All’ombra dei quattro mori – intervista di Gigi Puggioni – L’Unione Sarda – 4 marzo 1998

Sassari. Nella sua recente in­tervista a Videolina e al no­stro giornale, Nino Piretta, recluso nel carcere di San Sebastiano, ha parlato più volte dei suoi rapporti con Mario Melis. Il leader sar­dista ha ora accettato il no­stro invito a commentare i passaggi più significativi dell’intervista.
Lei è stato chiamato in causa più volte dall’uomo che è accusato d’aver or­dinato un attentato con­tro la sua casa in San Teo­doro. Ha notato anche lei che dalle parole di Nino Piretta traspare più ama­rezza che rancore?
«Sì, ho avuto anch’io questa sensazione Ha det­to che eravamo amici ed è vero. Lo stimavo ed ap­prezzavo la difficile lotta che conduceva con pochi fervidi militanti, fra i qua­li Antonino Cambule ed il giovane Efisio Planetta, per contrastare a Sassari la crisi del partito dopo l’abbandono dell’unico consigliere regionale della provincia, l’onorevole Ni­no Ruju (passato al partito repubblicano), la scom­parsa di uomini del valore di Antonio Simon Mossa e Salvatore Sale e per il riti­ro dalla politica attiva – data l’età – del carissimo Gian Giorgio Casti. Nino combatteva in prima li­nea, sfidando i potenti del­la città, senza timori reve­renziali, pur in mancanza di adeguato retroterra cul­turale e sostegno economi­co. Tutto questo gli guada­gnò simpatia e solidarietà nell’opinione pubblica tan­to da ottenere l’elezione al consiglio comunale. Per premiare tanta dedizione, agli inizi degli anni Set­tanta, avendo assunto l’in­carico di assessore regio­nale agli Enti locali, d’ac­cordo con Cambule, lo no­minai mio segretario par­ticolare liberandolo però dai relativi adempimenti ed anzi incoraggiandolo ad intensificare la sua azione politica sassarese. Voglio anche precisare che nello stesso periodo condizionai la mia permanenza nella Giunta regionale all’in­gresso del partito nella maggioranza che ammini­strava il Comune di Sassa­ri. Fu proprio in seguito a quella congiuntura che Ni­no Piretta divenne asses­sore comunale mantenen­do tale carica, per quanto ricordo, sino alla conclu­sione della sua attività po­litica».
Quando sono sorti i pri­mi contrasti?
«Non posso che ripetere quanto scrissi nel luglio dell ’89 allo stesso Nino Piretta. Fu lui a raffreddare, diradare e, salvo che non dovessimo incontrarci in sedi istituzionali o di par­tito, ad interrompere i rap­porti con me; non ci fu mai scontro fra me e lui se non quando mi opposi a che il partito adottasse un prov­vedimento sanzionatorio sollecitato da Piretta nei confronti di Antonio Cambule, figura storica del sardismo sassarese. Inizial­mente pensavo che in qual­che modo lo avessi deluso nell’esercizio della mia re­sponsabilità di Presidente della Regione. Non vi fu mai però alcun chiarimen­to in proposito».
Ha mai pensato vera­mente che Nino Piretta fosse l’ispiratore dell’at­tentato contro la sua casa di San Teodoro?
«Ho fatto l’avvocato pe­nalista per quarant’anni e qualche ipotesi me la sono proposta. Le ipotesi, pro­cessualmente parlando, re­stano però ipotesi – cioè nulla -; la responsabilità del giudizio su prove e in­dizi spetta ai giudici che delle ipotesi non tengono giustamente alcun conto».
Ha dei risentimenti per l’attentato?
«L’episodio mi ha molto offeso. Ero solo con mia moglie in campagna ed un’esplosione che disinte­gra la porta di casa non è un fatto indifferente; non sapevo di dover temere qualcuno ed ero disarmato. Per qualche istante ho pensato che gli attentatori volessero fare irruzione dentro casa».
Quale sarebbe la sua reazione all’ipotesi di una responsabilità di Nino Piretta?
«Penserei ad un gesto suggerito più dalla disperazione che dall’odio. La mia esperienza professionale mi ha insegnato che all’origine di certi reati c’è più angoscia e sconfitta che volontà di fare del male».
