Il governo dell’economia – Consiglio Regionale, 3 febbraio 1987
Signor Presidente, colleghi, dopo l’ampia analisi, così articolata e puntuale, sui temi che costituiscono l’oggetto del nostro esame, ai fini di una proposta globale sulla quale fondare una credibile ipotesi di rilancio dello sviluppo e della crescita sociale e civile della nostra comunità, alla Giunta non resta che esprimere il suo apprezzamento, sottolineare l’impegno che i gruppi di maggioranza e di opposizione hanno profuso nell’elaborazione dei documenti illustrati dai diversi colleghi intervenuti nel dibattito, e infine indicare le linee attraverso le quali la Giunta formulerà a sua volta proposte concrete, in un articolato che riassuma quanto emerso dal confronto politico che, in Commissione prima e in Assemblea oggi, abbiamo vissuto, per andare nell’istanza nazionale, dove la legge dovrà essere approvata, per consentire a chi si troverà a ricoprire ruoli di governo e di maggioranza nella Regione nel momento della progettualità e dell’attuazione, di avvalersi di strumenti operativi agili, duttili, suscettibili di essere gestiti con la necessaria puntualità e tempestività.
Il dibattito ha evidenziato le linee sulle quali la legge dovrà articolarsi: intanto dovrà essere una legge di poteri che, esaltando i valori autonomistici, non solo ne ampli gli spazi, ma determini diverse e nuove capacità decisionali e di iniziativa delle istituzioni autonomistiche e consenta la realizzazione e l’attuazione di quelle fino ad ora inespresse, pur essendo costituzionalmente definite; una legge, in particolare, che dia alla Regione poteri reali per la progettazione e l’attuazione del nuovo piano di sviluppo.
Dovrà tutto questo investire le capacità dell’amministrazione regionale nel governo non solo delle istituzioni, ma anche dell’economia: si pensi al credito, che tanta parte ha avuto nel dibattito in questo Consiglio; è questa una materia sulla quale finalmente alla Regione si dovrà consentire di esercitare quei poteri che già lo Statuto le riconosce, ma che cinque anni fa un’organica, durissima e direi anche incostituzionale analisi della Banca d’Italia ha bloccato, impedendo l’approvazione delle proposte formulate allora dalla Regione; quelle proposte, ritenute valide per il Trentino-Alto Adige sulla base degli stessi poteri statutari, la Banca d’Italia non ha ritenuto potessero avere capacità operativa e politica in Sardegna.
Dobbiamo definire, in termini finalmente sicuri, i rapporti con lo Stato per quanto attiene al Titolo III dello Statuto: la certezza innanzitutto delle risorse finanziarie spettanti alla Regione, perché questa possa finalmente costruire un bilancio credibile, per programmare non solo l’ordinaria amministrazione, ma la prospettiva dello sviluppo.
Ma, sempre in materia di Titolo III, occorre anche qualcosa di nuovo, che rompa la solitudine della nostra gente, offrendole strumenti nuovi attraverso i quali collegarsi ed integrarsi con le economie mediterranee, europee, del mondo.
Oggi l’economia non è più un fatto regionale, nazionale o continentale, ma è un fatto che coinvolge tutti i popoli della terra, nel momento stesso in cui eventi di rilevanza economica si verificano in uno qualunque dei grandi mercati che, in un rapporto di reciproca interdipendenza, si influenzano, si condizionano, si esaltano o si inaridiscono. Ebbene, la Sardegna non è al di fuori di questo contesto; la Sardegna deve avere un suo ruolo da protagonista; l’autonomia deve essere un fatto che governi — nell’interesse dei sardi, finalmente — questi grandi fenomeni, non per ricavare delle nicchie al riparo delle quali si sopravviva, sia pure in condizioni di marginalità e di sussistenza, ma perché, in un confronto aperto, possa l’economia sarda integrarsi con le altre, in un rapporto duro, difficile ma vitale, nel quale la creatività dei sardi finalmente abbia la possibilità di emergere e di esprimersi.
