“La Repubblica” ha pubblicato il 5 settembre una lunga intervista di Mario Melis col giornalista Giorgio Bocca. Riteniamo interessante riproporne i brani salienti. La prima domanda riguarda la dichiarazione di De Mita.
– Presidente perché il segretario del maggior partito di governo vi ha mosso un’accusa così grave?
«Lei conoscerà certamente il pretesto, quattro ragazzotti arrestati per un preteso complotto indipendentista appoggiato da Gheddafi. Una cosa ridicola. No, il vero bersaglio di De Mita era il partito socialista e la cosa ci offende, ci umilia. Ancora una volta la Sardegna, e il governo dei sardi, vengono piegati alle lotte di potere nazionali. Ha ragione il professor Passigli: sono le lotte del «palazzo» romano che si proiettano sulle vicende regionali e le stravolgono».
– L’accusa di De Mita vi ha danneggiato?
«Dovremmo dirgli grazie. Se alle elezioni europee abbiamo avuto centotrentaseimila voti oggi ne avremmo trecentomila. I sardi che stanno in tutti i partiti sono stati offesi da questa arrogante disinformazione».
– E qualcuno ha addirittura parlato di intervento dei corpi separati dello Stato.
«Posso dire questo: tre mesi fa nel parlamento italiano dissi: questo movimento popolare sardista che cresce impetuoso fa paura come tutte le cose nuove. Cercheranno di fermarci anche con le manette. Mi attendevo che il sardo Cossiga difendesse da queste accuse infamanti le istituzioni della sua regione. Sto ancora aspettando».
– Mi spieghi una cosa presidente. Spesso qui mi sento dire: voi italiani. Perché voi cosa siete? E in ultima analisi chi sarebbero gli italiani?
«Noi siamo stati quattro secoli sotto gli spagnoli e siamo rimasti sardi. Ora siamo diventati italiani al seguito dei Savoia eppure siamo ancora sardi, abbiamo ancora la nostra identità, siamo ancora popolo sardo. E vogliamo che lo Stato italiano, non gli italiani, ce lo riconosca».
– Senta presidente. Mi aiuti a capire quanto c’è di sardo in questo vostro autonomismo e quanto c’è invece di mutamento o crepuscolo dell’Europa delle nazioni. In altre parole: voi avete tutti i vostri problemi sardi di insularità, emarginazione, identità. Ma dovunque, anche a Milano o a Frosinone o a Pignasecca la gente sente che il vecchio Stato nazionale sta perdendo se non la sua ragion d’essere alcune delle sue funzioni decisive: la difesa nazionale ormai delegata alla potenza imperiale; la politica estera; la programmazione del governo dell’economia. Stati sempre più deboli, sempre meno autorevoli e sacrali. Donde la tendenza generale al localismo generico prima e poi all’autonomismo, diciamo la riscoperta delle piccole dimensioni afferabili, comprensibili.
«Ma certo, noi non ci poniamo come dei diversi insulari e isolazionisti. Noi abbiamo gli stessi problemi dei catalani, dei fiamminghi, dei valdostani, dei lorenesi, dei gallesi, di tutti i popoli europei che non ci stanno ad essere cancellati dalle forze congiunte del consumismo economico indifferenziato, del rullo compressore dei mass media e del conservatorismo degli stati nazionali. Non vogliamo una soluzione soltanto nostra. Vogliamo una soluzione federalista buona per tutti».
– Il movimento sardista, quindici anni fa, sembrava fossilizzato, quasi il reperto di una storia passata. Neppure un consigliere nella regione. Adesso ne avete dodici più la presidenza. C’è, mi dicono, una richiesta crescente di autonomia, di bilinguismo. Come si spiega questo fenomeno sociale?
«Direi una nostra memoria storica. Qualcosa si è mosso dentro di noi quando ci siamo trovati alla soglia della cancellazione. Cinquecentomila sardi sono emigrati negli ultimi trent’anni, cinquecento-mila su una popolazione di un milione e mezzo. Si rende conto della misura e della drammaticità di una simile lacerazione? Poi l’industrializzazione è fallita e mica con gli ammortizzatori delle province ricche. E la fuga dei capitali. Su settemila miliardi di risparmio annuo sardo le banche ne trasferiscono almeno seimila in Italia».
