Un disegno di legge all’esame del Senato – La vecchia chimera della zona franca – La Nuova Sardegna – 12 ottobre 1978

Melis, 57 anni, sardo di Arbatax, sena­tore della repubblica e­letto nelle liste del PCI, ma come esponente del Partito Sardo d’Azione, è, in ordine cronologi­co, l’ultimo esponente del sardismo che ha ri­proposto con vigore al­l’opinione pubblica isolana e all’opinione politi­ca nazionale, il tema an­noso e, fino ad oggi scarsamente seguito, della zona franca: la tra­sformazione, cioè, del­la Sardegna in area commercialmente extra­territoriale rispetto alle dogane e ai dazi, che nel resto del territorio nazionale vengono applicati.
Egli ha presentato al Senato, una decina di giorni fa, un disegno di legge ricco di un arti­colato di 28 punti, intito­lato appunto: «Istituzione della zona franca nel territorio della Regione autonoma della Sarde­gna». In tale disegno di legge si prevede la collo­cazione della Sardegna al di fuori della cinta doga­nale nazionale, l’istituzio­ne di una commissione per la gestione della zona franca composta da rap­presentanti della Regio­ne, dello Stato, dei sin­dacati e degli imprendi­tori; la regolamentazio­ne delle merci ammesse e di quelle escluse dai benefici di franchigia; la delega di alcuni poteri in materia dogana­le da parte dello Stato italiano verso la Regione sarda.
Il fallimento delle numerose iniziative che negli anni passati hanno preceduto quelle del senatore Melis è in gran parte imputabile, secondo l’esponente sardista, ad uno scarso approfondimento dei modi in cui la nuova situazione avrebbe dovuto articolarsi. Ma andiamo con ordine.
– Senatore Melis, vuole spiegarci prima di tutto da cosa trae origine il suo progetto?
«È un progetto antico. Mezzo secolo fa, quando nacque, il Partito Sardo d’Azione già si poneva questo problema e, successivamente, in sede costituente della Regione autonoma, la proposta di collocare il territorio sardo fuori della cinta doganale dello stato italiano venne ribadita. Ma fin da allora, nonostante il giudizio favorevole autorevolmente espresso da Vanoni, la proposta non passò a causa dei timori e delle resistenze della maggioranza. Ma ancora prima di allora, al principio del secolo, proprio sul superamento delle barriere doganali si era costituito in Sardegna quel movimento liberista i cui animatori erano Deffenu, Bellieni, Luigi Oggiano.
In que­gli anni nasceva l’indu­stria italiana concentra­ta nel nord della peni­sola: e per crescere quell’industria aveva biso­gno di iniziative prote­zionistiche che però trasformavano tutto il re­sto del paese in un grande mercato di consumo. Vennero così stroncati tutti quei rapporti com­merciali che specialmente noi sardi eravamo riusciti ad intessere in tutta l’area del Mediterraneo».
– Che seguito aveva, a quel tempo, il movimento di cui parla?
«Scarsissimo. Era costituito essenzialmente da intellettuali…».
– Probabilmente anche di commercianti e possidenti che curavano i loro interessi…
«Non direi: Erano soprattutto intellettuali, studiosi di cose economiche, gente impegnata in politica. Ma il popolo non aderì mai; non esisteva, prima della grande guerra, una sensibilità dei sardi verso questi problemi. La coscienza sarda, si può dire, nacque con la guerra, quando i giovani isolani si trovarono tutti insieme catapultati nelle grandi città, a contatto con una realtà che loro nemmeno immaginavano. Fu allora che prese corpo la convinzione diffusa che l’emarginazione e il sottosviluppo della Sardegna trovavano la loro causa prima nel centralismo politico ed economico dello Stato italiano. Con la guerra nacque il Partito Sardo d’Azione che raccolse quell’eredità liberista e che rappresentò l’ultima roccaforte nazionale contro la barbarie del fascismo. Ma il problema dell’autonomia è rimasto ancora ed è attuale anche adesso».
