Nuoro, 15 marzo 2002
Era ed è rimasto bagliore di luce cui immergersi per capire, sentire, entusiasmarsi e razionalizzare l’utopia.
Questa è l’immagine (e l’insegnamento) che ho di Antonio Simon Mossa, architetto di professione, poeta di armonie territoriali, urbanistiche, umane e politiche. Come definire la personalità, che resta nella solitudine del suo elevarsi sul fiacco scorrere del quotidiano, sensibile al palpito di un’umanità sofferta ma creativa, oppressa ma indomita? Sapeva leggere oltre i lontani orizzonti delle vaste solitudini sarde il fermento vitale del territorio, i problemi insoluti ed aggrovigliati della società sospinta nell’emarginazione da poteri esterni, lontani eppur incombenti, capaci di imperio, incapaci di solidarietà, ingordi dell’altrui.
Era figlio d’arte. Tra gli ascendenti catalano-algheresi, di rocciosa forza morale, due fratelli Simon – suoi zii – combattenti esuli di profonda fede angioiana, mai rinnegata. Il padre, professor Italo Simon, è stato uno dei più grandi scienziati-ricercatori di farmacologia che, nel secolo appena trascorso, insegnava nelle Università italiane. Fra le altre scoperte intuì e mise a punto l’aspichnina “per curare i fratelli sardi” falcidiati dalla malaria.
Quale caratteristica dominante esprimeva la personalità di Antonio Simon Mossa? Si sarebbe portati a individuarla nella cultura. Parlava correntemente, oltre il sardo logudorese, lo spagnolo, il catalano, l’inglese, il francese ed il tedesco (ovviamente l’italiano); ne conosceva le letterature, i valori, la storia, i dibattiti sui progetti di futuro. Tutto lo interessava e studiava. Ancora studente universitario capì che il cinema era una nuova forma d’arte, capace di trasfigurare fatti di comune convivenza in momenti alti di umano sentire. Ne avvertì l’enorme potenziale diffusivo e l’influenza sui modelli di comportamento e valori sociali del nostro tempo. Con umiltà e grande impegno fu creativo collaboratore di celebri registi diventandone ora il cosiddetto “aiuto”, ora scenografo e sceneggiatore.
Ma Antonio Simon Mossa era, per naturale vocazione, architetto; amava le linee come momenti vibranti e armoniosi di accoglienze confortevoli e rassicuranti sia nel progettare alberghi che ospedali, case od altre opere che il suo errabondo razionalismo sognava e realizzava in Sardegna e nel mondo. Tra le opere più significative, senza escludere le tante che non ho visto, ricorderei il Museo del Costume di Nuoro ove, in breve spazio, è riuscito ad evocare immagini di vivere paesano con stradine, slarghi, botteghe artigiane e contadine in un contesto di volumi, sale e saloni ove sono esposti, con sobrio nitore, le suggestive bellezze di costumi, gioielli e comune oggettistica sarda; cultura, tradizioni e creatività popolare si fondono nell’unicità progettuale dell’artista rispettoso di valori, sentimenti, passioni e sogno di un passato non irrigidito dall’ambiente museale, ma riproposto come momento complessivo di una civiltà ancora viva e cara al cuore del popolo.
Fantasia e razionalità erano nell’intelligenza di Antonio Simon Mossa in rapporto essenziale; nella compiuta bellezza della sintesi non v’era spazio per enfasi ed ampollosità. Fra le altre opere che mi hanno particolarmente colpito: l’ospedale ortopedico di Alghero e un albergo (dal poetico nome di “Abi d’oru”) in quel di Olbia. Il primo per l’efficiente funzionalità al lavoro che vi si doveva svolgere e altresì per la rasserenante luminosità delle stanze riservate ai degenti. Appariva evidente l’intento del progettista di offrire a sofferenza e speranza il clima rassicurante della protezione ambientale. L’Abi d’oru, ove mi recai con lui, mi colpì per l’armonia delle linee volumetriche ed il rapporto quasi parlante della costruzione fra lentischi, spiaggia e mare.
Antonio Simon era uomo di libertà, consapevole che questa non è mai grazioso dono del principe ma sofferta conquista di popolo che ne è geloso custode e difensore, ben sapendo per antica esperienza come, pur essendo la libertà bene immateriale, corre costante rischio d’essere imprigionata dalla violenza del potere che mal sopporta il giudizio critico dell’opinione pubblica. Antonio viveva la libertà come forza creativa. In Lui intuizione ed elaborazione si fondevano nell’operare incessante; efficienza, funzionalità e fascino avevano il respiro dell’originale, unico, irripetibile. Nulla era scontato e, pur nel rispetto della più rigorosa coerenza, riusciva sia nel dire che nel fare a dischiudere nuovi orizzonti ed a rendere più nitidi, ampi e profondi quelli conosciuti.
