Lettera a Nino Piretta – Cagliari – luglio 1989

Caro Nino,
in questi ultimi mesi (in effetti però sono anni), mi sono chiesto perché mai tu abbia buttato a mare la mia amicizia attivando tutte le possibili iniziative per suscitare intorno a me risentimenti, ripulse, ostilità.
A questo fine hai mobilitato tutta una serie di personaggi ai quali mi legavano i rapporti di collaborazione, con taluni di amicizia, con tutti di comune militanza.
Non sono certamente uno sprovveduto ma confesso che per lungo tempo non ho capito le ragioni di questo tuo operare e ho ripetutamente tentato di superare quello che mi sembrava uno sbarramento suscitato da incomprensione o da mio inconsapevole errore del quale, senza dirmelo, mi facevi carico.
Gli anni sono passati invano.
Mai uno spiraglio, un chiarimento che aprisse all’intelligenza né al sentimento.
Il mio tentativo di fare alta amministrazione con Assessori, Presidenti di Enti  o Consiglieri di questi scegliendoli nelle Università, nel mondo imprenditoriale o fra gli intellettuali è stato da te duramente contrastato, non in virtù di meriti o specifiche qualità dei prescelti ma, più semplicemente di tessera e personale amicizia.
Di alcune scelte sono orgoglioso, di altre non so quanto tu possa dire altrettanto.
La nostra era una famiglia nella quale ci si voleva bene e ci si aiutava reciprocamente. Ti ricordo – ma non escludo di essermi sbagliato anche allora – impegnato, disponibile e generoso, quando chiamarsi sardista significava dare solo se stessi senza alcuna speranza di reale gratificazione.
Abbiamo così testimoniato verità alle quali credevamo e crediamo, dedicando ad esse le nostre vite.
Ricordo quando nel ’73 venni a Sassari per proporti di assumere l’incarico di mio segretario particolare liberandoti però (attesa la natura politica dell’incarico) da qualsivoglia impegno di lavoro, di collaborazione, sì da poterti dedicare in Sassari allo sviluppo del Partito e al consolidamento di un tuo ruolo nella vita pubblica sarda.
Ricordo anche quando – sempre nel ’73 – condizionai la mia permanenza nella Giunta Regionale per ottenere il tuo ingresso in quella comunale di Sassari.
E ricordo quando ti battesti per la mia candidatura al Senato, come ricordo l’intensa e fervida attività politica vissuta insieme per il successo dei nostri ideali.
Nulla si cancella nel mio ricordo e nel mio mondo affettivo; sono sempre legato a quel personaggio e a quei giorni, ma confesso di averne perduto il rapporto da molto tempo e di averne perciò sofferto.
Lo squallore di meschine congiure intessute fra Cagliari, Sassari e Nuoro la guerra a questo ingombrante capolista che avreste voluto umiliare alle elezioni regionali come alle europee, è pesantemente fallita sia sul piano personale che politico, ma ha  certamente sortito l’effetto di evidenziare un Partito rissoso, illividito da astiosità e invidie che ne spengono lo slancio e inaridiscono le sorgenti ideali.
L’errore è quello di credere che il successo, quello vero, che dura nel tempo, derivi dal potere e non dall’immagine che si realizza nella fiducia, il rispetto e l’affetto dei cittadini.
La politica si realizza prima di tutto come fatto immateriale, restando noi del tutto estranei al suo tradursi in fatto operativo.
La gestione appartiene ad altri momenti della vita pubblica: ai tecnico-amministrativi, mai a quello politico, se non come fatto di obbiettivi, direttiva o coordinamento.
Un Partito come il nostro non può diventare espressione di interessi particolari di categoria, di fascia sociale e, men che mai di gruppi, ma forza vitale di popolo che nella sua unità realizza gli interessi generali della Sardegna.
C’è chi attraverso la politica è diventato ricco. Di quelli diffido.
Apprezzo gli operatori economici che facendo bene il loro mestiere sanno creare ricchezza, lavoro e progresso; apprezzo il politico che con azione illuminata e organica sa promuoverli creando condizioni oggettive atte a favorire lo sviluppo; non apprezzo la confusione di ruoli. Stimo soprattutto chi, in umiltà di spirito e orgogliosa dignità, realizza se stesso nel quotidiano lavoro: dal più modesto al più complesso e difficile.
Perché ti scrivo questa lettera? Forse perché non potendo parlare con te ho parlato a me stesso.
Per constatare, con molta tristezza, come tu abbia buttato a mare due amici che ti volevano bene: Antonino Cambule e me.
A ben pensarci la ragione me l’hai detta tu, illuminante e deludente: “Noi non possiamo stare contemporaneamente nella stessa Assemblea politica”. Evidentemente hai abbandonato l’idea che il Partito possa tornare all’opposizione e vedi già disponibili gli uffici di Presidente della Giunta e del Consiglio alla Regione. Ma ritieni che noi due siamo l’un l’altro alternativi.
Avverto sempre, nonostante la lunga esperienza maturata e il costante studio dei problemi che debbo affrontare, le mie vaste insufficienze e credo che vi siano tante persone in grado di assolvere meglio di me agli incarichi cui sono stato immeritatamente chiamato.
Debbo però confessare che, pur riconoscendoti molte e importanti capacità che a me mancano, non ho mai pensato che io e tu siamo l’un l’altro alternativi.
Nel concludere: l’augurio che faccio a te, a tua moglie e ai tuoi figli è che esca dalle accuse limpido e pulito come ti ho conosciuto negli anni ormai lontani della nostra amicizia; che sappia trovare nei rapporti umani più che convergenza di interessi, quel patrimonio di sentimenti che si realizza nelle certezze morali e in fervida solidarietà; quella che nel momento della lotta ti è sostanzialmente mancata dai personaggi di cui ti sei circondato. Ancora molti auguri.