Ora sono tutti sardisti? È perché abbiamo ragione – intervista di E. Clemente, F. Peretti – La Nuova Sardegna – 21 giugno 1983

 

Si può dire che quasi non c’è un partito in questa stampa elettorale che non abbia fatto dell’autonomia e del sardismo une bandiera. L’intervista con Mario Melis, capolista de Psd’Az per la Camera dei deputati, comincia perciò da qui.
Questa ventata di autonomismo è un fatto positivo o è, per il Psd’Az, unico partito che ha non solo i piedi ma anche la testa in Sardegna, un’indebita concorrenza?
Di per sé è un segnale positivo. Significa che l’autonomia è un problema reale profondo, molto sentito. Sono valori che un po’ tutti, ma soprattutto i giovani, stanno riscoprendo. Perciò assistiamo a questo fatto in un certo senso nuovo, che gli uomini più sensibili al regionalismo nei vari partiti stanno recitando un vero e proprio mea culpa. Però quei partiti sull’autonomia hanno fallito, per troppo tempo hanno dato risposte soltanto formali, senza riuscire a tradurle in programmi e in risultati. In sostanza manca a questi partiti una cultura dell’autonomia.
L’autocritica in certi casi sembra volersi tradurre in buoni propositi. C’è anche la linea della disubbidienza, i democristiani hanno promesso che difenderanno l’autonomia al Parlamento anche a costo di disobbedi­re a De Mita.
Forse si comincia a capire che l’autonomia non può di­pendere da Roma. Purtroppo queste cose le dicono uomini che finora hanno sempre ta­citamente ubbidito. Rimane un fatto, non si può parlare di politica, oggi in Sardegna, se non in termini sardisti. A questo punto, però, meglio fi­darsi dell’originale, noi siamo un partito sardo, non vedo perché i sardi dovrebbero scegliere delle copie.
E che cosa farebbe il Psd’Az in Parlamento?
Tradurremo la nostra linea in disegni di legge sui quali chiamare al confronto i con­vertiti di oggi, e vedremo al­lora se si tratta di convinci­menti reali o, come è avve­nuto nel passato, di posizioni elettoralistiche, strumentali.
Può fare, per chiarezza, qualche esempio?
La nostra identità etnica e culturale va tutelata, così co­me bisogna battersi per la trasformazione regionalistica dello Stato. Nel nostro pro­gramma c’è anche la riforma istituzionale, nel senso di tra­sformare il Senato in una Camera delle regioni. Le re­gioni debbono poter contare, nel momento in cui si forma­no le decisioni. Poi la legge sulla continuità territoriale, che ci ponga su un piano di assoluta parità con le altre regioni. In termini di economia e di tariffe dovrebbe es­sere come se la Sardegna fosse attaccata al continente. Le aziende di trasporto che servono la Sardegna devono essere amministrate dal po­tere autonomistico (in Svezia, in situazioni analoghe, si fa così). Una legge per il con­trollo del credito e della ma­novra fiscale. Sono campi nei quali la Regione deve po­ter contare realmente, avere degli strumenti concreti di governo. Poi c’è la questione delle servitù militari. Il Psd’Az è per una politica di pace, ma realisticamente ci rendiamo conto che non pos­siamo determinare l’uscita dal patto atlantico, col rischio magari di cadere dall’altra parte. Il problema è di far pesare in termini eguali su tutti i cittadini il peso e gli oneri della difesa. La Sarde­gna non può essere una for­tezza e una portaerei per conto terzi. Infine c’è la ri­chiesta della zona franca do­ganale, alla quale teniamo molto. Noi non accettiamo il controllo esterno dei rapporti tra la Sardegna e il mondo circostante, vogliamo sfrutta­re pienamente la centralità mediterranea. Una cosa è es­sere al centro del Mediterra­neo, un’altra è essere la peri­feria dell’Europa.
Siamo alla rivendicazione d’indipendenza.
Il nostro indipendentismo però non è separatismo. Il separatismo è un concetto primordiale, non politico. Il nostro indipendentismo na­sce dall’esigenza di disporre di quel tanto di libertà che ci consenta di avere rapporti con gli altri popoli. Si trat­terà di vedere le forme isti­tuzionali, però siamo convinti che il vecchio stato ottocen­tesco, che ha svolto un ruolo storico importante, è orma superato. Abbiamo bisogno di aggregazioni più ampie, gli stati uniti d’Europa furono un’intuizione sardista fin da 1921. Ma oggi il problema è più reale. L’Europa non più quella di cinquant’anni fa, andiamo verso un’Europa aperta verso il terzo mondo e i paesi del Mediterraneo, della quale vogliamo far parte come popolo sardo.
Ma l’Italia rappresenterà pur sempre qualcosa…
Il rapporto con l’Italia è un valore, non un fatto negativo. Noi non abbiamo nulli da rinnegare dei rapporti con l’Italia, è un grosso patrimonio irrinunciabile. Ma per potersi federare bisogna essere liberi, ci si federa fra uguali.
Ritorniamo alle cose di oggi, che cosa uscirà per Paese e per la Sardegna dal nuovo Parlamento? Il rigore economico, che è stata una proposta sui cui molto si è discusso in campagna elettorale, come viene giudicato dal Psd’Az?
Bisogna vedere cosa signi­fica. L’economia deve essere risanata, ma la cura dev’esse­re creativa, non punitiva del reddito fisso e delle aree più deboli. Temiamo molto, inve­ce, che si tratti di un rigore modellato su un’economia florida, che sta dissipando, che ha creato consumi più e­levati rispetto alle esigenze reali. In Lombardia c’è la più alta concentrazione indu­striale d’Europa, è giusto che la si paghino alti tassi di in­teresse, perché bisogna trasformare, decongestionare. 
Ma in Sardegna? Non c’è né congestione industriale né dissipazione. Quel rigore che viene promesso significhe­rebbe nuova discussione, mancanza      d’investimenti, strangolamento delle poche attività produttive che resta­no. Perciò siamo convinti che serva una manovra eco­nomico-finanziaria di segno opposto a quella delineata dalla Dc. Ed è per questo che non credo all’autonomia facile dei partiti nazionali, non basta darsi un’etichetta per fare gli interessi della Sardegna.