La nostra crisi? Il potere – intervista di R. Morini – La Nuova Sardegna – 12 aprile 2000

Sassari. «Il partito sardo attraversa la stessa crisi che ha coinvolto tutti gli altri par­titi italiani: un processo invo­lutivo che li ha fatti passare dai valori ideali che erano i lo­ro grandi obiettivi, alla gestio­ne del potere, di quel potere che poi diventa personale». Mario Melis, uno dei padri no­bili del Psd’Az – deputato, poi senatore, presidente della Regione, eurodeputato – af­fronta così, con gli strumenti della politica alta schierata contro i bassi interessi parti­colari, la drammatica crisi che attraversa il suo partito. Lo fa con il distacco dei suoi 79 anni. «I protagonisti che si trovavano in posizioni di ver­tice – afferma – hanno ope­rato anche nel partito sardo in funzione di questo obietti­vo. Nel parlamento italiano oltre cento parlamentari han­no cambiato partito. Questo sta avvenendo anche nel con­siglio regionale. Uno degli esponenti che ha subito que­sta crisi, che ha avuto una poltrona di grande prestigio quale quella della presidenza del consiglio, è un esponente del partito sardo».
Ma questa crisi andava avanti da tempo. Non è so­lo il passaggio di qualcuno dal centrosinistra al centrodestra.
«Iniziò nel ’98 quando Serrenti disse esplicitamente che voleva partecipare al forum delle opposizioni ad Aritzo. Altri esponenti di spicco del partito dicevano che il nostro congresso, pur non facendo una scelta di collettivismo, co­me dimostra la decisione di puntare sulla proposta del porto franco, nondimeno, per le maggiori garanzie offerte dalla maggioranza di centrosi­nistra, puntava ad allearsi ap­punto con il centrosinistra. Questo lo ha detto anche l’ul­timo congresso di Alghero. Il gruppo capeggiato da Serrenti diceva: andiamo a destra, perché li abbiamo avuto mag­giori possibilità di affermazio­ne».
Il Psd’Az ha tradizional­mente privilegiato i rappor­ti con la sinistra. C’è la pos­sibilità che questa scelta cambi?
«Non credo. Il partito sardo è un partito popolare, autono­mista, e quindi tende a disin­tegrare il potere centrale de­gli stati per creare un potere orizzontale. È una dinamica dei processi politici che vede come protagoniste le popola­zioni e non i soliti vertici dei partiti».
Si può affermare che il passaggio dal partito delle idee al partito degli ammi­nistratori è iniziato con il boom elettorale dell’85?
«Si può dire che quel suc­cesso ha contribuito a promuovere a ruoli di gestione del potere persone che altri­menti non avrebbero mai rag­giunto posizioni di rilievo. Il partito sardo ha sempre ga­rantito solo un ruolo di de­nuncia, di protesta, di lotta. Certo, anche di governo, ma non legato al potere, legato agli obiettivi. Se ci si lega al potere, di chiese che hanno più potere di noi ce ne sono molte. Il potere per un sardi­sta autentico è solo uno stru­mento, non un obiettivo. Pur­troppo a un certo punto, quando un sacco di persone che pure avevano lottato con generosità, si sono trovate al centro di una situazione in cui un loro esponente era pre­sidente della giunta, hanno assaporato il potere».
Il potere è dunque così coinvolgente anche per un militante sardista puro?
«Il potere è una cosa vischio­sa dalla quale è difficile stac­carsi. Ed è la malattia del po­tere che è entrata nel nostro partito anche in conseguenza di quel grosso successo eletto­rale. Arrivarono al potere an­che molti che erano saliti sul carro vincente all’ultimo mo­mento».
E ora, come ne uscirete?
«lo credo che il congresso registrerà quelli che siamo e quanti siamo: non ha molta importanza se siamo molti o pochi. Il problema è recupera­re gli ideali del partito, l’es­senza del significato autenti­co della lotta sardista, che non si fa soltanto con piccole e furbesche alleanze, ma si realizza dando certezza di obiettivi all’opinione pubbli­ca. Finora è accaduto spesso che il politico fosse visto co­me uno che lotta per interessi personali o clientelari, che spesso è il cancro più deva­stante delle regioni povere, dove è più facile che un mili­tante venga trasformato in un questuante. Ma se il politi­co viene visto come uno che lotta per ideali alti, l’opinione pubblica lo riconosce e lo so­stiene».
Ma lei crede davvero che questa strada sia percorri­bile?
«Lo è stata tante volte in passato. Ogni volta che ci so­no stati fermenti, grandi mo­vimenti popolari. Noi sardisti siamo stati i primi, da Camil­lo Bellieni, a intuire che il fu­turo darebbe stato nel regio­nalismo europeista, mentre l’Europa andava verso il fa­scismo, verso la notte degli stati nazionali che si armava­no l’uno contro l’altro per conquistare mercati. Oggi questo terreno, dell’europei­smo regionalista, è ancora più forte e praticabile».
Lei mi sembra davvero molto ottimista.
«E oggi l’Europa che cosa sta tentando se non proprio un progressivo decentramento alle regioni, anche se sono stati mantenuti fortissimi gli stati centrali? L’Unione europea, dice il trattato di Maastricht, si fonda sui popoli. E poi possiamo contare su papa Giovanni Paolo II, che ha parlato dei diritti dei popoli, so­prattutto dei piccoli popoli».
Su queste basi pensa dav­vero che si possa tornare al­la politica degli ideali, ab­bandonando la politica del potere?
«Ci vorranno dieci, quindi­ci anni. La mia generazione di sardisti probabilmente mo­rirà senza vedere queste trasformazioni, e con esse il rilancio dei sardisti, che hanno intuito 80 anni fa il senso del­la storia. Se Prodi sta incontrando difficoltà è perché tro­va molte resistenze da parte degli stati nazionali, che cedono malvolentieri quote di po­tere».
Quale percorso porta a ritrovare la vera politica?
«Molti vivono nella speranza del colpo di bacchetta magica. C’è il grande taumatur­go Berlusconi, l’uomo del destino. Gli uomini della provvidenza hanno sempre imperversato. E la gente si crede di fronte alla pochezza di una classe politica in cui più di cento eletti hanno cambiato partito. Ma c’è anche la politica vera, quella che decide, che affronta i problemi dei popoli. La politica ridiventa vera se c’è partecipazione di popolo. Altrimenti è solo aggregazione di poteri».