Quando Nino Piretta è finito in carcere cosa ha pensato?
«Quello che a suo tempo ho dichiarato ai giornali. Un uomo in ceppi, distrut­to da vicende che lo hanno travolto, non so dire se an­che per sua responsabilità. Non ho dimenticato che è lo stesso uomo al quale so­no stato legato da vincolo di amicizia. Con lui e tanti altri cari amici abbiamo condotto battaglie talvolta vincenti, spesso perdenti, ma tutte esaltanti; forse la­sceranno poche tracce nel­la storia del partito ma so­no sempre vivamente pre­senti nel mio cuore. Oggi vedo l’uomo di allora in­vecchiato, malato e avver­to turbamento e pena per questa sua condizione. Torno col pensiero alla personalità che esprimeva intelligenza e sensibilità, capace di cogliere anche le vibrazioni della politica. Penso che si sia smarrito nei corridoi del Palazzo. Non ha saputo metabolizzare il potere che in rapida successione temporale si ( trovato a gestire in crescente solitudine. Non disponeva di sufficiente consapevolezza del ruolo, esperienza e cultura per resistere, come lui stesse ha ammesso, alle molteplici tentazioni che il potere può offrire».
Piretta ha detto di lei “Gli ho salvato la vita. Da lui mi aspettavo di più” ! Cosa poteva fare lei che invece non ha fatto?
«Non lo so proprio. Non so neppure quando e come mi avrebbe salvato la vita Se non è vincolato al segreto sarà bene che parli più chiaro. Ignoro di avere nemici; conosco molti avversari ai quali sono peraltro legato da reciproco rispetto e stima. Cosa mai avrei potuto fare? Non certo assumerne la difesa nei processi, come ho fatto altra volta; non esercito più da anni la professione. Non l’ho accusato neppure in termini di sospetto del reato che è stato consuma­to a mio danno. Allora che altro? Dimettermi da parlamentare europeo per ga­rantirgli l’immunità? Non era un’operazione politi­camente possibile. L’accu­sa di trasformare il voto di oltre centomila sardi in uno strumento di bassa manovra giudiziaria avrebbe squalificato il par­tito e io stesso sarei appar­so come figura obliqua, compromessa in qualcosa di poco chiaro. Ho sempre assunto le mie responsabi­lità. Questo impegno esi­steva fra il Partito sardo e gli alleati valdostani ed altoatesini. Patto alla luce del sole, limpido ed inequivoco. Reso purtroppo inat­tuabile proprio perché alle mie dimissioni seguiva di necessità l’elezione di Piretta che risultava il primo dei non eletti. Ma Nino, che è persona capace di ca­pire, non credo che sia fer­mo a questo tipo di risenti­mento».
In una lettera che Piretta ricordava benissi­mo, lei fa un riferimento a chi si arricchisce con la politica. Era un’accusa mirata?
«La frase faceva parte di un ragionamento più com­plesso ed organico e non si riferiva in modo diretto a Piretta. Denunziavo so­stanzialmente la confusio­ne dei ruoli fra il politico e l’uomo d’affari. Ciò che in sostanza è avvenuto molti anni dopo con la compar­sa di Berlusconi. L’uomo di governo, come chiun­que sia chiamato all’assol­vimento di compiti che in­teressano la collettività, non può contemporanea­mente interessarsi di affari che, per quanto leciti, possono influenzare e condizionare le decisioni».
Andrà a trovarlo quando tornerà in libertà?
«Non avrò difficoltà ad incontrarlo. Non ho però ragione di fare un viaggio specifico a meno che non voglia raccontarmi l’episodio dello scampato peri­colo di morte. Non vorrei dare a questa intervista un rilievo diverso da quello che in effetti ha. Una ri­flessione sulla vicenda umana di un uomo che for­se sta pagando i suoi errori in modo più pesante del giusto. Per il resto, e per quanto mi riguarda, spero vivamente che comunque si risolva il processo (o i processi?) in corso, possa beneficiare delle norme di­sposte dalla legge a favore delle persone che hanno, come lui, superato una cer­ta età, sono per giunta ma­late ed hanno soprattutto bisogno dell’affetto di fa­miliari ed amici che, sono certo, gli sono ancora vici­ni».