Conferenza regionale sulle Servitù militari

Regione Autonoma della Sardegna – Cagliari, Aprile 1981
CONFERENZA REGIONALE SULLE SERVITÙ MILITARI IN SARDEGNA – Relazione dell’Onorevole Mario Melis , Assessore Regionale della Difesa dell’Ambiente

Il dibattito sulla vasta e complessa tematica suggerita dalle servitù militari si colloca in un momento politico particolarmente difficile, caratterizzato da minacciose tensioni nei rapporti fra gli Stati.
Il problema aperto dal caso Polonia nell’Est Europeo, con il suo dirompente empito di libertà e di democrazia sociale, rimette in discussione equilibri stabilizzati nel tempo, mentre la crisi petrolifera ha creato vaste e profonde lacerazioni suscettibili di scatenare sviluppi devastanti a livello mondiale.
L’occupazione dell’Afghanistan da un lato, la guerra Iracheno-Iraniana dall’altro, costituiscono focolai che possono divampare coinvolgendo, in fronti contrapposti, i popoli della Terra.
A turbare in termini di più grave destabilizzazione il quadro degli equilibri mondiali, ha contribuito, con la decisione di accelerare la corsa agli armamenti, l’indirizzo di politica militare assunto dalla nuova amministrazione americana.
Tutto è sostanzialmente rimesso in discussione: dal modello di sviluppo dei Paesi ad alto indice di industrializzazione e quindi di consumi, al ruolo emergente del Terzo mondo sempre più consapevole di una sua propria forza che da subalterno lo trasforma in protagonista diretto e determinante della dinamica politica, ed in ultima analisi, della storia.
Il prevalere comunque nel quadro mondiale delle due superpotenze, mentre da un lato crea, nell’ambito delle rispettive zone di influenza, un forte impulso alla riconquista di una rinnovata capacità d’iniziativa politica nei singoli Stati, non di meno, per i condizionamenti che si determinano, costituisce l’elemento dominante dell’attuale assetto nel difficile equilibrio internazionale.
Né va taciuto il persistere di situazioni e condizioni sub-umane in vastissime aree dei continenti africano, asiatico e sud-americano nelle quali la mancanza dei più elementari presupposti di sopravvivenza determina la falcidia di milioni di creature per fame, malattie e calamità naturali non fronteggiate da un minimo di strutture ed organizzazioni civili.
Pur privi di una forza propria questi popoli costituiscono con la loro legittima istanza di integrazione economica e civile un elemento di squilibrio di tali proporzioni capace di innescare in qualunque momento, profonde turbative ben più ampie degli ambiti territoriali nei quali si svolge il dramma della loro esistenza.
Spinte economiche, contrasti ideologici, profonde differenze nell’indice di sviluppo e di evoluzione storica, hanno creato e creano divisioni profonde che spesso coinvolgono i popoli, al di là dei loro più veri e reali interessi rendendoli succubi di strategie egemoniche di cui diventano, loro malgrado, strumento.
Forme diverse di limitazione della libertà e dell’indipendenza degli Stati che vengono emblematicamente definiti di “finlandizzazione” e che interessano con intensità diversa molti fra i paesi del blocco orientale come di quello occidentale.
Questo, per grande sintesi, è il quadro del momento storico del nostro tempo che vede quotidianamente rinunciare a enormi risorse, frutto della creatività dei popoli, dei loro sacrifici, quando non anche di inique spoliazioni nella corsa generalizzata al riarmo.
Nonostante i tentativi posti in essere in questi ultimi decenni per frenare in qualche modo la folle propensione dell’umanità all’autodistruzione si è finito col privilegiare una politica di equilibri che si fonda sul terrore. Si spendono, secondo i dati ufficiali pubblicati nel 1979 dai diversi Stati, 500 mila miliardi. Cifra questa sicuramente superata ma che comunque sarebbe sufficiente a scongiurare automaticamente il problema della fame nel mondo.
L’Italia, in coerenza con l’art.11 della Costituzione, “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. In questo spirito ha sottoscritto un patto di alleanza difensivo che e meglio conosciuto come – patto Atlantico – la cui struttura militare prende il nome di NATO.
