Una soluzione federalista buona per tutti – Il Solco -16 settembre 1984

“La Repubblica” ha pubblicato il 5 settembre una lunga intervista di Mario Melis col giornalista Gior­gio Bocca. Riteniamo interessante riproporne i brani salienti. La pri­ma domanda riguarda la dichia­razione di De Mita.
– Presidente perché il segretario del maggior partito di governo vi ha mosso un’accusa così grave?
«Lei conoscerà certamente il pretesto, quattro ragazzotti arre­stati per un preteso complotto in­dipendentista appoggiato da Gheddafi. Una cosa ridicola. No, il vero bersaglio di De Mita era il partito socialista e la cosa ci of­fende, ci umilia. Ancora una volta la Sardegna, e il governo dei sar­di, vengono piegati alle lotte di potere nazionali. Ha ragione il professor Passigli: sono le lotte del «palazzo» romano che si proietta­no sulle vicende regionali e le stravolgono».
– L’accusa di De Mita vi ha dan­neggiato?
«Dovremmo dirgli grazie. Se al­le elezioni europee abbiamo avuto centotrentaseimila voti oggi ne a­vremmo trecentomila. I sardi che stanno in tutti i partiti sono stati offesi da questa arrogante disinformazione».
– E qualcuno ha addirittura par­lato di intervento dei corpi sepa­rati dello Stato.
«Posso dire questo: tre mesi fa nel parlamento italiano dissi: que­sto movimento popolare sardista che cresce impetuoso fa paura co­me tutte le cose nuove. Cerche­ranno di fermarci anche con le manette. Mi attendevo che il sar­do Cossiga difendesse da queste accuse infamanti le istituzioni della sua regione. Sto ancora a­spettando».
– Mi spieghi una cosa presidente. Spesso qui mi sento dire: voi ita­liani. Perché voi cosa siete? E in ultima analisi chi sarebbero gli i­taliani?
«Noi siamo stati quattro secoli sotto gli spagnoli e siamo rimasti sardi. Ora siamo diventati italiani al seguito dei Savoia eppure siamo ancora sardi, abbiamo ancora la nostra identità, siamo ancora po­polo sardo. E vogliamo che lo Stato italiano, non gli italiani, ce lo riconosca».
– Senta presidente. Mi aiuti a ca­pire quanto c’è di sardo in questo vostro autonomismo e quanto c’è invece di mutamento o crepuscolo dell’Europa delle nazioni. In altre parole: voi avete tutti i vostri pro­blemi sardi di insularità, emargi­nazione, identità. Ma dovunque, anche a Milano o a Frosinone o a Pignasecca la gente sente che il vecchio Stato nazionale sta per­dendo se non la sua ragion d’esse­re alcune delle sue funzioni decisi­ve: la difesa nazionale ormai dele­gata alla potenza imperiale; la po­litica estera; la programmazione del governo dell’economia. Stati sempre più deboli, sempre meno autorevoli e sacrali. Donde la tendenza generale al localismo generico prima e poi all’autonomismo, diciamo la riscoperta delle piccole dimensioni afferabili, comprensi­bili.
«Ma certo, noi non ci poniamo come dei diversi insulari e isola­zionisti. Noi abbiamo gli stessi problemi dei catalani, dei fiam­minghi, dei valdostani, dei lorenesi, dei gallesi, di tutti i popoli eu­ropei che non ci stanno ad essere cancellati dalle forze congiunte del consumismo economico indiffe­renziato, del rullo compressore dei mass media e del conservatorismo degli stati nazionali. Non voglia­mo una soluzione soltanto nostra. Vogliamo una soluzione federalista buona per tutti».
– Il movimento sardista, quindici anni fa, sembrava fossilizzato, quasi il reperto di una storia pas­sata. Neppure un consigliere nella regione. Adesso ne avete dodici più la presidenza. C’è, mi dicono, una richiesta crescente di autono­mia, di bilinguismo. Come si spie­ga questo fenomeno sociale?
«Direi una nostra memoria storica. Qualcosa si è mosso dentro di noi quando ci siamo trovati alla soglia della cancellazione. Cinque­centomila sardi sono emigrati negli ultimi trent’anni, cinquecento­-mila su una popolazione di un milione e mezzo. Si rende conto della misura e della drammaticità di una simile lacerazione? Poi l’industrializzazione è fallita e mica con gli ammortizzatori delle pro­vince ricche. E la fuga dei capita­li. Su settemila miliardi di rispar­mio annuo sardo le banche ne trasferiscono almeno seimila in Italia».