In nome di questi valori Antonio Simon Mossa è divenuto uno dei protagonisti del moderno sardismo. Ha interpretato l’impegno politico con dedizione totale, quasi una missione dando concreta attuazione al postulato di Camillo Bellieni che definì la lotta sardista per l’autonomia “arte, sapienza, religione”. Più che politico era un mistico servitore ideale di giustizia; la sensibilità dell’artista in uno all’umano empito generoso si fondevano nel messaggio di libertà e forza politica che donava al Partito, alla pattuglia dei militanti, senza attendere e neppure ipotizzare gratificazione alcuna.
Le sue candidature erano donazione di sé, del prestigio del proprio nome ben certo che questo non lo avrebbe portato né a Montecitorio né a Palazzo Madama. Durante la campagna elettorale spariva, per non parlare di sé! La sua era un’ambizione corale, non personale. Dico di più: non tutte le decisioni del partito avevano il suo pieno gradimento; nonostante ciò era il militante più attivo nell’attuarne le direttive, né mai ebbe a polemizzare con la politica del Partito che, salvo qualche riserva, condivideva.
Fu Segretario Provinciale a Sassari. In questa veste come dire, gerarchica a lui inconsueta profondeva pieno impegno nel richiamare il dovere gravante su ogni sardo volto a scrollare di dosso al nostro popolo la subalternità, l’emarginazione, il sottosviluppo. Richiamava tutti, con rigore politico, alla necessità di superare l’esistente facendo della Sardegna una regione autonoma (rectius indipendente) dotata di proprio governo e parlamento liberamente eletti dal popolo. Forse era tendenzialmente separatista (nei confronti dell’Italia), ma non aprì mai una polemica su questo punto, appoggiando l’ideale della grande federazione dei popoli europei aperta al dialogo con il mondo, e – data la nostra posizione geografica – con i paesi rivieraschi del Mediterraneo e in particolare con il Nord Africa.
Era consapevole dell’insofferenza popolare al greve peso del potere esterno e, per contro, del tenace resistenzialismo che ha salvaguardato nei secoli valori, identità, tradizioni, cultura e lingua; conosceva altresì il vischioso servilismo di larga parte della cosiddetta classe dirigente locale che, rinnegando se stessa e il proprio ruolo, disperdeva dignità ed energie in sorde liti per conquistare la pelosa benevolenza dei potenti d’oltre mare. Non aveva il dono dell’oratoria; parlava, spiegando all’interlocutore intellettuale, o contadino, con linguaggio disadorno, concetti che, pur complessi, diventavano nel suo dire semplici, avvincenti e convincenti.
Era un politico che aveva il dono dell’utopia. Arricchì il grande patrimonio ideale sardista dimostrando come la coscienza dell’identità non si conquisti solo con la plurisecolare resistenza all’oppressione e, più in generale, all’ingiustizia, ma riscoprendo ed esaltando il valore unificante dell’appartenenza e della lingua per nulla indebolita dalle varianti più apparenti e marginali che sostanziali. Spiegò a sardisti (e non) come lingue diverse siano all’origine di popoli diversi. Non per questo nemici, ma diversi.
La lingua infatti è avvertita dal neonato nei dolci monologhi materni quale sommessa musica che lo accompagna e gli dà sicurezza nel lungo anno nel corso del quale gli stimoli diventano sempre più coscienti e si trasformano magicamente in lingua nel giorno in cui, forse sospinto dall’onda affettiva, pronunzia per la prima volta la parola “mamma”.