La nostra Regione, inscritta com’è nel contesto statuale italiano, pur denunciando con dura fermezza la pesante emarginazione sociale, economica e civile imposta dal Governo Centrale, non ritiene di doversi sottrarre al dovere di solidarietà nazionale e quindi, al pari delle altre regioni, quella parte di sacrifici e di rischi, che derivano dalla esigenza primaria di difesa del territorio nazionale.
Questo e non altro.
Siamo consapevoli del significato programmatico e precettivo insieme del dettato costituzionale che impegna la nostra comunità ad una politica di civile e fattiva collaborazione con gli altri popoli in un clima e nella prospettiva della pacifica convivenza, con questi.
Le nostre popolazioni sono mobilitate in questo impegno e non mancheranno di riaffermare anche in questa circostanza,il rifiuto delle armi come mezzo di soluzione delle controversie internazionali.
La Sardegna, per la generosità del suo popolo, ha pagato alla guerra un prezzo molto elevato di vite umane, scrivendo, anche nella recente storia di questo secolo luminose pagine di ineguagliabile valore. In questa dura esperienza ha maturato la certezza che solo nella pace si realizza il progresso in uno allo sviluppo economico, morale e quindi civile della sua gente.
I sardi accettano il patto di difesa prefigurato nella Carta Costituzionale come un fondamentale diritto naturale, intrinsecamente legato alla vita stessa.
Il tema delle servitù militari trova perciò la sua legittimazione essenzialmente in una politica di pace nella quale, prima ancora che le collettività regionali, i cittadini stessi si riconoscono.
In quest’ottica la difesa militare appare funzionale alla pace e non la sua antitesi. Espressione quindi di democrazia, di volontà popolare, prima ancora che elaborazione strategica studiata dagli Stati Maggiori. La storia ci offre in proposito esempi illuminanti di cui la guerra partigiana e l’ultimo esempio in ordine di tempo, non certo d’importanza.
A questo punto s’impone a tutti noi una rigorosa analisi per comprendere il diffuso senso di insofferenza che la Comunità dei Sardi avverte nei confronti dell’attuale presenza militare nell’Isola. Le cause sono molteplici ma su tutte prevale mio avviso quella di ordine politico.
Fra queste è da ricomprendere sicuramente la pesante sproporzione fra il peso delle servitù militari gravanti sull’Isola e quello imposto alla gran parte delle altre Regioni italiane. La mia non è un’affermazione soggettiva; si fonda su dati quantitativi e qualitativi di cui è testimonianza, fra l’altro, l’ordine del giorno 10 gennaio 1980 con il quale la Camera dei Deputati ha impegnato il Governo a porre in studio “un piano per la ridislocazione delle forze armate su territorio nazionale volto in particolare ad alleggerire le relative installazioni militari e servitù nelle Regioni Friuli-Venezia Giulia e Sardegna”.
Se in qualche misura si comprende la massiccia presenza delle Forze Armate nella Regione Friuli-Venezia Giulia, considerata naturale avamposto italiano nei confronti di ipotetici attacchi sferrati dai Paesi Orientali legati dal Patto di Varsavia, ben difficilmente si riesce ad individuare una spiegazione strategica nei confronti della Sardegna, il cui territorio viene utilizzato, secondo quanto si afferma, quasi esclusivamente per esercitazioni militari.
Pare del tutto evidente come tali esercitazioni possano svolgersi con eguale utilità in molte delle altre Regioni dello Stato.
A questo punto è legittimo ritenere che la scelta del territorio sardo non può avere che due spiegazioni possibili, entrambe inaccettabili:
1°- L’alto indice si spopolamento che si registra nelle zone interne della Sardegna anziché suggerire al Governo una vigorosa politica a sostegno dello sviluppo onde contenere gli imponenti fenomeni di emigrazione, disoccupazione e sottoccupazione, restituendo così alla vita, alla produzione ed al lavoro le vaste solitudini delle nostre campagne, ha considerato il fenomeno di per sé irreversibile ed ha colmato gli spazi vuoti con installazioni e servitù militari.
La politica della rinascita si rivela quindi solo un paravento, mentre emerge la visione di una Regione statica, ferma nel tempo, considerata area di servizio per i molteplici usi cui la comunità nazionale, di volta in volta, ritiene di poterla destinare.