– In che senso?
«Non si può avere un’autonomia politica disgiunta da un’autonomia economica: questo è lo scopo della zona fran­ca. Conquistare per la Sardegna un’autonomia economica che adesso non possiede. Oggi alme­no il 60% del risparmio dei Sardi, tramite le banche, è dirot­tato fuori della Sarde­gna. In queste condizioni il processo di accumulazione del capitale diventa impossibile!».
– Come sarebbe possibile, secondo lei, rompere questo meccanismo?
«Principalmente creando in Sardegna condizioni favorevoli per l’investimento dei capitali. L istituzione della zone franca ha appunto questo scopo. La Sardegna si trova al centro del Mediterraneo ed è stata considerata dalle commissioni di tutti i paesi del mondo come il luogo ideale per funzionare da centro di smistamento del traffico mercantile da e per l’area mediterranea. Lo stesso progetto del porto terminale di Cagliari risponde a questa concezione. D’altra parte un flusso agevolato di merci, quale sarebbe determinato dal regime di zona franca, faciliterebbe lo sviluppo in Sardegna di quelle iniziative di trasformazione industriale che fino ad ora gli interventi petrolchimici non hanno saputo creare».
– Si tratterebbe però di attribuire alla Sardegna un particolare privilegio.
«Neanche per sogno. Si tratterebbe di una compensazione dei vincoli cui la Sardegna è attualmente sottoposta. Soprattutto in materia di trasporti. Per raggiungere la Sardegna oggi le merci sono penalizzate da costi enormemente maggiori che altrove».
– Ma questo non è un problema solo sardo. In Europa sono moltissime le aree periferiche che soffrono per questo ge­nere di problemi.
«E infatti iniziative del genere di quella che noi proponiamo per la Sardegna hanno già dei corrispettivi europei. Basta citare Amburgo, e, più simile alla situazio­ne sarda, Shannon, in Irlanda. D’altra parte io stesso ho avuto con­tatti a livello europeo per vagliare le posizio­ni in sede CEE, e devo dire che ho trovato at­teggiamenti abbastanza favorevoli per quanto riguarda l’ipotesi di zona franca in Sardegna».
Tuttavia gli esempi che lei porta riguardano zone molto circoscritte. Non crede che la costi­tuzione in zona franca dell’intera regione sar­da, invece di perseguire, come lei ha detto, il su­peramento del distacco tra la Sardegna e il re­sto del paese e dell’Eu­ropa, finisca con aggravare facilitando il dif­fondersi di situazioni a­nomale che, dai piano commerciale ed econo­mico, finirebbero fatal­mente col trasferirsi an­che su quello politico e culturale?
«Non lo credo. Al contrario, quello della zona franca potrebbe rappre­sentare, secondo me, u­no strumento utilizzabi­le sia dallo Stato italia­no che dal resto dell’Eu­ropa. Si creerebbero in Sardegna condizioni fa­vorevoli ad uno svilup­po economico che risponderebbe all’interesse generale».
– Questo interesse generale da anni ormai viene perseguito su scala molto più vasta. Il processo di integrazione europea si propone infatti proprio l’abbattimento delle barriere doganali, non solo in determinate aree, ma in tutto il continente. Non crede che con una tale prospettiva, verso la quale già molti passi sono stati fatti, l’idea di abolire dazi e dogane nella regione sarda risulti superata nei fatti?
«È verissimo che l’Europa marcia in questa direzione. Ma è anche vero che molti protezionismi, più o meno mascherati, permangono in tutti i paesi europei. Basta pensare alla politica francese per il vino o a quella tedesca per la birra. No, io credo che il nostro progetto sia pienamente attuale. Ma sono anche convinto che per farlo passare sia necessario l’impegno di tutti i sardi. Se i sardi vorranno e sapranno mobilitarsi per il successo di questo progetto, allora potremo sperare di aver compiuto un importante passo avanti per il progresso economico e politico della Sardegna».