– Un momento presidente, andiamoci piano con questi schemi marxisteggianti. Il denaro viene investito dove rende non dove perde, sono i risparmiatori sardi e non le banche che investono il meglio possibile.
«Non è esattamente così, i redditi del capitale restano altrove. Comunque, perché mai lo Stato deve vietare l’esportazione dei capitali verso altre nazioni e non vieta quello dalle regioni povere a quelle ricche? Lei dice che investire in Sardegna non dà reddito, dice che siamo perdenti in partenza. Certo spedire merci per mare per i duecento chilometri che ci separano dall’Italia costa, diciamo un milione, mentre spedirli per strada costa duecentomila lire. Ma allora i casi sono due: o lo Stato colma la diseguaglianza o ci lascia liberi di provvedere ai casi nostri».
– Come, presidente?
«La zona franca. Fare della Sardegna il centro del Mediterraneo».
– Presidente io conosco almeno cinque centri italiani del Mediterraneo. Il ministro Signorile dice che sta dalle parti di Catanzaro, i siciliani stanno discutendo se sta a Palermo o a Catania, per il senatore Formica probabilmente sta a Bari. Tutti sembrano tornati a u na visione tolemaica del mondo. Tutti stanno al centro del Mediterraneo anzi del pianeta e fuori da ogni imposizione fiscale.
«Non siamo noi a dire che la Sardegna è al centro dei traffici oceanici. Sono le camere di commercio americane e giapponesi. Qui, sostengono, dovrebbero scaricare e caricare le navi oceaniche da cinquantamila o centomila tonnellate. E qui dovrebbero fa capo le navi-postino.
– Non tocca al cronista metter in guardia contro le esemplificazioni dell’autonomismo. Ma forse dovreste riflettere su queste: molte delle difficoltà di vivere che voi attribuite allo Stato italiano, sono poi le difficoltà della transizione e le provano sulla loro pelle anche gli italiani, anche quelli di Milano Frosinone o Pignasecca.
«Si certo, ma vi sono luoghi, province, dove la transazione può portare a qualcosa di nuovo, mentre l’autonomia sarda così come è concepita e amministrata dallo Stato italiano non porta da nessuna parte. Le programmazioni o le ricerche di mercato fatte per nostro conto dall’Eni o dall’Iri portano alla chiusura di Ottana o allo smantellamento della chimica, portano alla logica del paghi il più debole. Noi vogliamo provocare a fare qualcosa di diverso, di meglio».
– Il senatore a vita Giuseppe Saragat ha preso posizione a favore di De Mita e contro i socialdemcratici sardi. Lei che ne pensa?
Il senatore Saragat è stato uno dei fondatori della Repubblica di cui è stato presidente. Sino a ieri ha sempre fatto dichiarazioni autonomiste e in particolare in favore dell’autonomismo sardo, improvvisamente ha cambiato parere. Gli è già accaduto mi pare altre volte quando arrivava l’ora decisiva di schierarsi con la Dc e con le sue scelte in politica estera».
– Ma quali interessi stranieri sarebbero preoccupati del Movimento sardista?
«Senta, io ho parlato con un uomo politico che i sardi hanno prestato all’Italia. Gli ho detto: tu ci conosci bene, tu sai che siamo da sempre dei democratici, l’antitesi dei fascisti, come diceva Dorso. E allora spiegami: tu riesci a capire perché la nostra crescita preoccupa i partiti di governo e magari la potenza imperiale? Mi ha risposto: io so benissimo che voi siete dei democratici ma se mi metto nell’ottica del governo nazionale e dell’alleanza la vostra crescita impetuosa mi sembra molto preoccupante. Potreste essere usati per destabilizzare l’Italia per creare un nuovo focolaio d’inquietudine. Siete preoccupanti come tutte le novità non controllabili».
– E lei che cosa ha detto?
«Ho detto: se il presidente della Camera e quello del Senato e magari il presidente della Repubblica non intervengono in nostra difesa vuol dire che questa è una democrazia sclerotica. Ma noi ci sentiamo ancora vivi, noi ci sentiamo padroni di questo movimento e pensiamo che questo movimento possa giovare alla Democrazia italiana».
Una soluzione federalista buona per tutti – Il Solco -16 settembre 1984
16 Ottobre 2024 by