«Non c’è tensione morale, non ci sono idee, siamo allo sbando». Un grande protagonista della politica, testimone diretto di anni difficili, vissuti sempre e comunque da primo attore, giudica la crisi regionale dall’esterno e finisce per confessarsi totalmente disorientato. Il naufragio del Palomba-ter, il getto della spugna di un presidente deluso e impietosamente giustiziato, i travagli d’una regione sempre più disastrata «mi preoccupano profondamente» – confessa Mario Melis – «e non depongono a favore d’una politica che anche in Sardegna si appiattisce su meschine beghe per la conquista di miserevoli fette di potere».
Avvocato di professione, ex presidente della Regione, più volte parlamentare, Mario Melis continua a sentirsi sardista a tutto tondo. Ma subito precisa che sulle grandi questioni morali e nell’«interesse supremo» della Sardegna non ci si può dividere su sterili principi ideologici e autolesionistiche contrapposizioni.
Esattamente il contrario di quanto è accaduto in questi giorni alla Regione, dove si è scatenata una guerra senza esclusione di colpi, che ha portato allo sfascio e non induce ad essere ottimisti.
«Sì, è proprio così. Non ho seguito in diretta tutti i travagli della crisi e non so come si sono atteggiati i partiti. Ma dall’esterno mi pare di capire che scompare ogni gestione nobile della politica per lasciare spazio alle lotte intestine. E tutto ciò in una stagione difficile, alla vigilia di grandi riforme, mentre l’Italia stessa è di fronte ad una svolta e vive momenti terribili. Siamo al passaggio da un potere verticale, centralistico, a un potere orizzontale e diffuso delle autonomie locali. Un passaggio che interessa soprattutto le regioni deboli, come la Sardegna, perché le forti sopravvivono beatamente grazie alle loro ricchezze. E chi vuole riequilibrio e solidarietà deve partecipare a questo processo con la sua forza interiore, mentre noi sardi ci presentiamo a quest’appuntamento in condizioni d’estrema debolezza.»
Sconfitti in partenza?
«Spero di no, ma mi chiedo quali posizioni unitarie abbia assunto la nostra Regione sul federalismo o sulla zona franca. E non so proprio che cosa rispondere. Devo amaramente constatare che non ci sono progetti né idee, che siamo allo sbando. Personalmente posso ricordare che ho sempre trovato risorse e grande forza nell’elaborare il pensiero federalista attraverso la tradizione intellettuale dei grandi sardi. Una ricchezza immensa, una risorsa alla quale attingere a piene mani, al di là delle grandi mobilitazioni di cui è stato capace il Psd’Az.»
Lei parla del passato. È una critica all’attuale direzione dei Quattro mori?
«No, non volevo arrivare a tanto. Dico più semplicemente che erano altri tempi, che a quel supporto di grande rigore ed alta tradizione sapevano attingere in molti. Basta ricordare i personaggi che si muovevano su queste linee, ad esempio un militante del PCI di robusto spessore intellettuale e ideale come Umberto Cardia. Con lui mi sono battuto per il protocollo che automaticamente trasferiva i nuovi poteri delle Regioni ordinarie a quelle a Statuto speciale che già non li avessero. Ma abbiamo dovuto attendere sei anni ed a firmare, nella commissione interparlamentare di deputati e senatori, siamo stati solo io e lui. Segno evidente che tra un convinto federalista ed un comunista ci potevano essere delle grandi intese che fanno parte del patrimonio di idee del Psd’Az e che questa classe dirigente sta invece dissipando.»
Insomma, dai tempi delle sue battaglie per la lingua e contro gli insediamenti militari a La Maddalena sono trascorsi anni luce. È così?
Non so, preferisco tacere. Ma ricordo che in quegli anni sono state restituite a La Maddalena delle spiagge che erano l’esempio d’una pura conservazione del dominio militare. Abbiamo persino citato in giudizio il ministro della Difesa Giovanni Spadolini, che si è precipitato in Sardegna per dirci due sole parole: «avete ragione». E alla nostra Isola sono stati restituiti duemila e cinquecento ettari di terreno gravati da servitù, a La Maddalena come a Cagliari, in pieno centro storico, visto che il vecchio ospedale militare non è più del ministero della Difesa.»
Innegabile successo che resta nel libro dei ricordi, ma che non è stato l’unico.
«È verissimo, ci siamo battuti per la lingua e contro lo strapotere esterno delle lobbies, per la gassificazione del carbone Sulcis, per ottenere l’autonomia energetica della Sardegna. E ci siamo scontrati con la primissima Tangentopoli di stanza a Milano, con i “mazzettari” che offrivano miliardi per imporre sulla trasformazione del carbone le loro scelte. Ma loro sono finiti in galera, mentre noi pensavamo ad una Sardegna tecnologicamente attrezzata, moderna e capace di garantire sviluppo con i piani telematici, con un progetto acque in grado di trasformare la nostra economia agropastorale e difendere la nostra terra dai periodi calamitosi di siccità.»
Significa che alle grani di idee devono seguire i fatti. È esatto?
«Certo, è esatto. Ma oggi non è più così, visto che per la zona franca, che potrebbe essere un poderoso strumento di sviluppo, assistiamo solo a convegni e sterili dibattiti. All’inizio del secolo, sparsi per il mondo, c’erano già un centinaio di punti franchi, diventati almeno quattrocento dagli Anni Cinquanta in poi. Il loro aumento è la prova che sono un’alternativa straordinaria per superare i guasti economici della riconversione industriale, che hanno trasformato e reso più dinamiche intere zone degli Stati Uniti, che nella sola Singapore ci sono attualmente al lavoro 380mila operai. Noi preferiamo le interminabili discussioni, mentre la Sardegna è sull’orlo del baratro ed i risultati attuali, per dirla tutta, non sembra abbiano premiato il dichiarato impegno dell’ex presidente Palomba.»
Per concludere: giudizio negativo su tutta la linea, anche sul suo partito?
«Non esageriamo, se non sono proprio ottimista mi resta almeno la speranza.
Di certo la Sardegna ha bisogno di una grande unità, di ritrovare “ideali comuni”. Il Psd’Az si salva se sarà capace di amalgamare tutti questi empiti di amore viscerale dei sardi per la loro terra. Ma occorre uscire dalle “chiesuole ideologiche” per mobilitare il popolo, perché le battaglie non le vincono quattro generali, ma l’esercito, in questo caso i sardi. Nulla si ottiene con le congiure di palazzo, nulla con i muretti a secco: servono solo a gestire miserabili incrostazioni di potere ed a nutrire piccoli egoismi personali. La Sardegna è tutt’altra cosa.»
Giunta, dopo il crollo si scava tra le macerie – intervista di A. Ghiani – L’Unione Sarda – 2 novembre 1996
30 Ottobre 2024 by