Una legge di poteri, dunque, che apra le vie ad una soggettività politica che è ancora tutta da conquistare. Ma certamente una legge che veda rivendicati dal governo dell’autonomia anche i valori della cultura, di una cultura che non può essere marginale e subalterna, ma che deve dare alimento, luce, motivazioni, identità alla gente di Sardegna. La rinascita, prima ancora che fatto economico, è un fatto di motivazioni interiori, che realizzano valori e aspettative che nascono nel cuore degli uomini: la libertà. Cultura è libertà, cultura è forza, e diventa strumento non solo di crescita civile, ma di sviluppo economico.
Certo, quando noi ci vediamo bocciare dal Governo uno stanziamento a favore di una Università sarda, perché la cultura, perché la pubblica istruzione è competenza esclusiva del potere centrale, allora ci rendiamo conto di quanto sia oggi limitato il potere autonomistico e di quanto bisogno abbiamo di rompere gli argini di una cultura asfittica, condizionata totalmente da poteri esterni, che ci impediscono sostanzialmente la ricerca e gli approfondimenti attraverso i quali è possibile a noi individuare soluzioni ai nostri problemi.
In questo contesto si colloca l’ipotesi dello sviluppo; uno sviluppo — come il dibattito ha evidenziato — proteso in tutti i settori della vita comunitaria, a partire da un’industrializzazione diffusa, diversificata, e io direi anche ad alto valore aggiunto. Questo è necessario, se vogliamo che l’industrializzazione non venga condannata dalla nostra insularità, che non può più accettare la politica delle sole prime lavorazioni, penalizzate dall’alto costo dei trasporti marittimi, laddove invece l’ampliamento dei mercati e l’alto valore aggiunto dei prodotti di un’industria manifatturiera rende pressoché irrilevanti i costi aggiuntivi del trasporto marittimo. Questo è ciò che avviene nelle economie insulari di tutto il mondo, laddove però la libertà di organizzazione, di iniziativa, di commerci, di rapporti economici, consente di scegliere quelli che più convengono e di escludere quelli che penalizzano. Noi fino ad oggi tutto questo non l’abbiamo potuto avere; ci siamo collegati con chi conveniva all’economia del Nord-Italia e siamo stati esclusi da quei mercati che potevano non essere coerenti agli interessi di alcune aree che dominano la politica economica nello Stato italiano.
Tutto questo noi dovremo superarlo con una legge, che la maggioranza sostanzialmente ha già fatto propria come ipotesi di lavoro, e che la Giunta dovrà, anche in questo caso, tradurre in proposta di articolato, che lo studio commissionato dalla Giunta rende ormai possibile ed attuale; una legge, dico, sulle franchigie fiscali: chiamiamola così, perché ormai la concezione un po’ arcaica e ottocentesca della zona franca doganale non ha più grande attualità, mentre maggiore attualità ha il concetto di zona franca fiscale o amministrativa e, per certi versi ed entro certi limiti, valutaria.
In questa prospettiva io credo che un’industria manifatturiera diffusa, diversificata per settori merceologici e quindi per professionalità e per tecnologie, sarebbe in grado di vincere largamente le diseconomie (o, come ama definirle l’onorevole Rojch, i differenziali dei costi d’impresa) e di reggere competitivamente e vincere il confronto con la concorrenza.
Vi è poi il settore dell’agricoltura, che indubbiamente deve sentire la forza prorompente dei tempi nuovi. La Regione dispone ora — e devo darne atto a chi ci ha preceduto, a chi ha commissionato questo studio — di una carta dei suoli, che ci consente di fare scelte e di programmare interventi con la piena conoscenza dell’organizzazione del territorio, individuando le zone nelle quali la vocazione forestale deve prevalere sulla destinazione a pascolo, o quelle nelle quali un’agricoltura in asciutto o irrigua può consentire più alti redditi, maggiore produttività, maggiore ampliamento della base occupativa. Siamo l’unica regione d’Italia ad avere uno strumento operativo così importante per il governo del territorio e di così alto valore scientifico. Dalla carta dei suoli, presentata all’opinione pubblica appena una settimana fa, risulta che disponiamo di oltre 420 mila ettari di pianura totalmente irrigabile. Oggi possiamo valutare le potenzialità di questi 420 mila ettari di pianure tutte pienamente valorizzabili (senza tener conto delle cosiddette oasi «a pelle di leopardo», le cui dimensioni non rendono conveniente l’investimento necessario per l’irrigazione).
