Si può dire che quasi non c’è un partito in questa stampa elettorale che non abbia fatto dell’autonomia e del sardismo une bandiera. L’intervista con Mario Melis, capolista de Psd’Az per la Camera dei deputati, comincia perciò da qui.
Questa ventata di autonomismo è un fatto positivo o è, per il Psd’Az, unico partito che ha non solo i piedi ma anche la testa in Sardegna, un’indebita concorrenza?
Di per sé è un segnale positivo. Significa che l’autonomia è un problema reale profondo, molto sentito. Sono valori che un po’ tutti, ma soprattutto i giovani, stanno riscoprendo. Perciò assistiamo a questo fatto in un certo senso nuovo, che gli uomini più sensibili al regionalismo nei vari partiti stanno recitando un vero e proprio mea culpa. Però quei partiti sull’autonomia hanno fallito, per troppo tempo hanno dato risposte soltanto formali, senza riuscire a tradurle in programmi e in risultati. In sostanza manca a questi partiti una cultura dell’autonomia.
L’autocritica in certi casi sembra volersi tradurre in buoni propositi. C’è anche la linea della disubbidienza, i democristiani hanno promesso che difenderanno l’autonomia al Parlamento anche a costo di disobbedire a De Mita.
Forse si comincia a capire che l’autonomia non può dipendere da Roma. Purtroppo queste cose le dicono uomini che finora hanno sempre tacitamente ubbidito. Rimane un fatto, non si può parlare di politica, oggi in Sardegna, se non in termini sardisti. A questo punto, però, meglio fidarsi dell’originale, noi siamo un partito sardo, non vedo perché i sardi dovrebbero scegliere delle copie.
E che cosa farebbe il Psd’Az in Parlamento?
Tradurremo la nostra linea in disegni di legge sui quali chiamare al confronto i convertiti di oggi, e vedremo allora se si tratta di convincimenti reali o, come è avvenuto nel passato, di posizioni elettoralistiche, strumentali.
Può fare, per chiarezza, qualche esempio?
La nostra identità etnica e culturale va tutelata, così come bisogna battersi per la trasformazione regionalistica dello Stato. Nel nostro programma c’è anche la riforma istituzionale, nel senso di trasformare il Senato in una Camera delle regioni. Le regioni debbono poter contare, nel momento in cui si formano le decisioni. Poi la legge sulla continuità territoriale, che ci ponga su un piano di assoluta parità con le altre regioni. In termini di economia e di tariffe dovrebbe essere come se la Sardegna fosse attaccata al continente. Le aziende di trasporto che servono la Sardegna devono essere amministrate dal potere autonomistico (in Svezia, in situazioni analoghe, si fa così). Una legge per il controllo del credito e della manovra fiscale. Sono campi nei quali la Regione deve poter contare realmente, avere degli strumenti concreti di governo. Poi c’è la questione delle servitù militari. Il Psd’Az è per una politica di pace, ma realisticamente ci rendiamo conto che non possiamo determinare l’uscita dal patto atlantico, col rischio magari di cadere dall’altra parte. Il problema è di far pesare in termini eguali su tutti i cittadini il peso e gli oneri della difesa. La Sardegna non può essere una fortezza e una portaerei per conto terzi. Infine c’è la richiesta della zona franca doganale, alla quale teniamo molto. Noi non accettiamo il controllo esterno dei rapporti tra la Sardegna e il mondo circostante, vogliamo sfruttare pienamente la centralità mediterranea. Una cosa è essere al centro del Mediterraneo, un’altra è essere la periferia dell’Europa.
Siamo alla rivendicazione d’indipendenza.
Il nostro indipendentismo però non è separatismo. Il separatismo è un concetto primordiale, non politico. Il nostro indipendentismo nasce dall’esigenza di disporre di quel tanto di libertà che ci consenta di avere rapporti con gli altri popoli. Si tratterà di vedere le forme istituzionali, però siamo convinti che il vecchio stato ottocentesco, che ha svolto un ruolo storico importante, è orma superato. Abbiamo bisogno di aggregazioni più ampie, gli stati uniti d’Europa furono un’intuizione sardista fin da 1921. Ma oggi il problema è più reale. L’Europa non più quella di cinquant’anni fa, andiamo verso un’Europa aperta verso il terzo mondo e i paesi del Mediterraneo, della quale vogliamo far parte come popolo sardo.
Ma l’Italia rappresenterà pur sempre qualcosa…
Il rapporto con l’Italia è un valore, non un fatto negativo. Noi non abbiamo nulli da rinnegare dei rapporti con l’Italia, è un grosso patrimonio irrinunciabile. Ma per potersi federare bisogna essere liberi, ci si federa fra uguali.
Ritorniamo alle cose di oggi, che cosa uscirà per Paese e per la Sardegna dal nuovo Parlamento? Il rigore economico, che è stata una proposta sui cui molto si è discusso in campagna elettorale, come viene giudicato dal Psd’Az?
Bisogna vedere cosa significa. L’economia deve essere risanata, ma la cura dev’essere creativa, non punitiva del reddito fisso e delle aree più deboli. Temiamo molto, invece, che si tratti di un rigore modellato su un’economia florida, che sta dissipando, che ha creato consumi più elevati rispetto alle esigenze reali. In Lombardia c’è la più alta concentrazione industriale d’Europa, è giusto che la si paghino alti tassi di interesse, perché bisogna trasformare, decongestionare.
Ma in Sardegna? Non c’è né congestione industriale né dissipazione. Quel rigore che viene promesso significherebbe nuova discussione, mancanza d’investimenti, strangolamento delle poche attività produttive che restano. Perciò siamo convinti che serva una manovra economico-finanziaria di segno opposto a quella delineata dalla Dc. Ed è per questo che non credo all’autonomia facile dei partiti nazionali, non basta darsi un’etichetta per fare gli interessi della Sardegna.