Quando la Sardegna brucia, noi stiamo a guardare – intervista di D- Ruiu – L’Ortobene – 4 ottobre 1981

«Il fuoco brucerà tutti» in questa frase, ripetuta a mo’ di proclama, sta forse la spiegazio­ne del tutto. Me l’ha detta Ma­rio Melis, assessore all’ambien­te della regione sarda, oggi più conosciuto come «quello del divieto», al termine di una recente chiaccherata. Sono anda­to a trovarlo dopo la definitiva conferma del suo NO che ci im­pedirà per quest’anno di cacciar lepri e pernici a causa degli incendi che hanno annerito mezza Sardegna. Da anni ora­mai per questioni di tempo e di scelte di sensazione venatorie vado solo a pernici e cinghiali. Tanti, in Barbagia, fanno come me, così quel divieto mi «bru­cia» non poco. Logico perciò che abbia incontrato l’uomo-NO. Eccovi, di seguito, il reso­conto dell’intervista.
D. Onorevole. son cacciato­re di pernici, quindi il suo divie­to mi tocca in modo particolare. Comunque mi sono imposto di non intervenire nelle polemi­che «a caldo». L’idea di parlare con Lei mi è venuta mentre mi trovavo nei boschi di Castiadas a contar cervi per vedere quanti ancora ne rimangono. Lo faccio insieme ad altri da un paio d’an­ni ed ogni anno i cervi sardi son di meno. Ora ne rimangono davvero pochini, sa. Ancora po­co tempo ed avremo finito di contarli. La causa più immedia­ta della loro diminuzione è un bracconaggio spietato e continuo. Questo perché, in pratica, non c’è nessuno che sorvegli gli ultimi cervi, (come ben sa, la sorveglianza, numericamente. è quella che è ed il Corpo di vigilanza territoriale, previsto dalla Legge sarda sulla caccia e per il quale i cacciatori «e solo lo­ro…» pagano fior di moneta, e lungi dall’essere istituito). Le chiedo: non crede che questa sua crociata, questo suo impegno abbastanza coraggioso, sa­rebbe stato molto più utile alla causa della fauna se invece che limitarsi al noto divieto avesse puntato, con uguale fermezza, all’istituzione di quel famoso corpo?
R. Vorrei tornare un po’ indietro per inquadrare meglio gli avvenimenti, dare uno sguardo alla situazione del­l’ambiente sardo in generale e cercare di leggerlo come un li­bro per vedere le tracce del pas­saggio dell’uomo, del suo rap­porto con quell’ambiente. Cioè  cerchiamo di scoprire il nostro grado di civiltà partendo da co­me abbiamo gestito il nostro ambiente.
Scopriremo così il vero dramma attuale: i sardi hanno delegato la gestione dell’ambiente alle istituzioni, non partecipandovi attivamente ma limitandosi a raccogliere i frutti o a critica­re negativamente. Così accade che col dramma degli incendi, la Sardegna brucia e noi stiamo a guardare, aspettando che 170 forestali, pochi militari dell’e­sercito e le squadre antincendio se la sbrighino da soli. Invece, contro le fiamme, dobbiamo essere tutti in prima fila, caccia­tori compresi. Quest’anno il fuoco ha fatto ancor più danno. Così è preferibile non infierire sulla selvaggina cacciabile più esposta, e cioè pernici e lepri. Perché non mi batto per il corpo di vigilanza territoriale? Perché così com’è previsto ha compiti troppo limitati. Mancano gli specialisti dell’acqua, del suolo, del mare. Il territorio va difeso nella sua globalità e non a set­tori. Perciò le funzioni di questo corpo vanno ampliate, qualifi­cate. Per far questo occorre tem­po. Sto appunto studiando un rimedio temporaneo, per esem­pio una legge che permetta di assumere 150 giovani per raf­forzare gli organismi oggi pre­posti alla sorveglianza. Ma na­turalmente l’ultima parola su queste assunzioni spetta al Consiglio Regionale.
D. Chi ha appena un po’ di esperienza di campagna sa che generalmente son ben poche le pernici che ci lasciano le penne in caso di incendio. Inoltre la pernice frequenta abbastanza regolarmente le zone bruciate dove diventa veramente pro­blematico cacciarla perché vola­no «a vista». In più quest’anno, ironia della sorte, la pernice è localmente numerosa. Ne risul­ta che più d’uno, a fine ottobre, si troverà di fronte intere volate con la conseguenza che potrà accadere di tutto. Chi garantirà la sorveglianza? Non era più se­rio rinunciare anche alle tortore ed al limite chiudere per un anno con l’impegno di concre­tizzare finalmente la nostra be­nedetta legge?
R. Premetto che ero contra­rio alla doppia apertura, ed i cac­ciatori del nuorese erano sulla mia linea, ma in sede di Comita­to sono stato messo in mino­ranza. In un primo momento avevo proposto un anno di chiusura, poi mi son lasciato convincere sia sui cinghiali, a detta di tutti molto numerosi, che su migratoria e conigli.