Questo non significa però che l’irrigazione debba fermarsi soltanto alle aree felici della pianura: essa può ben interessare la collina, può ben interessare le zone a vocazione pastorale, consentendo ai pastori di ammodernare le loro aziende e di diventare parzialmente agricoltori, producendo i mangimi necessari all’allevamento del loro bestiame. Sarà così possibile smetterla con l’utilizzazione estensiva del territorio, che sta diventando una devastazione ecologica, perché l’uso indiscriminato del territorio a pascolo finisce col degradarlo e col ridurne le potenzialità produttive.
L’agricoltura dovrà muoversi in questa direzione con grande chiarezza di idee, con grande determinazione, con una programmazione che sia sufficientemente attendibile e naturalmente duttile, agile, capace di cogliere le modificazioni, le possibili delusioni, correggendo, senza bisogno di grandi procedure, le attività operative. Ma per fare questo occorre un chiaro piano delle acque, e la Giunta è già impegnata a raccogliere il lavoro fatto in questa direzione.
Lei ha citato stamane, onorevole Pili, alcune riflessioni che, prima del suo intervento, abbiamo fatto insieme ed io ora cito lei per questo suo richiamo a tutta l’elaborazione che in materia di utilizzazione delle acque esiste già, a tutti gli studi, le progettualità che sono già disponibili. È questo, indubbiamente, un patrimonio che però dovrà essere visto in un contesto organico, che permetta l’utilizzazione delle acque a tutto campo, tenendo conto degli usi civili, per le grandi e piccole città, per i villaggi e certamente anche per gli insediamenti turistici, ma contestualmente delle esigenze dell’agricoltura, dell’industria, dell’artigianato. Occorre dunque un piano delle acque che tenga conto di questi valori globali, stabilendo l’uso delle rilevanti risorse idriche di cui in Sardegna disponiamo.
Si è parlato di artigianato, si è parlato di turismo, si è parlato di trasporti, di risorse locali, di salvaguardia e di esaltazione dei valori ambientali, sia ai fini naturalistici che ai fini economici. Basti pensare al valore ambientale messo al servizio del turismo: ci rendiamo conto che il valore ambientale non è fine a se stesso, ma può avere una sua proiezione economica di grandissimo interesse.
Ma evidentemente tutto questo non ci può portare all’intervento a pioggia. È bene che ce lo diciamo con chiarezza: la Giunta non potrà seguire una politica della tuttologia, se non vorrà decadere nel velleitarismo e nella frustrazione dei fallimenti. Dobbiamo puntare sulle infrastrutture attraverso le quali questi obiettivi diventano raggiungibili; dobbiamo cioè organizzare il territorio, perché il territorio sia in grado di ricevere il turismo, perché sia in grado di ricevere l’industria, perché sia in grado di ricevere l’artigianato, perché sia in grado di ricevere l’agricoltura e tutte le attività produttive di diversa natura nelle quali si articola e si realizza lo sviluppo.
Ecco allora la necessità di grandi infrastrutture, di quel sistema di infrastrutture a rete che oggi domina nel mondo moderno. I trasporti innanzitutto: dai porti agli aeroporti alla grande viabilità interna, e poi la viabilità minore, quella provinciale, comunale, e direi anche rurale, che consenta di rendere la Sardegna una regione compatta, che rompa le grandi solitudini, che reinserisca nel tessuto economico quelle aree cui si faceva riferimento stamane — il Sarrabus, il Gerrei, l’Ogliastra, la Gallura, il Sulcis, il Sarcidano —, aree di isolamento che le grandi vie di comunicazione dovranno attraversare e raccordare col resto della Sardegna. Ecco un grande obiettivo sul quale puntare la rinascita: l’organizzazione del territorio, il sistema a rete, attraverso le vie di comunicazione, la diffusione delle acque nel territorio, l’energia idroelettrica, termoelettrica (faccio riferimento ovviamente al carbone, non certo al nucleare) e derivante dalla metanizzazione. Questi tre grandi settori costituiscono, insieme alla valorizzazione dell’ambiente e ai nuovi poteri, gli strumenti attraverso i quali dare prospettiva concreta a tutti gli altri interventi di cui si è discusso, e che trovano la Giunta pienamente concorde.