Così, per tutta l’umanità, ha inizio la formazione culturale. Diventa ogni giorno più ricca e complessa esprimendo qualità, temperamento e vocazioni del soggetto che va sempre più identificandosi con la lingua che gli consente di dare un nome agli oggetti, ricchi o poveri della casa, del lavoro, dei fenomeni naturali (dal mormorio delle acque, alla solennità silente degli orizzonti) come, per altro, al rapporto con gli altri, con le persone amate, con l’inconfessata aspirazione di conquista dell’amore o di un primato fra le tante sfide proposte dalla vita. La lingua diventa così strumento di lavoro, messaggio d’amicizia, scambio culturale, forza creativa di civiltà; dà voce alla fantasia diventando favola, racconto, poesia. La poesia che gli aedi in Sardegna improvvisano, nel corso di tradizionali gare cantandole dinanzi a folle assetate di sardità. Nelle loro rime, vibranti ora di sentimenti delicati e profondi ora di polemica comparativa (com’è per sua natura la gara) evocano la vita di lavoro, sogno e preghiera di un mondo pastoral-contadino che proprio nella lingua – e sue varianti – ha il pilastro portante dell’architettura concettuale ma, soprattutto l’originalità etica della sua genesi: una sorgente viva che si rinnova nell’esperienza del quotidiano ed offre una particolare visione del mondo che la lingua interpreta diffondendone i valori universali.
Personalmente sono debitore grato ad Antonio Simon Mossa d’avermi condotto per mano, subito dopo la mia elezione a Consigliere regionale (estate 1969) attraverso i sentieri – allora a me sconosciuti – di culture minoritarie, sommerse ed oppresse da statualità europee governate da etnie maggioritarie. Con garbo, senza ombra di saccenteria, mi ha guidato per l’Europa delle piccole patrie (inesistenti per i rispettivi governi) facendomi incontrare, discutere e capire le diverse realtà umane fervidamente impegnate ad aprire spazi di libertà per popoli che avevano saputo difendere e conservare la propria identità etno-storica, cultura, lingua, sviluppo economico, gestione del territorio, tradizioni, usi e costumi costituenti, nel loro insieme, civiltà.
Antonio mi sottopose – senza parere – a un approfondito quanto rigoroso riscontro del valore universale del sardismo; testimonianza attiva di libertà. Se oggi, dopo millenni di violenze repressive, guerre, colonizzazioni, deportazioni, genocidi, carcerazioni, perdita del posto di lavoro ed esili, possiamo confrontarci e, in libertà, parlare sul come costruire l’Europa dei popoli, lo dobbiamo, in larga misura, ai sardismi del mondo. Coerente all’insegnamento dei fondatori del Partito e ai deliberati dei loro congressi, Antonio Simon Mossa vedeva nell’autonomia federalista la via maestra all’internazionalismo, alla pace, alla rottura dei vecchi schemi burocratico-nazional-centralisti, ma soprattutto, alle mille vie del dialogo, confronto e solidarietà.
Con severa razionalità e passione democratica intuiva il necessario rapporto fra libertà e responsabilità; fra l’essere popolo autonomo (Lui direbbe “indipendente”) e l’attiva partecipazione alla grande Patria Europeo-Mediterranea. Sentiva e ci faceva sentire cittadini del mondo. L’internazionalismo trovava, per lui, base naturale nel regionalismo e per quanto ci riguarda, nella nazione sarda; non a caso fu fra i promotori dell’istituzione del “Premio letterario Ozieri” riservato a poeti in lingua sarda. Solo la rozzezza di un provincialismo duro a morire pensa che far parlare i sardi nella loro lingua li imprigioni in un passato pastorale nomade, ormai superato da moderne forme di allevamento zootecnico, gestione aziendale, rapporti con mercati e tecnologie che vanno dall’automatismo all’uso quotidiano delle comunicazioni e dell’elettronica.
È del tutto evidente che le nuove generazioni, accanto al sardo e all’italiano (che la grande maggioranza di noi parlano ed amano) devono imparare a parlare altre lingue straniere. Dobbiamo dialogare con il mondo conoscendone cultura e valori senza per questo rinunziare a essere noi stessi. I più recenti studi di sociologia affermano come la moltiplicazione dei rapporti internazionali abbia rafforzato le identità dei piccoli popoli ai quali è così consentito di distinguere il diverso da sé rafforzando le solidarietà fra i componenti la stessa etno-nazione; da non confondere con il nazionalismo, antitesi della nazione. Il primo violento ed espansionista, la seconda pacifista, aperta al dialogo, gelosa della sua autonomia, quanto solidale sia all’interno della comunità di appartenenza quanto nei rapporti con le altre realtà umane, rese partecipi delle proprie esperienze creative e dalle quali apprendere valori frutto del loro impegno.
