Sassari. «Il partito sardo attraversa la stessa crisi che ha coinvolto tutti gli altri partiti italiani: un processo involutivo che li ha fatti passare dai valori ideali che erano i loro grandi obiettivi, alla gestione del potere, di quel potere che poi diventa personale». Mario Melis, uno dei padri nobili del Psd’Az – deputato, poi senatore, presidente della Regione, eurodeputato – affronta così, con gli strumenti della politica alta schierata contro i bassi interessi particolari, la drammatica crisi che attraversa il suo partito. Lo fa con il distacco dei suoi 79 anni. «I protagonisti che si trovavano in posizioni di vertice – afferma – hanno operato anche nel partito sardo in funzione di questo obiettivo. Nel parlamento italiano oltre cento parlamentari hanno cambiato partito. Questo sta avvenendo anche nel consiglio regionale. Uno degli esponenti che ha subito questa crisi, che ha avuto una poltrona di grande prestigio quale quella della presidenza del consiglio, è un esponente del partito sardo».
Ma questa crisi andava avanti da tempo. Non è solo il passaggio di qualcuno dal centrosinistra al centrodestra.
«Iniziò nel ’98 quando Serrenti disse esplicitamente che voleva partecipare al forum delle opposizioni ad Aritzo. Altri esponenti di spicco del partito dicevano che il nostro congresso, pur non facendo una scelta di collettivismo, come dimostra la decisione di puntare sulla proposta del porto franco, nondimeno, per le maggiori garanzie offerte dalla maggioranza di centrosinistra, puntava ad allearsi appunto con il centrosinistra. Questo lo ha detto anche l’ultimo congresso di Alghero. Il gruppo capeggiato da Serrenti diceva: andiamo a destra, perché li abbiamo avuto maggiori possibilità di affermazione».
Il Psd’Az ha tradizionalmente privilegiato i rapporti con la sinistra. C’è la possibilità che questa scelta cambi?
«Non credo. Il partito sardo è un partito popolare, autonomista, e quindi tende a disintegrare il potere centrale degli stati per creare un potere orizzontale. È una dinamica dei processi politici che vede come protagoniste le popolazioni e non i soliti vertici dei partiti».
Si può affermare che il passaggio dal partito delle idee al partito degli amministratori è iniziato con il boom elettorale dell’85?
«Si può dire che quel successo ha contribuito a promuovere a ruoli di gestione del potere persone che altrimenti non avrebbero mai raggiunto posizioni di rilievo. Il partito sardo ha sempre garantito solo un ruolo di denuncia, di protesta, di lotta. Certo, anche di governo, ma non legato al potere, legato agli obiettivi. Se ci si lega al potere, di chiese che hanno più potere di noi ce ne sono molte. Il potere per un sardista autentico è solo uno strumento, non un obiettivo. Purtroppo a un certo punto, quando un sacco di persone che pure avevano lottato con generosità, si sono trovate al centro di una situazione in cui un loro esponente era presidente della giunta, hanno assaporato il potere».
Il potere è dunque così coinvolgente anche per un militante sardista puro?
«Il potere è una cosa vischiosa dalla quale è difficile staccarsi. Ed è la malattia del potere che è entrata nel nostro partito anche in conseguenza di quel grosso successo elettorale. Arrivarono al potere anche molti che erano saliti sul carro vincente all’ultimo momento».
E ora, come ne uscirete?
«lo credo che il congresso registrerà quelli che siamo e quanti siamo: non ha molta importanza se siamo molti o pochi. Il problema è recuperare gli ideali del partito, l’essenza del significato autentico della lotta sardista, che non si fa soltanto con piccole e furbesche alleanze, ma si realizza dando certezza di obiettivi all’opinione pubblica. Finora è accaduto spesso che il politico fosse visto come uno che lotta per interessi personali o clientelari, che spesso è il cancro più devastante delle regioni povere, dove è più facile che un militante venga trasformato in un questuante. Ma se il politico viene visto come uno che lotta per ideali alti, l’opinione pubblica lo riconosce e lo sostiene».
Ma lei crede davvero che questa strada sia percorribile?
«Lo è stata tante volte in passato. Ogni volta che ci sono stati fermenti, grandi movimenti popolari. Noi sardisti siamo stati i primi, da Camillo Bellieni, a intuire che il futuro darebbe stato nel regionalismo europeista, mentre l’Europa andava verso il fascismo, verso la notte degli stati nazionali che si armavano l’uno contro l’altro per conquistare mercati. Oggi questo terreno, dell’europeismo regionalista, è ancora più forte e praticabile».
Lei mi sembra davvero molto ottimista.
«E oggi l’Europa che cosa sta tentando se non proprio un progressivo decentramento alle regioni, anche se sono stati mantenuti fortissimi gli stati centrali? L’Unione europea, dice il trattato di Maastricht, si fonda sui popoli. E poi possiamo contare su papa Giovanni Paolo II, che ha parlato dei diritti dei popoli, soprattutto dei piccoli popoli».
Su queste basi pensa davvero che si possa tornare alla politica degli ideali, abbandonando la politica del potere?
«Ci vorranno dieci, quindici anni. La mia generazione di sardisti probabilmente morirà senza vedere queste trasformazioni, e con esse il rilancio dei sardisti, che hanno intuito 80 anni fa il senso della storia. Se Prodi sta incontrando difficoltà è perché trova molte resistenze da parte degli stati nazionali, che cedono malvolentieri quote di potere».
Quale percorso porta a ritrovare la vera politica?
«Molti vivono nella speranza del colpo di bacchetta magica. C’è il grande taumaturgo Berlusconi, l’uomo del destino. Gli uomini della provvidenza hanno sempre imperversato. E la gente si crede di fronte alla pochezza di una classe politica in cui più di cento eletti hanno cambiato partito. Ma c’è anche la politica vera, quella che decide, che affronta i problemi dei popoli. La politica ridiventa vera se c’è partecipazione di popolo. Altrimenti è solo aggregazione di poteri».
La nostra crisi? Il potere – intervista di R. Morini – La Nuova Sardegna – 12 aprile 2000
8 Novembre 2024 by