Nuoro 2002
Non so bene quando ho conosciuto Salvatore Satta (da tutti chiamato Bob) se quando esercitava ancora, per breve tempo, l’avvocatura a Nuoro o quando, già cattedratico, insegnava all’Università. Frequentava, quasi ne fosse un familiare, la nostra casa a Nuoro. Avevo allora 13-14 anni e vivevo nell’ammirata mitizzazione degli amici di mio fratello maggiore, Giovanni Battista Melis, a tutti noto come Titino.
Sto parlando degli Anni Trenta quando le amicizie si confermavano anche nello stare insieme a tavola, non tanto nell’anonimato formale del ristorante, quanto nel calore degli ambienti familiari ove i rapporti umani, ispirati da stima, diventavano confidenza e affetto. Salvo l’interruzione della guerra i rapporti fra la nostra famiglia, quella dei Satta- Galfrè e, in particolare, con Bob si sono conservati solidarmente partecipi dei reciproci problemi. Ricordo che subito dopo la guerra mamma e mia sorella Ottavia furono non ricordo se suoi ospiti, comunque da Lui quotidianamente assistite nella ricerca a Genova dei rari scienziati che, con tecnologie fiorite in tempo di guerra, (per uso delle spie) consentivano, con minuscole radio riceventi, di superare la sordità. Problema che affliggeva mia sorella Ottavia che solo allora poté affrontare e vincere l’insuperabile ostacolo alla docenza nelle scuole medie.
La mia testimonianza è parzialmente limitata dal fatto che non tutti i discorsi e le conversazioni intessute dal prof. Satta con i miei familiari e, in particolare, con Titino ero in grado di capire. Nondimeno lo ascoltavo affascinato in virtù del suo dire incalzante, sottolineato da brevi pause riflessive, reso ancor più eloquente e stimolante dalla vivace mutevole mimica e dal gestire misurato, esso stesso espressivo della verità rivissuta nel momento del dire.
Ricordo ancora le sue parole testuali quando parlando della sociologia genovese, ne individuava uno dei massimi valori nella esaltata considerazione delle “palanche”. In proposito raccontò di un giovane magistrato che, trasferito a Genova, ritenne, prima di prendere possesso del proprio ufficio, rendere visita di cortesia al Presidente del Tribunale, recandosi nella di lui abitazione. Ma il portiere dello stabile, sentendone il nome e il titolo onorifico (commendatore o grande ufficiale) continuava a negarne la presenza nello stabile. Solo dopo reiterate insistenze dell’emozionato (e magari innervosito) magistrato che sapeva di essere atteso per una certa ora, il portiere, scavando nell’angolo grigio della memoria, con un gesto vago ed annoiato finalmente precisò: “Ah, quell’impiegò du tribunà…al piano…x”. Evidente che l’autorevolezza per lui non nasceva dalla funzione ma dalla quantità di “palanche” disponibili.
Satta parlava delle proprie esperienze con calore, direi passione, tanto da coinvolgere anche la mia curiosità; ascoltavo i suoi discorsi sognando il mondo lontano, mitico, vario, splendente ed importante di cui raccontava episodi ed ambienti.
Capii che era uomo di alta cultura e di etica severa anche in virtù di un episodio che ricordo e, se ne fossi capace, ripeterei con le sue parole ed il tono battagliero con cui ci raccontò di una commissione della quale faceva parte e che voleva, nella maggioranza, attribuire cattedra universitaria ad un così detto studioso che lui considerava immeritevole per mediocrità ed irrilevanza di titoli. Dopo aver fronteggiato vittoriosamente una prima fase, si sentì opporre un titolo di alta dottrina quale “Le osservazioni al Butera”. Salvatore Satta, che evidentemente le aveva già lette, ribattè con fermezza e, forse, sfida: “Vediamo le osservazioni al Butera!” – Non ci fu bisogno, l’aspirante, pur possentemente sostenuto, fu subito abbandonato e non ebbe la cattedra.
Avendone l’immagine ancora presente, vibrante di tensione sia nel dire che nell’ascoltare, posso raccontare come i suoi interessi, sin dagli anni giovanili non si esaurissero nello studio ed insegnamento del diritto, ma lo sospingessero nell’intimità di un io pensante, mistico, affascinato da orizzonti illuminati da spiritualità sensibile a sentimenti ed empiti che coglieva ed elaborava nella solitudine di riflessioni popolate da personaggi che prendevano vita nella sua fantasia creativa; li faceva protagonisti di speranze, dubbi e fede infondendo loro forza di verità che riluceva fra le righe dei suoi scritti. Ne parlava con mio fratello citando titoli che mi colpivano per la loro sintesi poetica ma che non trovavo nelle librerie nuoresi.
Scoprii così, ultra cinquantenne, un Salvatore Satta più intuito che conosciuto quando lessi, nell’edizione CEDAM “Il giorno del giudizio”. Lo lessi avidamente, affascinato dallo stile, dalla profondità e complessità del pensiero nel quale emergeva un quotidiano sofferto e doloroso, fatto di speranze e delusioni alimentate da un’umanità paesana, capita, giudicata e, pur nell’amarezza, amata. Un affresco ricco ma statico, intessuto di una narrazione resa avvincente dal supporto della cultura ed intelligenza giuridica che in lui fondono in modo inscindibile con quella letteraria.
