Serve federalismo non solo assessori – intervista di M. De Murtas -La Nuova Sardegna – 14 febbraio 1998

Non ha reticenze, Mario Melis, nel ribadire le cri­tiche che aveva già mos­so ai dirigenti del suo partito in un intervento su questo giornale, ma soprattutto chie­de un ritorno a una politica che voli alto, sopra il groviglio dei piccoli giochi di potere. «Abbandonarsi a gratuite, in­sultanti aggressività nei con­fronti di altri sardisti o anche di avversari politici — dice il vecchio presidente sardista del­la Regione — dà sfogo a risen­timenti personali ma dimostra in modo spettacolare il vuoto, il deserto di idee che guida questo gruppo politico».
Le pare che in questo mo­mento il Psd’Az abbia smarri­to, in parte o del tutto, la sua identità, anche in termini di col­locazione politica?
«Assumere responsabilità di governo o ruolo di opposizio­ne non è fatto necessariamen­te ideologico ma eminentemen­te politico. Una volta definiti i programmi, partiti di tradizio­ne democratica come Pp, lo stesso Pds, il Cdu, il Patto Se­gni, i diniani, possono conside­rarsi dei validi alleati coi quali percorrere una parte del diffici­le cammino verso l’autonomia e il progresso. Resto perplesso su Alleanza nazionale per i suoi precedenti ideologici e Forza Italia perché aggregata in convulsa improvvisazione per la difesa di un certo tipo di aziendalismo rampante che ha valori ideologici, ancor oggi, indecifrabili. Ho più vol­te sollecitato l’uscita del parti­to dalla maggioranza regiona­le quando appariva ormai chiaro che la giunta non riusci­va a proporsi al governo dello Stato come interlocutore di pa­ri dignità. D’altra parte i parti­ti che la costituivano dimostra­vano scarso interesse per temi sardisti di maggiore attualità: federalismo e zona franca; sal­vo alcune generiche afferma­zioni di orientamento, questi due fondamentali obiettivi ve­nivano contrastati, specie dal­l’allora assessore alla program­mazione. Uscire dalla maggio­ranza denunziando questo sta­to di cose avrebbe costituito un chiaro messaggio verso il popolo sardista e un ammoni­mento per una vigorosa azio­ne di proposta e contestazione verso i poteri centrali dello Stato. Di fatto l’uscita dalla maggioranza è stata motivata da considerazioni deludenti che hanno spento ogni empito politico e ideologico (non ac­cettavano la riduzione degli as­sessorati da due a uno!)».
Lei trova che questa po­vertà ideologica e politica sia un dato specifico del Psd’Az o che, almeno a livello regionale, sia più generale?
«Ho l’impressione che il fe­nomeno ha attraversato il par­titismo italiano nel suo com­plesso, infettato da una crisi involutiva così diffusa e inten­sa da determinarne la disgrega­zione; è fallita la politica che avevano sviluppato in questi cinquant’anni di vita repubbli­cana. In effetti avevano mina­to alla base l’organizzazione dello Stato perché, pur avendo dato vita al parlamento, si so­no sostituiti ad esso. Questo ha sottratto ai cittadini il controllo democratico delle decisioni e delle politiche ed ha fa­vorito processi involutivi che poi si sono tradotti in quella gestione di tipo elettoral-partitico (non di rado privatistico) del potere che è degenerata in Tangentopoli; fenomeni di cor­ruzione diffusa che hanno por­tato alla paralisi sostanziale dello Stato. Quello che è falli­to, secondo me, è il tipo di Sta­to centralistico, che colloca il vertice del potere statale lonta­no, irraggiungibile e incontrol­labile dai cittadini. Oggi si pone il problema politico di restituire al popolo la sua sovranità. A ben guardare su que­sta fondamentale esigenza si fonda l’insorgere così diffuso dell’istanza federalista».
È fallito lo stato centralistico, però non sembrano alle vi­ste i segni di un federalismo sar­do trionfante, né come figure, né come idee.
«È vero: dopo il crollo delle ideologie c’è stato un disamore per la politica, un disperdersi, una caduta dell’interes­se dei cittadini. I vecchi partiti sono diventati ferrivecchi, non più agibili, né più utilizzabili.
E quelli nati dalla loro disgre­gazione stanno soltanto cer­cando di impossessarsi di una quota di potere per gestirlo e consolidare la loro forza. Tut­ti, a parole, sono federalisti; non c’è partito che non si dica federalista ma non c’è partito che abbia fatto una proposta che assomigli pur di lontano al federalismo. Si limitano a parlare di deleghe di poteri ma sulle grandi scelte, sulla ri­partizione delle risorse, le di­rettive sul bilancio dello stato e l’individuazione dei mezzi so­no avocati ai vertici dello sta­to riservando agli enti territo­riali puri compiti attuativi».
Vale anche per il suo partito?
