nei giovani?
Noi abbiamo leggi specifiche in materia. Ad esempio la cosiddetta legge numero 28 indirizzata ai giovani. Sono disponibili 150 miliardi, di cui 50 stanziati dalla precedente giunta, che non ha potuto spenderli e 100 proposti dall’esecutivo in carica. Una somma praticamente ancora quasi tutta disponibile. Si tende in pratica a favorire l’associazionismo fra i giovani per realizzare, ad esempio società di servizio, iniziative nelle nuove professionalità nello stimolare la scoperta di settori di mercato che potenzialmente esistono e che nessuno sta oggi coprendo, per indurre le amministrazioni comunali a sospingere i giovani per l’assunzione di servizi comunali.
Ma c’è tutta la politica generale. Per esempio a titoli esemplificativo sono stati stanziati un’ottantina di miliardi del vecchio bilancio e la giunta si sta interrogando in quale modo aggredire quest lebbra terribile della disoccupazione e si stanno individuando gli strumenti più efficienti, verificando in che modo quelli legislativi e finanziari attivati in passato abbiano risposto alle attese. Sono stati stanziati anche ottanta miliardi per abitazioni. Non solo per rispondere alla continua domanda che in questo senso ci perviene soprattutto dai giovani, ma in particolare per dinamizzare l’economia della Sardegna.
– In questo momento tre sono i grandi problemi chi investono l’isola: piano di rinascita, servitù militari, disoccupazione. A quale di questi attribuisce il carattere dell’urgenza?
A parte le servitù militari che incidono più parzialmente, sono interconnessi il piani di rinascita e disoccupazione. Comunque, dovessi decidere darei la priorità alla disoccupazione.
– Nel 1981 l’allora ministro alla Difesa Lagorio si era impegnato proprio con lei a ridurre le servitù militari. Sono passati quattro anni e nulla è cambiato.
Non fu, quello del ministro un impegno personale, ma un impegno formale preso durante la conferenza nazionale sulle servitù militari. Il ministro Lagorio concludeva con un deliberato nel quale riconosceva la necessità di pervenire ad una riduzione quantitativa e qualitativa della presenza militare in Sardegna. Non si è fatto nulla. Io dissi durante il mio intervento, che “i sardi erano italiani nella misura in cui gli italiani erano sardi”, a significare che o ci compenetriamo gli uni nei problemi degli altri, e creiamo momenti di solidarietà, o altrimenti siamo di fronte a furberie nelle quali ciascuno cerca di utilizzare il massimo, incurante del danno che arreca agli altri. La giunta di allora entrò quasi subito in crisi, subentrò un altro esecutivo, il problema è stato letteralmente abbandonato. Noi lo stiamo riprendendo, ma vi è una resistenza abbastanza notevole da parte dei politici a riesaminare il problema. Da parte di qualche militare, devo riconoscere, c’è la disponibilità ad un incontro per riesaminare la materia.
– Lei prima ha accennato alla necessità e all’urgenza di salvaguardare e conservare gli aspetti peculiari della cultura sarda, in particolare la lingua. Che cosa si è fatto in questa direzione?
Noi stiamo in tutti i modi cercando di impedire che la lingua sarda scompaia; lo stanno facendo le nostre università, lo ha fatto negli anni attorno al ’30 qualche università tedesca che con alcuni studiosi, in particolare Leopold Wagner, al quale noi sardi dobbiamo imperitura gratitudine. Ha riscoperto tutto il valore della lingua sarda pubblicando un famoso dizionario e una novantina di saggi con i quali ha dimostrato l’originalità della parlata sarda e la dignità di lingua di questo idioma. La Chiesa è stata una delle istituzioni che ha difeso con maggior forza la cultura sarda; ai tempi della mia infanzia i preti predicavano il Vangelo in lingua sarda. Il parroco del mio paese, Tortolì, che io ricordo con affetto e commozione, non ha mai fatto una predica in italiano. Però non tutta la Chiesa, quella sarda. La Chiesa piemontese, che noi abbiamo avuto nell’isola, non ha difeso la nostra cultura, non è stata un veicolo di impulso alla crescita.
Si creino incentivi perché i sardi diventino artefici del proprio sviluppo – Avvenire – 20 ottobre 1985
13 Marzo 2025 by