Consentitemi una breve parentesi che mi sembra interessante per meglio capire il personaggio. Iniziò a Nuoro la professione forense, dedicando ad ogni causa, secondo sua vocazione, l’approfondito studio delle dottrine giuridiche connesse al caso trattato, individuando le tesi che, a suo avviso, gli davano ragione. Il “fatto”, che di tutte le cause è il cuore pulsante per lui, dottrinario, era di per sé un episodio e quindi, nel contesto delle “memorie”, marginalmente richiamato. I giudici si trovavano così a studiare interessanti pagine di cultura giuridica, occasionalmente connesse al fatto dedotto in giudizio. Non tardò a convincersi che la sua strada era un’altra ed emerse così il Maestro Salvatore Satta. Maestro che s’impose all’attenzione rispettosa ed ammirata degli studiosi per l’alto insegnamento che promanava dalle sue lezioni e dai ponderosi trattati che diventavano da subito, ed ancora sono, punto di riferimento nella cultura giuridica. Né si può dire che avesse abbandonato la professione di avvocato perché anche in questo campo divenne in breve tempo ascoltato consulente dei più importanti avvocati italiani, che, nelle liti, si facevano forti del suo parere.
Tornando allo scrittore, non posso tacere la conflittualità suscitata nel mio animo da una lettura così profonda, popolata di personaggi e riflessioni veri e coinvolgenti. Si rivive una Nuoro letta nelle pietre che ne delimitano gli aspri profili, trasfigurata e, come dire?, imprigionata in un’atmosfera statica conchiusa nell’anello invalicabile del “Giudizio”, ove peccato e reato si fondono nella comune genesi etico-religiosa che dal colle di Santa Maria – ove la Chiesa e il Tribunale si fronteggiano – scivolano all’inesorabile traguardo di “Sa ‘e Manca” – il cimitero – ove riposano coloro che mai furon vivi perché non creativi.
È a questo punto che in me sorge l’interiore conflittualità. Sì, perché accanto alla Nuoro statica, grigia, senza passato né futuro che viveva gli inutili giorni delle invidie, delle violenze, come dei vuoti conversari nel caffè Tettamanzi, conviveva un paese solare, palpitante di una creatività sensibile alla nobiltà dell’arte come al lavoro, quello duro del pastore e del contadino e quello più raffinato, ma non meno difficile, della pleiade di intellettuali, che sapevano trasfigurare gli umani interiori tormenti nei colori della pittura o nelle linee, forti e delicate, della scultura, come leggerli nella disadorna sintesi delle norme giuridiche.
Nuoro contava allora poco più di settemila abitanti, ma esprimeva le intense, travolgenti passioni evocate dall’arte narrativa di Grazia Deledda o gli epici pastori radicati come lecci fra le aspre rocciaie della Barbagia, o librati nei cieli azzurri fra montagne e mare sulle ali dell’aquilastro predatore, non per fame d’altrui, ma per sogno amaro di potenza, cantati dal dannunziano Sebastiano Satta.
Quella era una Nuoro radiosa che diffondeva messaggi universali attraverso la limpida purezza delle linee compiute ma vibranti di vitalità interiore delle sculture di Francesco Ciusa che ha consegnato al mondo (fra le opere di una Sardegna ora gioiosa e spensierata del ragazzo che lancia un sasso al sereno raccoglimento della contadina che lavora nel grembo il pane), l’arido, silente dolore, chiuso ed intenso della Madre dell’ucciso: eterno emblema del dolore universale. Perché poi non parlare del sommesso brusio che si effonde dal diffuso verdeggiare di alberi, cespugli e fieni dei paesaggi di Antonio Ballero o delle ingenue ma vigorose immagini di Congiu Pes o dei limpidi ritratti delle giovinette di Ciusa Romagna affascinato dal raccoglimento dei fedeli in processione, quasi una regale galleria di principi nobilitati dagli splendidi costumi di un’antica sardità.
Come trascurare la luminosa schiera d’umanisti, letterati, grandi professionisti che onoravano per cultura e professionalità Nuoro e la Sardegna in uno ai vari poeti in limba, ora micidiali nell’ironia verso il potente prepotente, ora delicati cantori non tanto della donna amata, quanto della Nuoro di cui si sentivano palpito e vita.
Ho altresì sofferto leggendo le fascinose pagine dedicate ai fratelli che ho conosciuto, stimato e, come nel caso dell’avvocato Filippo, seguito quale maestro di professione e di vita, o di Giacomo, unico notaio della città e di decine di paesi attorno; parco di parole ma non di generosi, disinteressati consigli verso tutti coloro che per ragioni professionali a lui si rivolgevano; ma lo era soprattutto con i più poveri che ascoltava con pazienza e rispetto aiutandoli a definire i loro problemi, evitando liti o contrasti e, – data la natura della professione – fra eredi. Giacomo, padre di Fausto mio compagno di scuola, di studi, di vita.
No, Salvatore Satta si è immerso in una Nuoro che amava e conosceva per valori e disvalori e ne ha scritto alcuni aspetti dominanti offrendone una sintesi complessa, apparentemente vivace, dinamica, violenta e chiaccherata, ma sostanzialmente immutabile e statica. Protagonista del suo libro non è pertanto alcuno dei nominati, ma quella Nuoro che aveva in cuore sofferta ed amata, consegnandola non agli uomini di cultura, ma al mondo. Per la forza e bellezza del suo atto d’amore oggi Nuoro è una realtà capita ed amata nel mondo.
Concludendo, non saprei dire se quella Nuoro uscita splendente dal suo libro è il lampeggiare di una gemma preziosa o il luccichio di una lacrima per la madre perduta.