Queste cose Antonio Simon Mossa le pensava, praticava e, con l’esempio e la parola, le insegnava; chi lo ignorasse o lo avesse dimenticato legga l’intensa attività giornalistica che testimonia la sua capacità intellettuale e culturale nel seguire fatti nazionali e internazionali nei diversi campi dell’umano sapere e l’impatto che questi avrebbero potuto esercitare sul nostro futuro culturale, politico-istituzionale ed economico.
Nel suo infaticabile operare v’è una logica interiore che riconduce a unità i molteplici impegni cui si dedicava. Ricercando con sentimento d’affetto nel suo eclettismo (l’intellettuale studioso che nulla concedeva all’appariscente, o l’amico disponibile sino al sacrificio, o il geniale architetto, o l’internazionalista parlante sei, sette lingue, o il militante politico, e così via) si scopre che, in fondo, al centro di tutti i suoi interessi v’è l’uomo, con i suoi problemi, esigenze e speranze. L’uomo che guarda l’infinito pur operando nel ristretto spazio che la vita riserva a ciascuno di noi
Era personaggio imprevedibile. Un giorno lo accompagnai a Lula ove eravamo attesi dalla sezione sardista nota per la sua combattività; oltre la militanza rurale e pochi intellettuali era presente nella sezione una componente operaia formata da minatori. I temi all’ordine del giorno erano costituiti da possibili iniziative per fronteggiare la diffusa crisi sociale che investiva non solo il settore agro-pastorale ma la stessa attività mineraria minacciata da incombente crisi. A Lula il Partito aveva già attivato una cooperativa di produzione e consumo nel settore agricolo per cui, nell’avviarmi all’incontro riflettevo su nuove iniziative da proporre al finanziamento delle istituzioni Regionali riservandomi di ascoltare le proposte degli amici locali.
Inopinatamente, dopo la cordialità dei saluti, Antonio Simon Mossa affrontò un argomento che in Sardegna e nello stesso Partito Sardo era oggetto di discussione abbastanza rara, riservata di norma, agli uomini di cultura: la salvaguardia della lingua sarda attraverso l’insegnamento scolastico e l’uso normale nei rapporti dei cittadini con le pubbliche istituzioni. Ne fui sconcertato e tentai di ricondurre il dibattito sui temi dell’attualità sociale lulese. Il mio tentativo fu vano e vana la breve polemica che seguì fra noi.
In effetti durante gli incontri avuti nel corso del viaggio che con la sua guida, l’anno prima, avevo effettuato nell’Europa delle piccole patrie, avevo colto il problema della lingua come momento rilevante di lotta e difesa dell’autonomia culturale, ma non ne avevo capito il potenziale aggregante della base popolare e le relative implicazioni politiche. Venivo dalla Sardegna, ove povertà, disoccupazione, mancanza diffusa delle infrastrutture più elementari (edifici scolastici, ospedali, acquedotti, impianti fognari, reti elettriche, portualità, linee ferroviarie e così continuando) determinavano, da un lato la diaspora sociale rappresentata dall’emigrazione di massa (un terzo della popolazione globale; molto più del cinquanta per cento di quella attiva) e dall’altro la mobilitazione per denunziare la disgregante pericolosità del fenomeno, la responsabilità politica del governo e la necessità di una lotta unitaria perché, attraverso l’autonomia, potessimo fronteggiare con una nostra politica il gravissimo fenomeno che non era congiunturale ma trovava salde e devastanti radici nei secoli di oppressione dei diversi invasori.
Il Partito stesso sollecitava allora la nostra sensibilità e impegno per diffondere fra la gente la consapevolezza che solo con l’unità delle forze popolari avremmo bloccato l’emorragia delle energie vitali della nostra Isola, ponendo finalmente mano ad una politica costruttiva volta a dar dignità, autorevolezza e capacità concretamente operative al nostro governo. D’altra parte i miei interlocutori europei non avevano alcuno dei problemi di cui ho parlato. Baschi e catalani godono dell’economia più forte ed avanzata dei paesi iberici: così i provenzali, in parte i bretoni ed i gallesi mentre solo il nord della Scozia e le sue isole soffrono di grave arretratezza economica e conseguente dissesto sociale.
No! Non avevo capito ed ho polemizzato. Anche di questo sono grato ad Antonio Simon Mossa e gli è grata la Sardegna.