È chiaro che obiettivi di questa rilevanza passano attraverso l’innovazione tecnologica e attraverso uno sviluppo che è volto all’accumulazione del capitale, perché si innestino poi i processi autopropulsivi di sviluppo endogeno, non per ripetere il blablablà delle frasi fatte, ma perché soltanto operando scelte nitide, precise, coraggiose, è possibile pervenire a risultati positivi. Quindi uno sviluppo integrato, che si avvalga dei contributi dei settori più diversi, che determini una crescita sociale diffusa ed un diffuso riequilibrio territoriale: dobbiamo fare una Sardegna omogenea, vincendo le sacche di sottosviluppo.
Dobbiamo anche modernizzare la pubblica amministrazione, ma per fare questo dobbiamo cominciare da casa nostra. Certo, dobbiamo chiedere che lo Stato, nei suoi uffici in Sardegna, crei quei famosi modelli di buona amministrazione di cui parla la relazione Medici, ma prima di tutto dobbiamo essere noi stessi a dare l’esempio. La Giunta si è già mossa in questa direzione, sia affidando ad eminenti studiosi il progetto di riforma della Regione, sia anche in direzione della delegificazione: io spero che i colleghi presentino in Giunta, entro tempi molto brevi, proposte concrete, per cui i tempi si riducano, in agricoltura per esempio, da tre-cinque anni a sessanta-novanta giorni, in modo che le risposte ai cittadini siano date entro tempi economicamente e civilmente accettabili.
Restituire fiducia ai cittadini: una riforma della Regione, che non solo veda una diversa dinamica produttiva degli atti amministrativi in sede centrale, ma investa altresì il complesso dei poteri regionali, degli enti intermedi, dei comuni, delle comunità montane, delle province e delle altre istituzioni locali, individuando in primo luogo i comuni quali soggetti cui delegare, o addirittura trasferire, competenze che non siano strettamente connesse ad una funzione di livello e di estensione regionale.
Dobbiamo vedere la rinascita come un fatto per alcuni aspetti certamente aggiuntivo e straordinario, perché materialmente così si atteggia, ma dobbiamo però, dal punto di vista dell’organizzazione, evitare che l’amministrazione regionale cammini a due velocità, una per le procedure della rinascita e l’altra, più lenta, per le procedure e le risorse ordinarie, con sfasature inaccettabili. La straordinarietà o l’aggiuntività deve rientrare nell’ordinarietà della gestione amministrativa della Regione, che deve saper riassumere in sé, in una struttura organica di impulso, l’insieme delle azioni programmabili. Si devono vedere le risorse dello Stato, della Regione, della Comunità europea, degli enti subregionali, in una sintesi che utilizzi le sinergie dell’operatività di tutti questi enti coordinati (vedremo come: se da un comitato Regione-Stato o da altre istituzioni) per perseguire obiettivi che siano quelli della programmazione regionale.
Dico però che l’aggiuntività del piano di rinascita non ha significato se non è tale rispetto al Mezzogiorno, perché nessun operatore economico verrà in Sardegna se in Sardegna otterrà le stesse risorse che può ottenere a San Benedetto del Tronto. Dobbiamo dunque trovare forme ulteriormente aggiuntive, che potranno essere di natura amministrativa e procedurale o riguardare le forme di incentivazione, ma che comunque dovranno essere nuove e più favorevoli, perché altrimenti il cosiddetto differenziale dei costi continuerà a gravare sulla Sardegna, anche nei confronti dello stesso Mezzogiorno.