Comunque nell’opera di vigi­lanza non ci lasceranno soli: fo­restale e venatoria saranno affiancate da polizia, carabinie­ri, stradale. Volevo aggiungere qualcosa sul rapporto pernice-incendio. Certo, è difficile che le fiamme «normali» danneggino la pernice, ma quando ci sono anche 50, dico 50, focolai diver­si che circondano l’intera zona, anche per la pernice non c’è scampo. È vero che dove il fuo­co è passato la pernice torna vo­lentieri. Ma quando passa l’in­cendio violento alle spalle si la­scia solo pietre e cenere. Ed allora la pernice cambia zona, trova altri selvatici, deve am­bientarsi. E l’apertura dovrebbe coincidere appunto con questa delicata fase di ambientamen­to. Può anche darsi così che in alcune zone ci siano grossi con­centramenti, ma in generale sia­mo vicini al vuoto ecologico. Anno dopo anno la desertifica­zione avanza inesorabilmente.
D. Il cinghiale, a differenza della pernice, risente in maniera diretta ed indiretta (distruzione d’habitat) degli incendi. Eppure lo possiamo cacciare senza limi­ti a dicembre-gennaio per via della peste suina. Le chiedo: perché solo a dicembre e gen­naio? la nostra peste sa forse di­stinguere le date? E perché non dobbiamo cacciare i cinghiali delle zone protette? La peste sa anche leggere i cartelli? Viene i dubbio che la peste non ci sia! In ogni modo non le pare che si sia agito quanto meno con su­perficialità?
R. La domanda posta in termini così alternativi sfugge alla mia competenza per entrare nella sfera di azione dell’asses­sorato alla sanità. Credo co­munque che si sia individuato nel cinghiale un potenziale pe­ricolo, un possibile mezzo di contagio. Così si è voluto affi­dare al cacciatore un ruolo equi­libratore, senza arrivare ad eccessi di sterminio non giusti­ficati.
D. Questo divieto è un gros­so sacrificio per i cacciatori iso­lani. Cosa intende fare per limi­tare l’inevitabile invasione che si avrà il prossimo anno giusto perché mezza Italia venatoria vorrà godere i frutti di questo sacrificio?
R. Anche su questo punto è indispensabile modificare la legge. Il numero dei permessi da rilasciare ai non residenti de­ve essere proporzionato a quanto eccede il rapporto cac­ciatore sardo-selvaggina. La fruizione del territorio e, in que­sto caso, dei sacrifici, deve esse­re prima di tutto dei sardi. L’i­deale sarebbe una grande auto-gestita regionale che soddisfi le richieste di tutti i sardi e poi quelle dei «continentali».
Naturalmente la prima cosa da fare è istituire il servizio di studi della selvaggina, per poter conoscere la consistenza del patrimonio faunistico e studiare prelievi. Su queste modifiche sarebbero utilissimi i consigli la collaborazione delle associazioni venatorie.
D. In questi giorni Lei ha avuto a che fare con reazioni anche isteriche di molti cacciatori e con l’esagerata soddisfazione di quelli a cui va bene tutto purché si vieti la caccia. Faccia un bilancio e provi a dirmi i grado di maturità di quanti si interessano, in un modo o nell’altro, al problema natura.
R. In generale mi pare che si sia dato troppo risalto al proble­ma. È assurdo che con i drammi che pesano sull’isola, con i li­cenziamenti previsti a Porto Torres, i giornali sardi per 15 giorni abbiano parlato del divieto in prima pagina. Si sono esaspera­ti gli animi e le persone esaspe­rate possono avere reazioni inconsulte. Comunque almeno così tutti si sono interessati al problema degli incendi. Forse il prossimo anno ci sarà più gente in prima fila. Tornando ai cac­ciatori mi pare che più che esse­re ostili al provvedimento in se stesso, lo abbiano visto solo co­me un’imposizione ed abbiano reagito di conseguenza. A que­sto punto voglio precisare che non si è voluto punire nessuno.
D. Ultima domanda, catti­vella e provocatoria. Molti dico­no che questo divieto non sia altro che un tentativo di sviare il discorso dalla disastrosa estate di fuoco che ha messo in luce le carenze della campagna anti-incendio.
R. La gente è libera di dire tutte le malvagità che vuole. La piaga degli incendi è gravissi­ma. Direi che il NO l’ha ancora più evidenziata, facendo parte­cipi i cacciatori della catastrofe. Per tutta l’estate vado ripeten­do che il fuoco brucerà tutti. Ora è toccato ai cacciatori. Ma il vero dramma sarà quando im­pedirò ai pastori di pascolare nelle zone bruciate, come vuole la legge. O quando impedirò agli impresari di costruire sui re­sti degli incendi. Allora non sarà colpito uno svago, una pas­sione ma la fonte di lavoro. Sarà drammatico, ma la politica non può essere pietà altrimenti facciamo beneficenza. Forse allora i cacciatori capiranno meglio la portata di questo NO».
Questo quanto ci siamo detti: ciascuno tragga dall’intervista le conclusioni che crede. Io vo­glio chiudere con un cenno ancora sui cervi sardi che credo illustri in pieno il mio pensiero. Se noi cacciatori in generale e quelli delle zone-cervo in parti­colare decidessero di schierarsi con la stessa forza che ha carat­terizzato questa battaglia per il «NO» a favore del cervo appun­to, sono certo che le cose cam­bierebbero radicalmente a fa­vore del nostro rarissimo ungu­lato. I bracconieri non scende­ranno certo dalle nuvole! Ed il discorso potrebbe farsi per tan­te altre specie selvatiche. Pen­siamoci; se saremo capaci di far­lo ci guadagnerà il buon nome della caccia.