– Un momento presidente, andia­moci piano con questi schemi marxisteggianti. Il denaro viene investito dove rende non dove per­de, sono i risparmiatori sardi e non le banche che investono il meglio possibile.
«Non è esattamente così, i red­diti del capitale restano altrove. Comunque, perché mai lo Stato deve vietare l’esportazione dei ca­pitali verso altre nazioni e non vieta quello dalle regioni povere a quelle ricche? Lei dice che investi­re in Sardegna non dà reddito, di­ce che siamo perdenti in partenza. Certo spedire merci per mare per i duecento chilometri che ci separa­no dall’Italia costa, diciamo un milione, mentre spedirli per stra­da costa duecentomila lire. Ma al­lora i casi sono due: o lo Stato colma la diseguaglianza o ci lascia liberi di provvedere ai casi nostri».
– Come, presidente?
«La zona franca. Fare della Sardegna il centro del Mediterra­neo».
– Presidente io conosco almeno cinque centri italiani del Mediterraneo. Il ministro Signorile dice che sta dalle parti di Catanzaro, i siciliani stanno discutendo se sta a Palermo o a Catania, per il senatore Formica probabilmente sta a Bari. Tutti sembrano tornati a u na visione tolemaica del mondo. Tutti stanno al centro del Mediterraneo anzi del pianeta e fuori da ogni imposizione fiscale.
«Non siamo noi a dire che la Sardegna è al centro dei traffici oceanici. Sono le camere di commercio americane e giapponesi. Qui, sostengono, dovrebbero scaricare e caricare le navi oceaniche da cinquantamila o centomila tonnellate. E qui dovrebbero fa capo le navi-postino.
– Non tocca al cronista metter in guardia contro le esemplificazioni dell’autonomismo. Ma forse dovreste riflettere su queste: molte delle difficoltà di vivere che voi attribuite allo Stato italiano, sono poi le difficoltà della transizione e le provano sulla loro pelle anche gli italiani, anche quelli di Milano Frosinone o Pignasecca.
«Si certo, ma vi sono luoghi, province, dove la transazione può portare a qualcosa di nuovo, mentre l’autonomia sarda così come è concepita e amministrata dallo Stato italiano non porta da nessuna parte. Le programmazioni o le ricerche di mercato fatte per nostro conto dall’Eni o dall’Iri portano alla chiusura di Ottana o allo smantellamento della chimica, portano alla logica del paghi il più debole. Noi vogliamo provocare a fare qualcosa di diverso, di meglio».
– Il senatore a vita Giuseppe Saragat ha preso posizione a favore di De Mita e contro i socialdemcratici sardi. Lei che ne pensa?
Il senatore Saragat è stato uno dei fondatori della Repubblica di cui è stato presidente. Sino a ieri ha sempre fatto dichiarazioni autono­miste e in particolare in favore dell’autonomismo sardo, improv­visamente ha cambiato parere. Gli è già accaduto mi pare altre volte quando arrivava l’ora decisiva di schierarsi con la Dc e con le sue scelte in politica estera».
– Ma quali interessi stranieri sa­rebbero preoccupati del Movimen­to sardista?
«Senta, io ho parlato con un uomo politico che i sardi hanno prestato all’Italia. Gli ho detto: tu ci conosci bene, tu sai che siamo da sempre dei democratici, l’anti­tesi dei fascisti, come diceva Dor­so. E allora spiegami: tu riesci a capire perché la nostra crescita preoccupa i partiti di governo e magari la potenza imperiale? Mi ha risposto: io so benissimo che voi siete dei democratici ma se mi metto nell’ottica del governo na­zionale e dell’alleanza la vostra crescita impetuosa mi sembra molto preoccupante. Potreste es­sere usati per destabilizzare l’Ita­lia per creare un nuovo focolaio d’inquietudine. Siete preoccupanti come tutte le novità non control­labili».
– E lei che cosa ha detto?
«Ho detto: se il presidente della Camera e quello del Senato e magari il presidente della Repub­blica non intervengono in nostra difesa vuol dire che questa è una democrazia sclerotica. Ma noi ci sentiamo ancora vivi, noi ci sen­tiamo padroni di questo movi­mento e pensiamo che questo mo­vimento possa giovare alla Demo­crazia italiana».