«Non siamo stati capaci di assolvere a un ruolo protagonista, fervidamente propositivo, proprio in questa fase di odierna costituente».
Da dove è possibile ripartire, secondo lei?
«Ciascuno deve ripartire da casa, dalla realtà nella quale è chiamato a operare. Prima di tutto creare le condizioni dello a sviluppo della propria area, cercare di far crescere i valori non solo dell’economia ma del­la dignità sociale. E le risposte devono essere diverse da zona a zona. Si deve creare un po­polo di protagonisti che si sen­tano responsabili di un proces­so di sviluppo e di crescita. E che quindi esprima una classe dirigente, perché noi una clas­se dirigente non l’abbiamo; questo il vero dramma. Abbia­mo uomini di grande valore, in tutti i campi, dall’arte alla scienza, alla politica, all’im­prenditoria; ma non abbiamo una classe dirigente».
Perché, secondo lei?
«Perché manca un tessuto connettivo sociale, nel quale tutti questi settori interagisca­no nel processo decisionale. È necessario che riescano a dialo­gare tra loro dato che sono ne­cessariamente interdipendenti. Mancando questo dialogo ognuno di questi settori conti­nua invece a dipendere da Ro­ma, ciascuno si scava la sua piccola nicchia mantenendo un cordone ombelicale con il suo referente romano; così si resta sudditi, non si forma un gruppo dirigente che assuma su di sé la responsabilità delle decisioni. Perché l’autonomia non è solo libertà, è prima di di tutto responsabilità».
L’autonomia, appunto, che ha cinquant’anni: si può fa­re un bilancio?
«La Regione ha avuto dei momenti altissimi. I primi die­ci anni sono stati fervidi, pieni di iniziative, i primi ammini­stratori, penso alle giunte Crespellani o Corrias, hanno po­sto problemi con grande grinta, costringendo lo Stato a ri­conoscere un debito storico verso la Sardegna che aveva subito un’emarginazione che ne aveva ritardato lo sviluppo e il riequilibrio con le altre regioni. Riconoscimento che si tradotto nel Pano di Rinascita. Purtroppo finanziato con somme insufficienti che il governo ha sin da subito conside­rato sostitutive degli stanzia­menti ordinari. In effetti la Ri­nascita è stata un nuovo e peg­giore inganno. E a ben guarda­re con il Piano di Rinascita ab­biamo avuto meno di quel che avremmo avuto con gli stan­ziamenti ordinari».
E in termini di responsabilità, questo mezzo secolo?
«La colpa è di noi sardi che siamo sempre stati disuniti. Cent’anni fa un grande federa­lista come Giovanni Battista Tuveri diceva che la debolezza della Sardegna è la conflittua­lità dei sardi. Il nostro provin­cialismo non si esprime tanto nella pochezza dei valori cultu­rali e intellettuali, quanto in questa conflittualità interna. L’unità dei sardi è la forza che li rende vincenti, lo dico con assoluta certezza. E lo dico per l’esperienza che ho fatto al­la guida della Regione, comin­ciata con una polemica durissi­ma verso i poteri centrali (ero stato trattato da “mezzo terro­rista” da De Mita mentre l’ex presidente Leone aveva scritto che ero colpevole di reati da er­gastolo), ma nel corso di quel­la legislatura sia il governo che i managers dell’industria pubblica non hanno chiuso qui neppure una linea di pro­duzione o una miniera, anzi abbiamo riaperto le miniere del carbone chiuse da molto tempo. Alla fine di quei cin­que anni la disoccupazione era scesa dal 24 al 19 per cen­to, che è sempre moltissimo, ma sono cinque punti in me­no. L’occupazione era aumen­tata di 48.000 unità».
Frutto di una sostanziale unità dei sardi?
«Il governo sapeva che quel­la giunta aveva il consenso po­polare, e che metterci la prua addosso significava sfidare l’o­pinione pubblica sarda che era gran parte d’accordo con la giunta. E quando il governo ha la sensazione che i sardi siano uniti, come qualunque al­tro popolo, non osa sfidarli. Dobbiamo rivendicare una sal­da, robusta autonomia che ci metta in grado di risolverei problemi che lo Stato si è di­mostrato incapace di risolve­re. Un’autonomia che ci con­senta di utilizzare la nostra ve­ra, unica grande risorsa che fi­no a oggi è stata invece la no­stra prigione: il rapporto col mare. Non abbiamo econo­mia marittima, che per un’iso­la costituisce i polmoni. Dob­biamo realizzare una forte portualità ad alto livello di tecno­logie, e, grazie anche alla zona franca, diventare il punto di snodo dei commerci di quest’a­rea mediterranea. Solo un fe­condo e intenso rapporto con il mare ci consentirà d’interna­zionalizzare la nostra econo­mia facendo della Sardegna un soggetto politico protagoni­sta della civiltà mediterranea ed europea».