Per fare questo dovremo superare il concetto degli incentivi tradizionali, che si sono rivelati utili sostanzialmente solo per favorire la localizzazione degli investimenti, mentre non hanno assistito le aziende nella gestione. Noi dobbiamo assistere le aziende, certo, all’atto della localizzazione, ma soprattutto in sede di gestione, con gli strumenti che la moderna scienza dell’economia mette a disposizione della società. Si dovranno cioè dare alle aziende risorse finanziarie a tasso agevolato che riguardino in modo specifico la gestione, ma soprattutto quei servizi reali che costituiscono oggi la base principale perché un’azienda sia in grado, attraverso l’informazione e i supporti che questa può consentire, di fronteggiare la concorrenza positivamente.
Abbiamo da mantenere vivo e operativo il confronto con lo Stato in materia di servitù militari. È questo un punto politicamente qualificante anche per la rinascita, che dovrà definire come un suo obiettivo non solo la riduzione quantitativa e qualitativa delle servitù, che resta l’obiettivo principale nella politica della Regione, ma anche le compensazioni necessarie per quella parte di servitù che continuerà a persistere, in virtù dei doveri di solidarietà nazionale per la difesa del territorio dello Stato, che incombono su tutti i cittadini e su tutte le Regioni ed ai quali la Regione sarda e i sardi non intendono sottrarsi.
Devo dare atto che la commissione, costituita pariteticamente dal Ministero della difesa e dalla Regione sarda a seguito del contenzioso sviluppatosi, ha svolto un lavoro di censimento estremamente accurato e puntuale e ha individuato una massa rilevante di beni demaniali dismessi, che tuttavia non sono passati né all’amministrazione regionale né agli enti locali, ma sono ancora in mano ad occupanti abusivi, i quali non si sa neanche che uso ne stiano facendo, o sono addirittura inutilizzati. Si tratta di una massa rilevante di beni, che può essere riportata ad utilizzazioni economiche; si tratta di una rilevante quota di territori utili, necessari, insistentemente richiesti dalle amministrazioni comunali e dalle popolazioni, che vengono restituiti, su proposta dell’amministrazione militare, in parte con compensazioni, in parte sotto altre forme, al governo civile e alle utilizzazioni civili.
Stiamo discutendo anche su qualche poligono oggi destinato ad esercitazioni, per le quali vengono forze armate dall’esterno; c’è la disponibilità del Ministero della difesa a smobilitare, a condizione che vi sia la disponibilità di altre Regioni a ricevere questo gravame che oggi sopporta la Sardegna. Siamo insomma in movimento, in un settore che purtroppo per tanto tempo è rimasto fermo e statico.
Tutto questo, colleghi, da chi dovrà essere gestito? Chi dovrà fare le scelte? Evidentemente le scelte politiche, i grandi indirizzi, le elaborazioni appartengono al Consiglio regionale. La Giunta certo formulerà le sue proposte, farà i suoi studi, metterà a disposizione dei colleghi consiglieri tutto un insieme di ricerche e di proposte sulle quali il Consiglio poi — o per propria iniziativa o accogliendo in tutto o in parte le proposte della Giunta — farà le proprie scelte.
Ma poi quale organo dovrà mediare fra Stato e Regione nella gestione della rinascita? Si propone dalla maggioranza un comitato Stato-Regione, ma la D.C. ritiene che questo non sia opportuno, che il punto di riferimento debba essere costituito dal piano. Le precedenti esperienze hanno però dimostrato che questo sistema non va bene, perché i centri che prendono decisioni sul piano sono tanti ed è difficile stabilire tra di essi un rapporto coerente e concludente. A interpretare il piano sono il Consiglio dei ministri, i singoli ministeri, il CIPE e gli altri comitati interministeriali, l’insieme delle Partecipazioni statali e le singole aziende; ciascuno cammina per conto suo e, quando ha deciso, quella decisione non la cambia più nessuno. Abbiamo visto che confronti drammatici abbiamo dovuto fare col Governo per ricondurre a coerenza le diverse decisioni, ma questo è stato possibile allorquando avevamo dalla nostra gli articoli della legge, che ci consentivano di costringere le aziende o le holding al rispetto di certe prerogative della Regione. Altrimenti le aziende hanno proceduto in totale autonomia, e non con questa amministrazione regionale: gli esempi delle precedenti esperienze sono traumatici; è inutile stare a ricordarli in questa sede, ma sono scritti nella storia dell’autonomia.