L’ipotesi trova riscontri significativi nelle scelte industriali a suo tempo fatte dal Governo attraverso la monocultura petrolchimica e gli indirizzi espressi dall’attuale Governo in materia di PP.SS., indirizzi volti a salvaguardare l’esistente ma noma creare incrementi occupativi neppure di ordine modesto e tali comunque da segnare in qualche modo l’inizio di un’inversione di tendenza.
Né meno allarmanti appaiono in questo senso le dichiarazioni e gli atti concreti di governo in materia di collegamenti marittimi della Sardegna con il contesto italiano e Mediterraneo.
Lungi dal secondare il naturale processo di espansione economica e civile dell’Isola attraverso la sua integrazione con le altre Regioni italiane ed europee, il Ministero della Marina Mercantile minaccia di ridurre anche sul piano qualitativo e quantitativo, rispetto allo scorso anno, la capacità di trasporto dà e per la Sardegna.
La decisione del Ministero del Tesoro di fronteggiare la crisi finanziaria italiana applicando anche alla nostra Isola in violazione del suo Statuto le pesanti riduzioni sul trasferimento di risorse finanziarie, senza tenere in alcun conto la diversa capacità di reazione delle Regioni del Centro-Nord,la loro potenzialità autopropulsiva nella produzione di beni e servizi, al confronto di una Sardegna ridotta a livelli di pura sopravvivenza per la costante politica di emarginazione e di isolamento il rifiuto del Ministro dell’Industria di garantire alla Sardegna forme compensative delle risolse energetiche assicurate a tutte le altre Regioni Meridionali attraverso il metanodotto algerino, costituiscono solo alcuni ma significati vi esempi di come il mancato sviluppo appaia coerente con la scelta del Governo di fare della nostra Isola un’area di servizio per esercitazioni militari di ogni tipo e grado di pericolosità.
Questa diagnosi è sostanzialmente condivisa dalla stragrande maggioranza dei sardi, ma particolarmente avvertita e sofferta dai ceti sociali più emarginati. Non a caso la denuncia sull’eccessivo peso delle servitù militari ci viene, con passionale veemenza, dalle assemblee degli emigrati, come dalla gran massa dei disoccupati; non sono però soli.
Le assemblee di fabbrica vedono gli operai sensibili protagonisti di una costante denuncia che si riassume nella drammatica consonanza crisi occupativa – espansione delle servitù militari.
Né va dimenticato un altro fatto che deve far riflettere molto seriamente tutti noi: dal ’76 in poi le servitù militari in tutte le Regioni italiane si sono progressivamente ridotte, Friuli compreso, del 60% rispetto agli indici del 1976; in Sardegna, non solo non si sono ridotte, ma sono andate addirittura aumentando.
2°- La seconda ipotesi che, sempre sul piano della politica militare, potrebbe essere suggerita dal tipo e diversificazione della presenza militare nella nostra Isola, fa riferimento al ruolo strategico cui sembrerebbe chiamata ad assolvere nell’eventualità di conflitto. Anzitutto quella di base di controllo della navigazione marittima ed aerea nel Mediterraneo Centro-occidentale.
La presenza nella base navale della Maddalena di una nave appoggio americana per sommergibili a propulsione nucleare, l’attivazione in Decimo di uno dei più importanti aereoporti militari d’Europa in uno al poligono missilistico di Perdasdefogu, mal si conciliano con finalità volte a realizzare attività di sola esercitazione.
L’ipotesi che la Sardegna sia chiamata a sopportare quasi esclusivamente il peso del controllo sulla via del petrolio in questa vasta zona di mare ed a sopportare perciò il primo e più devastante impatto proveniente dalla Costa Nord Africana e dal vicino Medio Oriente, rimette in discussione il ruolo ‘esclusivamente difensivo della presenza militare in Sardegna e ci chiama perciò ad una più vigile presenza politica perché il dettato costituzionale e lo spirito informatore del patto di difesa non vengano in qualche modo fuorviati e stravolti nella loro pratica attuazione.
Non è certo mio proposito affermare che questa debba essere necessariamente l’interpretazione più aderente alla realtà dei fatti, ma credo fermamente che sarebbe da parte nostra colpevole superficialità non prospettare il problema sottoponendolo a continua valutazione nel dinamico evolversi delle situazioni quali si verranno a creare nel tempo.
