Giunta, dopo il crollo si scava tra le macerie – intervista di A. Ghiani – L’Unione Sarda – 2 novembre 1996

«Non c’è tensione morale, non ci sono idee, siamo allo sbando». Un grande prota­gonista della politica, testi­mone diretto di anni diffi­cili, vissuti sempre e co­munque da primo attore, giudica la crisi regionale dall’esterno e finisce per confessarsi totalmente di­sorientato. Il naufragio del Palomba-ter, il getto della spugna di un presidente de­luso e impietosamente giu­stiziato, i travagli d’una re­gione sempre più disastra­ta «mi preoccupano profon­damente» – confessa Mario Melis – «e non depongono a favore d’una politica che anche in Sardegna si ap­piattisce su meschine be­ghe per la conquista di mi­serevoli fette di potere».
Avvocato di professione, ex presidente della Regio­ne, più volte parlamentare, Mario Melis continua a sentirsi sardista a tutto ton­do. Ma subito precisa che sulle grandi questioni mo­rali e nell’«interesse supre­mo» della Sardegna non ci si può dividere su sterili principi ideologici e autolesionistiche contrapposi­zioni.
Esattamente il contra­rio di quanto è accaduto in questi giorni alla Re­gione, dove si è scatenata una guerra senza esclu­sione di colpi, che ha por­tato allo sfascio e non in­duce ad essere ottimisti.
«Sì, è proprio così. Non ho seguito in diretta tutti i tra­vagli della crisi e non so co­me si sono atteggiati i par­titi. Ma dall’esterno mi pa­re di capire che scompare ogni gestione nobile della politica per lasciare spazio alle lotte intestine. E tutto ciò in una stagione difficile, alla vigilia di grandi rifor­me, mentre l’Italia stessa è di fronte ad una svolta e vi­ve momenti terribili. Sia­mo al passaggio da un po­tere verticale, centralistico, a un potere orizzontale e diffuso delle autonomie lo­cali. Un passaggio che inte­ressa soprattutto le regioni deboli, come la Sardegna, perché le forti sopravvivo­no beatamente grazie alle loro ricchezze. E chi vuole riequilibrio e solidarietà deve partecipare a questo processo con la sua forza interiore, mentre noi sardi ci presentiamo a quest’ap­puntamento in condizioni d’estrema debolezza.»
Sconfitti in partenza?
«Spero di no, ma mi chie­do quali posizioni unitarie abbia assunto la nostra Re­gione sul federalismo o sul­la zona franca. E non so proprio che cosa risponde­re. Devo amaramente con­statare che non ci sono pro­getti né idee, che siamo allo sbando. Personalmente posso ricordare che ho sempre trovato risorse e grande forza nell’elaborare il pensiero federalista attraverso la tradizione intellettuale dei grandi sardi. Una ricchezza immensa, una risorsa alla quale at­tingere a piene mani, al di  là delle grandi mobilitazioni di cui è stato capace il Psd’Az.»
Lei parla del passato. È una critica all’attuale di­rezione dei Quattro mori?
«No, non volevo arrivare a tanto. Dico più semplicemente che erano altri tempi, che a quel supporto di grande rigore ed alta tradi­zione sapevano attingere in molti. Basta ricordare i personaggi che si muove­vano su queste linee, ad esempio un militante del PCI di robusto spessore intellettuale e ideale come Umberto Cardia. Con lui mi sono battuto per il protocollo che automaticamente trasferiva i nuovi poteri delle Regioni ordinarie a quelle a Statuto speciale che già non li avessero. Ma abbiamo dovuto attendere sei anni ed a firmare, nella commissione interparla­mentare di deputati e senatori, siamo stati solo io e lui. Segno evidente che tra un convinto federalista ed un comunista ci potevano essere delle grandi intese che fanno parte del patrimonio di idee del Psd’Az e che questa classe dirigente sta invece dissipando.»
Insomma, dai tempi delle sue battaglie per la lingua e contro gli insedia­menti militari a La Maddalena sono trascorsi anni luce. È così?
Non so, preferisco tacere. Ma ricordo che in quegli anni sono state restituite a La Maddalena delle spiagge che erano l’esempio d’una pura conservazione del dominio militare. Abbia­mo persino citato in giudi­zio il ministro della Difesa Giovanni Spadolini, che si è precipitato in Sardegna per dirci due sole parole: «avete ragione». E alla no­stra Isola sono stati resti­tuiti duemila e cinquecen­to ettari di terreno gravati da servitù, a La Maddalena come a Cagliari, in pieno centro storico, visto che il vecchio ospedale militare non è più del ministero della Difesa.»
Innegabile successo che resta nel libro dei ricordi, ma che non è stato l’uni­co.
«È verissimo, ci siamo battuti per la lingua e con­tro lo strapotere esterno delle lobbies, per la gassificazione del carbone Sulcis, per ottenere l’autonomia energetica della Sardegna. E ci siamo scontrati con la primissima Tangentopoli di stanza a Milano, con i “mazzettari” che offrivano miliardi per imporre sulla trasformazione del carbone le loro scelte. Ma loro sono finiti in galera, mentre noi pensavamo ad una Sardegna tecnologicamente attrezzata, moderna e capace di garantire sviluppo con i piani telematici, con un progetto acque in grado di trasformare la nostra economia agropastorale e difendere la nostra terra dai periodi calamitosi di sic­cità.»
Significa che alle gran­i di idee devono seguire i fatti. È esatto?
«Certo, è esatto. Ma oggi non è più così, visto che per la zona franca, che potrebbe essere un poderoso strumento di sviluppo, assistiamo solo a convegni e sterili dibattiti. All’inizio del secolo, sparsi per il mondo, c’erano già un centinaio di punti franchi, diventati almeno quattrocento dagli Anni Cinquanta in poi. Il loro aumento è la prova che sono un’alternativa straordinaria per superare i guasti economici della riconversione industriale, che hanno trasformato e reso più dinamiche intere zone degli Stati Uniti, che nella sola Singapore ci sono attualmente al lavoro 380mila operai. Noi preferiamo le interminabili discussioni, mentre la Sardegna è sull’orlo del baratro ed i risultati attuali, per dirla tutta, non sembra abbiano premiato il dichiarato impegno dell’ex presidente Palomba.»
Per concludere: giudizio negativo su tutta la linea, anche sul suo parti­to?
«Non esageriamo, se non sono proprio ottimista mi resta almeno la speranza.
Di certo la Sardegna ha bisogno di una grande unità, di ritrovare “ideali comu­ni”. Il Psd’Az si salva se sarà capace di amalgama­re tutti questi empiti di amore viscerale dei sardi per la loro terra. Ma occor­re uscire dalle “chiesuole ideologiche” per mobilita­re il popolo, perché le bat­taglie non le vincono quat­tro generali, ma l’esercito, in questo caso i sardi. Nul­la si ottiene con le congiure di palazzo, nulla con i mu­retti a secco: servono solo a gestire miserabili incrostazioni di potere ed a nutrire piccoli egoismi personali. La Sardegna è tutt’altra cosa.»