Tutte queste sedi diverse di interpretazione e di gestione del piano non hanno consentito un modo unitario di controllo e di coordinamento da parte dell’amministrazione regionale. Basti pensare a che cosa fanno gli enti di Stato, l’ANAS, l’ENEL, la Tirrenia, che è il miglior esempio dell’arroganza di un’istituzione che — pur avendo creato tanta insofferenza, nella opinione pubblica non solo sarda ma italiana, per i pessimi servizi che rende — non si è certo mai assoggettata al piano, ma ha sempre agito di propria iniziativa.
Anche le Ferrovie dello Stato abbiamo visto come si sono comportate: hanno stabilito un certo piano di ammodernamento del sistema ferroviario sardo ed hanno affidato l’esecuzione ad un complesso di aziende esterne, che consideravano la Sardegna terzo mondo; solo in questi giorni le stiamo riconducendo al rispetto non solo dell’imprenditoria sarda, non solo delle istituzioni autonomistiche e del governo della Sardegna, ma dell’intera soggettività politica e civile del popolo sardo. Infatti l’Ente di Stato per le ferrovie ha finalmente deciso di indurre il TEAM, cioè il consorzio di imprese al quale è affidata l’elettrificazione, ad associare l’imprenditoria sarda allo stesso titolo, cioè con pari diritti rispetto ai componenti del consorzio.
Ecco quindi la necessità di un comitato che coordini gli interventi dello Stato, della Comunità europea, delle aziende a partecipazione statale, degli enti di Stato, di tutti i soggetti che operano in qualsivoglia modo in Sardegna, e li coordini alla programmazione regionale. Ecco quindi che noi esaltiamo la programmazione, che è il grande obiettivo, il grande valore che si propone nella visione del Consiglio e della Giunta.
Colleghi, io non sto parlando delle proposte di maggioranza o di minoranza; sto parlando delle proposte di tutti, che d’altra parte si differenziano su una questione, quella del comitato Stato-Regione, che attiene alla ricerca della maggiore efficienza e non implica una discriminante politica; sto parlando di proposte che sono tanto della maggioranza quanto dell’opposizione, e come Giunta le sto recependo, ritrovando un’unità reale sui problemi.
Grave sarebbe perciò la nostra responsabilità, se ci dividessimo solo sul piano politico, indebolendo globalmente il soggetto politico «popolo sardo». Noi ci presenteremmo con le istituzioni lacerate da un dissidio motivato non da una valutazione di sostanza, ma da una pura contrapposizione di maggioranza e opposizione; per la prima volta, nella storia di quarant’anni, l’opposizione si allontanerebbe dicendo: «Non voglio questa rinascita; o meglio, la voglio anche io, ma poiché la portano avanti i miei avversari, io non la sostengo».
Questo atteggiamento è di una gravità unica, di cui i sardi saranno testimoni; vi chiamo ad una crociata di solidarietà perché questo non avvenga. Le maggioranze passano, ma i problemi restano, i valori vivono una loro vita autonoma.
Io non so chi si troverà a dover difendere in Parlamento la legge che andremo ad approvare, se questa maggioranza o una diversa, ma chiunque si troverà a rappresentare la Sardegna dovrà sentire l’orgoglio e la dignità di avere dietro di sé il popolo sardo, perché unitaria è la volontà di rinascita. Se i partiti non saranno all’altezza di questo compito, il popolo sardo non ne avrà colpa; saranno partiti che non meritano questo popolo! Ma io credo che noi ritroveremo questi momenti unitari, perché sui problemi siamo d’accordo; dovremo perciò ritrovare l’accordo anche nell’unità della richiesta.
Io non credo che una lacerazione oggi possa trovare motivazioni, perché nel rapporto maggioranza-opposizione i momenti di polemica, più o meno aspra, si sono sempre verificati, ma al momento del confronto con i poteri dello Stato abbiamo sempre ritrovato motivi di unità.