La lingua è forza primigenia che palpita nel dolce parlare materno, diventa gioioso strumento delle prime esperienze di vita e amicizie infantili, cresce con gli anni nella maturazione dei problemi, responsabilità, entusiasmi, sofferenze e speranze. La lingua è musica che riscalda il cuore dell’emigrato ed è intelligenza interpretativa del mondo. L’intelletto legge la realtà che lo circonda con un parlare che non è fatto solo di parole ma di costruzioni concettuali che esprimono creatività, sentimenti e valori etici. La lingua unisce senza costrizioni e, con la forza dei sentimenti, diventa messaggio, incontro, progetto di futuro. Attraverso la lingua si riconosce il diverso da sé e si rafforza la solidarietà fra gli appartenenti alla comune famiglia etnica.
Sulla generosità di Antonio Simon Mossa, vorrei ricordare due casi che mi paiono emblematici.
A) Quando mi accompagnò nel lungo faticoso viaggio attraverso l’Europa già soffriva in modo palese dell’inesorabile male che, poco tempo dopo, ne causò la morte. Questo suo donarsi sottoponendosi a fatiche dolorose per consentire al Partito di contare su di un rappresentante più preparato di quanto l’iniziale inesperienza non gli consentisse, ne esalta e sublima la grande anima capace di silente eroismo. Meno importante ma pur significativo: non accettò che gli rimborsassi le non lievi spese che per almeno il cinquanta per cento del totale affrontò in proprio durante un viaggio durato alcune settimane.
B) In questo spirito, e nell’indifferenza delle autorità locali e regionali sullo stato di degrado del così detto “Ospedale Marino” di Alghero, (ridotto a cronicario per lungo degenti ove per altro già operava una qualificata equipe di specialisti ortopedici), fece dono alla città del progetto dell’odierno moderno Ospedale Ortopedico che ha sostituito il vecchio cronicario.
Quando l’Ospedale fu realizzato lui era già morto. Come non restare ammirati e commossi della sensibilità dimostrata nel cogliere un così rilevante problema sociale costringendo – con sacrificio e dono proprio – le autorità a farsene finalmente carico e a concretamente risolverlo.
Altro episodio che mi piace ricordare, atteso il prestigio internazionale che faceva di Antonio Simon Mossa un punto di riferimento del vasto movimento politico-culturale che si opponeva al potere oppressivo delle Nazioni-Stato, è costituito da un occasionale incontro che, avemmo con Giangiacomo Feltrinelli. Dopo un’interessante, vivace conferenza che Antonio svolse a Nuoro, ci recammo a pranzo in un ristorante sul Monte Ortobene. Ci raggiunse quasi subito Giangiacomo Feltrinelli (in compagnia di Cesare Pirisi) e, sedutosi al nostro tavolo, dopo aver acceso una girandola di fuochi artificiali sulla rivoluzione cubana e suoi personaggi chiese a noi un giudizio comparativo con la Sardegna.
Antonio Simon Mossa, che intratteneva rapporti di amicizia con il padre di Che Guevara ed era studioso dei problemi dell’America Latina e in particolare di Cuba (non a caso firmava molti articoli della sua intensa attività giornalistica con lo pseudonimo di “Fidel”) ricondusse il discorso nella semplicità della sua logica tanto razionale che passionale.
Ricordò che Cuba nasceva dalla rivoluzione contro Fulgenzio Batista, dittatore corrotto, al servizio del peggior capitale nord americano, mentre noi lottavamo, senza armi, ma con eguale tensione, per la riforma dello Stato da central-burocratico in federalista e, in ogni caso, per conquistare un’autonomia dotata di sovranità propria. Di più, confermando l’appartenenza della Sardegna alla grande famiglia dei popoli europei ne prefigurava un rilevante ruolo internazionale. In tale prospettiva i porti sardi sarebbero diventati punto di approdo e scambio delle merci d’oltre oceano con i paesi rivieraschi del Mediterraneo (soprattutto Nord Occidentale, Nord Africa, Spagna, parte della Francia ed Italia). Questo essenziale servizio (di cui in parte beneficerebbero gli operatori economici sardi) reso al commercio mondiale, avrebbe avuto il pregio di offrire una sede all’incontro di culture, tradizioni e modelli sociali diversi.
Antonio Simon Mossa era un uomo di rigore politico che nulla concedeva alla retorica parolaia vivendo con sentimento rovente l’impegno di realizzare gli obiettivi individuati del Partito e da lui fatti propri.
Grazie Antonio, maestro e compagno di lotta, che hai onorato l’Isola e noi dei tuoi insegnamenti ed esempi. Sei rimasto nel firmamento sardista una stella che illumina la mente, infonde energia, riscalda i nostri cuori e resta alta nel cielo, senza tramonto.