Riscontro significativo a questa linea di tendenza è costituito dall’annunciato programma di dare vita al partito delle cento città cui i sindaci delle maggiori fra queste (Roma, Napoli, Torino, Milano, Venezia e Catania) stavano concretamente elaborando programmi e ruolo per diventare protagoniste prima del cosiddetto federalismo all’italiana.
Il ruolo delle Regioni viene così ridotto a centro burocratico cui riservare l’ingrato compito di dare attuazione nel contado alle decisioni assunte nei capoluoghi cittadini depositari ieri come domani dei reali poteri istituzionali, economici, culturali e, dato l’insediamento cardinalizio nelle maggiori diocesi, anche spirituali.
Il problema non è di poco momento e rischia di coinvolgere non solo l’ipotesi federalista ma anche l’attuale struttura regionalista dello Stato. Già nel dibattito della Costituente alla tesi di un federalismo fondato sulle Regioni si oppose che la tradizione italiana, ignorando le Regioni si riconosceva nel ruolo di un grande municipalismo che, pur vero come fatto di potere confina con l’ambiguo diventando per il resto manifesto falso storico.
Accanto ai Comuni di Firenze, Milano, Ferrara, Urbino ed altri minori, l’Italia era dominata da statualità che dal Regno delle due Sicilie si estendeva attraverso lo Stato del Vaticano sin oltre Bologna per rifiorire nel Principato di Piemonte divenuto sin dal 1720 Regno di Sardegna il cui territorio si estendeva dalla Valle d’Aosta alla Liguria ricoprendo, se pur nei fatti considerata colonia la Sardegna stessa.
Gli stessi grandi Municipi peraltro erano tali solo in apparenza perché in effetti costituivano a loro volta capoluogo di stati i cui territori si estendevano ben oltre le mura cittadine.
Milano infatti oltre Brescia, Pavia, Mantova, Cremona, Monza governava con Brianza e Valtellina, oltre lo Stelvio, territori che oggi fanno parte della Repubblica Elvetica, mentre la Repubblica Veneta confinava a nord col Piemonte ed a sud giungeva sin nel cuore della Dalmazia che anche oggi conserva i preziosi monumenti fioriti nello spirito della sua civiltà.
I Municipi erano per l’appunto capoluoghi di statualità regionali coincidenti in larga misura con l’attuale struttura regionalista dello Stato.
Né giova alla tesi di un federalismo dominato dalle grandi municipalità il ruolo oppressivo da queste esercitato sul contado a prevalente vocazione rurale.
In realtà il mondo rurale costituente la stragrande maggioranza demografica è stato costretto dal mercato dei consumi cittadini a produrre secondo le esigenze di questi subendone lo sfruttamento attraverso l’imposizione di prezzi e sistemi fiscali che mortificandone l’economia e il ruolo ne impediva lo svolgimento economico, sociale ed, in larga misura, anche civile.
Si è così andata sviluppando nella storia la tendenza all’inurbamento e, con l’affermarsi dell’industrializzazione, la progressiva desertificazione delle campagne.
Dare alle città col potere economico anche quello politico e di governo significherebbe determinare un grave ulteriore squilibrio nel rapporto città – campagna fra produzione industriale dei servizi e quella agricola con fenomeni di concentrazione finanziaria occupativa e sociale ben difficilmente reversibile.
La stessa agricoltura finirebbe con l’affidarsi a processi di produzione industriale che sconvolgendo valori biologici, sociali e culturali ridurrebbe l’agronomia a laboratori chimici gestiti dalle grani aziende scientificamente organizzate nel produrre immagine suscitando bisogni e consumi sempre più lontani da una vita radicata nella realtà di una natura impoverita e spoglia delle sue naturali capacità.
Ecco perché non dobbiamo rinunziare alla specialità del nostro Statuto di governo.
Il futuro del federalismo resta un interrogativo cui allo Stato è ben difficile dare risposte attendibili e prospettive affidabili.
Come non capire la carica di egoismo venuta peraltro da tensioni razziste ed intolleranze religiose, che fluttuano nei discorsi, pur contraddittori ma su questi punti convergenti dalla destra italiana cui non è estranea una certa parte della chiesa.
Il concetto di Stato riprendendo e deformando tesi filosofiche sulla sua genesi contrattuale e quindi sulla convergenza degli interessi, mancando la quale viene a cessare la sua ragion d’essere, ne nega uno dei fondamenti basilari delle federalismo: la solidarietà.
Questa tesi che è all’origine della Lega Lombarda, teorizzata a suo tempo dall’ideologo prof. Miglio e conclamata pur attraverso riti apparentemente folcloristici quali la sacralità delle sorgenti del Po, costituisce il credo primigenio della Lega Lombarda, del nordismo sempre più intollerante di terroni come degli alieni di diversa pelle e religione, assunta da Berlusconi e da Forza Italia che pur è condivisa nei fini, riserva i possibili contrasti solo alla spartizione del potere alla cui conquista sono l’uno e l’altro essenziali.
Certo che il nostro compito resta fondamentalmente quello tracciato negli anni ’20 dai fondatori del regionalismo federalista e di ciò dobbiamo sentirci orgogliosi protagonisti, proprio noi sardi perché in questo secolo ne siamo stati, con la formazione di un partito politico, i primi e più convinti assertori.
L’inveterato centralismo della classe politica Italia lasciano del tutto immutata la struttura verticistica del potere gestito attraverso il Parlamento da partiti rigorosamente gerarchizzati con vertici decisionali a Roma e subalterni esecutivi in provincia, ci ha riconosciuto uno statuto speciale la cui importanza sta non tanto nell’articolazione dei poteri, peraltro revocabili, quanto nel riconoscimento della specialità dello Statuto il che comporta una diversità sarda non riconducibile si et simpliciter, allo schema di governo valido per il territorio italiano.
Certo un governo realmente federalista non limita né revoca, perché la Costituzione non lo consente, i poteri degli stati federati e questi assumono piena responsabilità politica ed istituzionale dei rispettivi popoli e territori; nel rispetto del quadro di riferimento che riconosce al potere federale alcune funzioni essenziali alla feconda operatività dello Stato.
Questo concetto valido in linea di principio prevede però eccezioni correlate a peculiarità storiche, economiche, culturali e geografiche.
Noi come i Valdostani e Sud Tirolesi non apparteniamo né per storia né per cultura alla Nazione italiana pur essendo leali cittadini di questo Stato.
Mazzini spiegava che Nazione è un popolo insediato in un territorio dai confini sufficientemente definiti, unito da comuni interessi economici, esperienze storiche, usi, tradizioni e costumi.
Scritto sul federalismo – Nuoro, 27 febbraio 2001
15 Maggio 2013 by