Qualunque sia, comunque, la motivazione reale di una così elevata presenza militare in Sardegna va detto subito che questa va drasticamente ridotta sia sul piano quantitativo che qualitativo.
La Giunta Regionale, questa Giunta Regionale, si è preoccupata di elaborare un quadro di riferimento quanto più possibile vicino al reale, sollecitando dai Comandi Territoriali esistenti nell’Isola il censimento esatto delle installazioni militari distinte per ubicazione, ampiezza, natura, specializzazione, frequenza di impiego, condizionamenti, vincoli giuridici ed ogni altra utile notizia su situazioni che in qualsivoglia modo influiscano sull’assetto e la gestione del territorio.
In effetti, sino ad un mese fa, la Regione non disponeva di alcuna documentazione in proposito e, a maggior ragione, non ne disponevano i cittadini.
Voglio dare qui pubblicamente atto ai Comandanti Militari, in modo particolare al gen. Neri Loi ed all’Ammiraglio Carpani, della piena disponibilità dimostrata nel collaborare con l’Amministrazione Regionale ai fini di una presa di coscienza del problema.
Abbiamo così potuto elaborare il documento che è stato distribuito in questo Convegno.
Non escludo che possa essere in qualche parte incompleto soprattutto per quella parte di presenza militare coperta da segreto.
La prima considerazione che si ricava dalla lettura del documento elaborato dall’Assessore all’Ambiente, attiene alla scarsa incidenza che le servitù militari, intese nella loro accezione e definizione tecnica, hanno nel complesso globale della presenza militare in Sardegna.
Di qui la necessità di ricomprendere nel concetto di servitù tutto l’insieme variamente articolato e diversificato, dei condizionamenti che installazioni fisse e dinamica militare, determinano sul territorio ed alle attività che in questo si esplicano.
“Territorio” inteso non quale puro e semplice spazio fisico, ma quale sede di quei processi creativi che l’uomo vi ha espresso nel tempo e, che con il suo permanere, continua a realizzarvi nella prospettiva dello sviluppo.
Uno spazio che diventa storia, testimonianza viva e palpitante della vitalità di un popolo, del suo modo di essere, del suo modo di fare civiltà.
La presenza militare non può porsi in contrasto con tutto questo, ma esserne espressione, direi quasi necessaria, se non spontanea, pena il divenirne elemento estraneo, artificiosamente imposto e, come tale, rifiutato dalla coscienza dei più.
Anche la politica militare quindi deve divenire un fatto di popolo, patrimonio delle masse, perché queste l’accettino, vi si riconoscano e la facciano propria. Altrimenti avremo l’antinomia di una società civile distinta e contrapposta a quella militare; questa in tale ipotesi finirebbe col diventare un corpo separato nella vita dello Stato.
È di tutta evidenza il pericolo potenziale insito in questa visione del rapporto tra forze armate e comunità civile. Pur senza voler approfondire certe implicazioni che derivano da una tale premessa, ritengo di dover confermare la vocazione democratica delle Forze Armate Italiane ed il loro rifiuto d’involuzione autoritaria che pur si e manifestata entro limiti che, nella loro valutazione retrospettiva, possono considerarsi episodici.
Non di meno la presenza militare in Sardegna ha assunto, per le modalità, l’intensità e l’ampiezza del suo realizzarsi, caratteristiche nettamente autoritarie e colonialiste.
Le imposizioni di vincoli e condizionamenti sono stati di volta in volta calati dall’alto, senza un minimo di consultazione delle popolazioni interessate, direi quasi, in dispregio. Basti per tutti la cessione agli Stati Uniti d’America della base navale della Maddalena.
La Regione Sarda ne ha avuto notizia dai comunicati stampa, a cose fatte.
È questa una procedura inaccettabile che espropria il potere democratico-autonomistico e quindi il popolo sardo del suo diritto-dovere di governare il territorio,inteso, come dicevo, quale strumento essenziale ed irrinunziabile dello sviluppo economico e sociale.
In fondo di questo si tratta: rendere compatibili le esigenze della difesa militare con quelle dello sviluppo economico e sociale della popolazione,
E poiché le une come le altre comportano una pianificazione territoriale ne deriva che le attività militari debbono esplicarsi nell’ambito del Piano Urbanistico Regionale.