La vita comunque non sì ferma oggi. La storia della Sardegna ha conosciuto altri momenti difficili, ed anche momenti squallidi, ma la storia continua. Io credo che il ricordo di questi giorni dovrà essere un ricordo magico ed esaltante, un ricordo di grande unità, un ricordo di grande fiducia. Chi non lo vorrà, scriverà la sua pagina in un angolo della storia.
Ecco, mi avvio a concludere: coordinare gli interventi significherà programmare, il coordinamento presuppone la programmazione; non però una programmazione rigida, statica, bensì una programmazione elastica, che consenta soprattutto di verificare e di aggiornare i programmi. Laddove questi si dimostreranno inidonei a conseguire gli obiettivi, dovranno essere rapidamente registrati e riproposti, secondo le scelte che il Consiglio preciserà e che la Giunta eseguirà, avvalendosi di strumenti operativi diversi, ma soprattutto mobilitando, come mi pare anche l’opposizione richieda, tutti i soggetti della democrazia di base, gli enti intermedi ed i Comuni.
Va bene anche l’ipotesi dell’agenzia: è un ottimo strumento perché consente di sfuggire ai tempi tecnici di un’amministrazione legata alla contabilità generale dello Stato, che ha tempi esasperatamente lunghi. Noi dobbiamo, nell’agenzia, individuare capacità manageriali, capacità dinamiche, capacità operative di grande agilità e snellezza, di grande tempestività. Naturalmente l’agenzia dovrà operare alle dirette dipendenze della Giunta, liberando la Giunta finalmente da compiti gestionali che non le sono propri e che meglio si addicono ad enti a questo preposti, che hanno l’organizzazione specifica a questi fini.
La Giunta deve fare amministrazione, deve fare politica, deve sviluppare tutta la professionalità dei suoi funzionari attraverso compiti amministrativi, ma non di gestione; la gestione appartiene ad organi diversi, e ormai il mondo moderno non consente più i tempi tecnici delle amministrazioni tradizionali, ma ha bisogno di strumenti più moderni, creativamente più produttivi.
È evidente che anche l’attuazione dovrà comportare strumenti di indagine e di accertamento, ma queste sono tutte cose che noi vedremo in sede di elaborazione legislativa. Noi intanto dobbiamo rivendicare per l’appunto questa capacità autonoma di strutturazione degli organi, che non abbiamo bisogno di definire ora; lo faremo in sede operativa, in virtù della nostra capacità autonomistica, che ci consente di definire il nostro ordinamento interno e di organizzare come meglio crediamo gli strumenti per perseguire gli obiettivi che ci proponiamo.
Concludo questo mio intervento ringraziandovi per la cortesia con la quale avete voluto seguire le mie considerazioni e l’impegno della Giunta. Io credo che oggi noi stiamo scrivendo una pagina nuova nella storia dell’autonomia sarda; stiamo definendo obiettivi, strumenti, procedure, impegno politico.
Al di là della maggioranza o dell’opposizione vi sono le istituzioni, vi è il destinatario ultimo, che è il popolo sardo. Noi dobbiamo restituire al nostro popolo la legittimazione piena delle istituzioni autonomistiche, dimostrando come queste siano in grado di dare risposte concrete e positive.
La Regione è lo strumento supremo della nostra crescita sociale e civile, dello sviluppo; nella Regione possono aggregarsi le grandi componenti della nostra società, trovando quei momenti unitari che sono essenziali perché il popolo sardo sia veramente forte e capace di importanti confronti.
L’appuntamento della storia è importante, ed io sono certo che noi a questo appuntamento sapremo rispondere in termini positivi. Auspico che a questo appuntamento ci troviamo insieme, e che insieme procediamo nel cammino, che è difficile. Ma, se questo non dovesse avvenire, ciò non significherebbe che le istituzioni si fermano, che si ferma l’azione della Regione sarda: il cammino sarà percorso sino in fondo, e io sono certo che gli obiettivi saranno raggiunti.