In Sardegna non abbiamo spazi vuoti e inutilizzati. A ben guardare le vaste solitudini e gli alti silenzi delle zone interne appartengono più alla sfera poetica, ad una visione arcana e trasfigurata della realtà che non alla verità dei fatti.
Vero e invece che negli ampi spazi, al di sopra dei quali sfrecciano, a bassa quota, gli aerei da caccia delle Forze Armate NATO, è presente la Sardegna pastorale con le sue attività produttive.
Vi si svolge cioè, entro i limiti di vocazione economica di quelle terre, una vita intensa di lavoro e quindi di occupazione e di reddito che nel suo insieme costituisce da sempre, ed ancora oggi, componente essenziale nella struttura produttiva isolana.
Ma non è, potenzialmente, la sola. Oggi, con l’accresciuta mobilità sociale e la diffusa tendenza (registrata soprattutto nelle società a più alto in dice di industrializzazione ed urbanizzazione) ad un recupero dei valori naturalistici, la Sardegna si propone, con la suggestione delle sue marine e l’aspra bellezza dei paesaggi, quale punto di riferimento per le correnti turistiche italiane ed europee che vi approdano in misura sempre crescente.
In una moderna visione della gestione del territorio questi valori potranno essere esaltati con la creazione di parchi naturali nei quali le attività zootecniche e la fruizione turistica divengono forza dirompente di crescita economica, sociale e culturale. L’Amministrazione Regionale è severamente impegnata in un’opera vasta e complessa di recupero ambientale alla quale dedica rilevanti risorse finanziarie ed umane.
Anche nel corso di questo anno, per il solo settore della forestazione conservativa, diciamo pure, ecologica, saranno spesi 30 miliardi con l’impiego di ben 2500 addetti.
Cancelliamo quindi dal nostro vocabolario politico espressioni quali: solitudini – o – aree desertiche – e parliamo di industria armentaria, di agro-turismo, di riappropriazione, difesa ed esaltazione dei valori naturalistici, in un rapporto nuovo e creativo fra l’uomo e l’ambiente, fra il sardo e la sua terra.
Dobbiamo però evidenziare, in questa sede, come le servitù militari si siano addirittura tradotte nella costrizione all’abbandono di terre particolarmente fertili quali la piana di Teulada, o quella di Santadi nell’Arborense. In altri casi la costrizione s’è imposta come limitazione di destinazione economica della terra (Villasor). Imposizioni che interessano migliaia di ettari.
Di tutto ciò i convegnisti potranno trovare migliore specificazione nel fascicolo distribuito stamane.
Ritengo però doveroso ricordare, sia pure per brevi cenni, ed a titolo esemplificativo, altre gravi mutilazioni subite dalla comunità dei sardi nelle forme più diverse’ per effetto della presenza militare.
Sulla costa occidentale registriamo un freno allo sviluppo turistico dal passaggio continuo di aerei da Decimo al Poligono di Capo Frasca, per effetto del frastuono provocato non solo dai motori degli aerei, ma anche dal Danzi” dovuto al superamento del muro del suono.
È chiaro che chi si riprometteva una vacanza rilassante, capace di tonificare il sistema nervoso usurato da un anno di stressante lavoro, si allontanerà precipitosamente e vivrà il ricordo della Sardegna come un incubo angoscioso.
A questo si aggiungano i bombardamenti. Poco importa che vengano sparati proiettili, bombe o siluri inerti. I bombardamenti vengono effettuati e tanto basta per creare condizioni oggettive di diffuso malessere quanto non anche di paura ed, in qualche caso di danno. Tutto ciò crea ovviamente il blocco dell’espansione turistica e quindi dello sviluppo economico.
Ma durante i giorni di esercitazione – praticamente tutto l’anno, esclusi alcuni giorni alla settimana, nel tratto di mare interessato dal poligono è inibita la pesca e la navigazione da diporto.
Una situazione del tutto analoga si deve denunciare sulla costa orientale, non solo nei tratti terrestri e marittimi interessanti il poligono missilistico di Perdasdefogu, ma addirittura su tutta la Costa ogliastrina, per effetto delle esercitazioni aereo-navali che vi si svolgono nel corso di tutto l’anno fatta eccezione per i soli giorni festivi. Non sono infrequenti poi vere e proprie operazioni di sbarco accompagnate da azioni di guerra su tratti di mare che vanno da Capo Comino sino a Villaputzu.
Ai pescatori come ai turisti, così come alle stesse navi di linea o a quelle croceristiche vengono regolarmente interdette le rotte interessanti questi tratti di mare dalle prime ore del mattino alla tarda sera con danni enormi di cui è addirittura difficile calcolare l’entità perché nel concreto si traducono in un vero e proprio blocco dello sviluppo e, concludendo su questo punto, vorrei aggiungere che anche i cieli di Sardegna sono sostanzialmente inibiti ai sardi.
Dalla cartina messa a vostra disposizione si evidenzia l’impraticabilità, per gran parte dell’anno della navigazione aerea commerciale sulle rotte interessanti la Sardegna centro-meridionale.
Gli aerei di linea come i voli Charter sono costretti, quasi quotidianamente, a lunghe e costosissime variazioni di rotta che sono la causa prima, non solo del prolungamento dei tempi di volo, ma altresì degli aumenti di tariffa periodicamente richiesti dalle Compagnie Aeree.
Tutto ciò causa la preferenza accordata dai Tour-Operator , ad altri scali mediterranei rispetto a Cagliari-Elmas, sia per i maggiori costi che questa comporta ma altresì per la pericolosità conseguente all’intensità dei traffici aerei militari sui cieli sardi.
Per avere un’idea delle prospettive che la Sardegna si vede precludere basterà ricordare che gli aeroporti sardi potrebbero assolvere al ruolo di scalo intermedio nei collegamenti fra l’Europa, le due Americhe e l’Estremo Oriente, Tutto ciò acquista particolare rilevanza nell’attivazione ormai prossima del trasporto passeggeri-merci a mezzo di aerei supersonici -sulle rotte intercontinentali.
La Sardegna appare, per la sua posizione geografica, punto ideale di smistamento nei traffici commerciali fra l’Africa, l’Europa e il vicino Medio Oriente, nei collegamenti con l’E-stremo Oriente e le due Americhe.
Da area emarginata diverrebbe così punto d’incontro e di raccordo fra popoli, economie e culture diverse, momento di sintesi e di impulso per l’espansione economica e civile.
Dobbiamo andare quindi alla Conferenza Nazionale sulle servitù con la ferma decisione di liberarci dal viluppo di condizionamenti e limiti cui la presenza militare condanna la Sardegna, disponibili ad accettare quella parte di sacrifici che siano strettamente funzionali alla Difesa dello Stato.
Non possiamo tollerare che nel rapporto fra le esigenze della difesa e quelle dello sviluppo, queste ultime debbano soccombere.
Voglio, a questo proposito, esprimere un giudizio che mi viene suggerito dall’esperienza delle altre Regioni italiane rispetto alla nostra. È mia ferma convinzione che una parte dell’attuale situazione sia, in qualche misura, imputabile alla stessa Amministrazione Regionale ed al modo come questa ha gestito la legge 24 dicembre 19976 n.898, relativa alle procedure di imposizione e gestione delle servitù militari.
È questa, nel complesso, una buona legge che, pur perfezionabile, appare solidamente ancorata a chiari principi democratici e di sostanziale rispetto del corretto rapporto fra militari e civili.
Sono infatti riconosciuti al Presidente della Giunta Regionale poteri che vanno dalla richiesta di dispensa del segreto militare a quello di convocazione del Comitato paritetico, alla capacità d’iniziativa per la sospensione delle procedure impositive di nuove servitù, con diritto di partecipare alla riunione del Consiglio dei Ministri investito della decisione.
Non solo: le servitù, militari sono soggette periodicamente a revisione per valutarne l’utilità attuale.
Rientra nel diritto-dovere dell’Amministrazione Regionale elaborare una sua proposta politica volta a ridimensionare l’ampiezza e la qualità delle servitù in atto.
Di fatto le altre Regioni italiane si sono largamente avvalse delle prerogative sancite in legge ottenendo la riduzione del 60% delle servitù.
Per quanto riguarda la nostra Regione, stando quantomeno alla documentazione in atti, salvo episodici contatti con i Comandi Militari, non risulta formalizzata alcuna richiesta, né impugnato alcun provvedimento. Non meraviglia quindi se il peso della presenza militare nella nostra Isola sia andato aumentando anziché diminuire.
Se la solidarietà nazionale ha un significato non solo per le sue implicazioni cogenti, ma quale forza propulsiva di uno sviluppo equilibrato in tutto il territorio dello Stato, è legittimo da parte nostra attenderci una diversa attenzione da parte del Ministero della Difesa e delle stesse Regioni oggi meno gravate nel cui territorio dovrebbero essere ridislocate buona parte delle servitù imposte oggi alla Sardegna.
Debbo dire che in sede di incontri preparatori molte di queste regioni: Sicilia, Calabria, Puglie, Umbria, Veneto tanto per fare qualche esempio, si sono dichiarate disponibili, data la pratica inesistenza di servitù, nei loro territori, ad accettare una parte di sacrifici oggi concentrati ~in spazi territoriali limitati quali appunto il Friuli Venezia Giulia e, ripeto, la Sardegna.
Un discorso a parte merita, sia pure per breve cenno, il tema dei Demani Militari: Caserme, Depositi di munizioni, impianti di telecomunicazioni etc.
Sarà opportuno procedere in tempi brevi ad un confronto con i Comandi Territoriali per valutare l’utilità attuale del patrimonio demaniale e studiare la possibilità di permute, restituendo per quanto possibile alle città, vasti spazi che, considerati periferia all’atto del loro insediamento, sono ormai inglobati nei centri storici.
Il problema si presenta in termini di particolare rilievo 
soprattutto per la città di Cagliari, ma in misura abbastanza significativa anche per Sassari, Nuoro, Oristano ed altri centri minori.
Dovremo però farci promotori, insieme con le altre Regioni di una nuova legge che imponga al Ministero della Difesa la restituzione gratuita alle comunità locali, con vincolo, di destinazione ad usi pubblici, dei beni dismessi dall’autorità militare. Onde evitare operazioni di tipo speculativo dovrà essere vietata la cessione a privati.
Debbo anche dire che questo concetto sta emergendo come prevalente fra tutte le Regioni e che per quanto attiene all’atteggiamento dei Comandi Militari sardi è stata espressa in proposito la più ampia disponibilità.
L’ultimo argomento fa riferimento alle cosiddette compensazioni. Emergono in proposito tesi diverse. Mentre da un lato si assume una linea di pura e semplice monetizzazione del danno derivante dalla presenza militare, poggiando l’accento sull’esigenza di un adeguato incremento degli indennizzi previsti in legge a favore dei cittadini e delle comunità locali (riservando a queste ultime l’autonoma decisione sui re investimenti ) da altri si sostiene I’opportunità di tradurre le compensazioni ? infrastrutturali e servizi di interesse collettivo.
È nota ad esempio l’aspirazione dei foghesi alla realizzazione di una strada che li colleghi rapidamente a Tertenia e quindi all’Orientale Sarda, così come, per passare ad altro campo di esperienze, è risaputo che l’Esercito, da alcuni anni, interviene con impiego di personale proprio e di propri mezzi, soprattutto elicotteri, nella campagna antincendio.
Devo dare altresì atto alle Forze Armate della dichiarata disponibilità a venire incontro, con generose donazioni di sangue, a quanti si trovino nella drammatica necessità di averne bisogno, microcitemici sardi in particolare.
Concludendo la mia relazione introduttiva voglio sottolineare la convinzione della Giunta che solo da un reale empito di solidarietà nazionale possono trovare soluzione i gravi problemi su cui mi sono soffermato.
Solidarietà che deve scaturire dalla contestuale disponibilità del Governo, delle Regioni e delle Forze Armate, ciascuno nell’ambito delle rispettive responsabilità, di andare ad una verifica puntuale dell’esistente per rendere possibile una corretta ridislocazione delle servitù militari nella visione di un’equa ripartizione dei sacrifici.
La solidarietà intesa come fatto unilaterale è pura ipocrisia tesa a nascondere ed a mascherare il colonialismo.
L’italianità dei sardi si misura entro i limiti della sardità degli italiani.