Cinque anni dopo, Melis sulla bilancia – L’Unione Sarda – 2 aprile 1989

Il Consiglio regionale è ancora atteso da prove molto impegnati­ve: l’approvazione del bilancio, il varo della legge sui parchi, di quella sulle cave, dei progetti speciali per l’occupazione, per citare soltanto al­cuni esempi. In Sardegna grandi sono le attese per provvedimenti di così ampio respiro. Ma, contemporanea­mente, è già tempo di bilanci, perché fra quindici giorni il Consiglio si avvierà allo scioglimento, e la legisla­tura verrà archiviata per dar voce agli elettori sardi, che l’11giugno esprimeranno il loro giudizio, quello decisivo, su partiti, giunta, gruppi consiliari. L’Unione Sarda ha voluto offrire ai lettori la testimonianza di Mario Melis, il leader del Partito sardo d’azione che dal settembre del 1984 a oggi ha ininterrottamente pre­sieduto la Regione, pur passando attraverso due crisi politiche. La sua prima giunta comprendeva soltanto assessori comunisti e sardisti, e si reggeva con l’appoggio esterno del PSI e l’astensione di PRI e PSDI. Nel Melis-bis entrarono socialisti e socialdemo­cratici, mentre i repubblicani designa­rono un tecnico, l’ingegner Roberto Binaghi. Ora la Regione è retta da un pentapartito sardista, di sinistra e laico, il Melis-ter, nato nell’agosto del 1987. Cinque anni fa, di questi giorni, ‘ l’avvocato Melis era ancora deputato alla Camera, ma stava per dimettersi per candidarsi alla testa del suo partito, il Psd’Az, che avrebbe conse­guito il 26 giugno un clamoroso risul­tato elettorale, assumendo un ruolo centrale nelle vicende politiche isola­ne. La redazione dell’Unione lo ha intervistato ripercorrendo la strada fatta e sollecitando un bilancio critico dell’esperienza di governo.
Presidente, lei guida la Regione da più di quattro anni. Ma le giunte sono cambiate per ben tre volte. Sia sincero, quale le piaceva o le piace di più?
«Sarò sincero, anche perché non ho mai mentito nella mia attività».
Proprio mai, neppure in nome delle scelte politiche, della ragion di Sta­to o di partito?
«Se l’ho fatto è stato soltanto per comprensione umana, per evitare di essere eccessivamente duro con qualcuno, mai per convenienza».
Ma torniamo alle tre giunte, quale le piace di più?
«C’è stata una continuità di azione, non dico di risultati. Certo, ci sono stati assessori con i quali ho realizzato un rapporto particolarmente intenso e produttivo, come l’ingegner Binaghi. La sua alta professionalità è stata particolarmente utile. Ricordo anche professor Mastroapolo, assessore all Sanità. Ma se penso all’azione delle giunte, ho difficoltà a cogliere differen­ze nella loro operatività».
Lei, comunque, ha costantemente guidato gli esecutivi. Può dunque dirci se i risultati sono all’altezza della svolta politica che ha visto la Regione guidata per un’intera legi­slatura da una giunta nata all’inse­gna del cambiamento rispetto all’e­gemonia trentennale della Demo­crazia cristiana. È soddisfatto dei risultati concreti della svolta, o condivide le critiche di chi si aspet­tava di più?
«Non sono soddisfatto, non lo sono mai neppure al termine di ogni giornata di lavoro, ci mancherebbe lo fossi per un’esperienza politica così impegnati­va e delicata. Avrei voluto e voglio fare molto di più. Il vostro giornale ha costantemente invitato a non fare trionfalismo per gli importanti risulta­ti raggiunti, e dal vostro punto di vista ha forse fatto bene. Trovo però sbaglia­to sottovalutare i successi concreti ottenuti».
Quali sono i suoi fiori all’occhiello, i successi che ritiene più importanti?
«Sino a cinque anni fa la disoccupazio­ne cresceva di diecimila unità all’anno, abbiamo bloccato quel drammatico cammino, e siamo riusciti a invertire il senso di marcia: ora cresce l’occupazio­ne. Nell’ultimo anno, è cresciuta nel­l’industria, non soltanto nell’agricoltu­ra e nei servizi. E sapete perché? Perché abbiamo investito in fiducia, i sardi, gli imprenditori, hanno riscoper­to il loro ruolo di protagonisti. E au­mentata la produzione, e non soltanto per lo stimolo grande degli investimen­ti pubblici, ma perché gli imprenditori hanno rischiato i loro capitali. La Sardegna è seconda soltanto al Lazio in Italia nella nascita di nuove iniziative produttive. Per ogni industria o impre­sa che chiude ce ne sono sette che nascono. Questo è il risultato più cla­moroso, il vero fiore all’occhiello, più dei dati che pure ci parlano di aumenti del 30 per cento in un anno della produzione di prodotti agricoli, dell’esportazione di bottiglie di vino, di esportazione dei prodotti lattiero-ca­seari. Un balzo in avanti figlio anche di politiche di marketing e di promozione di immagine, dei servizi reali alle imprese che stiamo promuovendo, an­che con la nascita di un Consorzio di assistenza. E una svolta che parla più di tante parole di una Sardegna cam­biata in meglio, caso pressoché unico nel Mezzogiorno. Ecco, sono fiero di aver investito in fiducia, di aver contri­buito a battere in breccia la cultura della rassegnazione».
Non ci sono soltanto dati positivi. Nel 1984 il bilancio della Regione era di 3011 miliardi, i residui passi­vi erano di 1972 miliardi (pari al 65,5 per cento). Nel 1988 bilancio di 5343 miliardi, residui 3328, per un rapporto del 62,2 per cento. Che riforma c’è stata? La spesa è sempre lenta, lentissima, c’era ruggine pri­ma delle giunte Melis, c’è ruggine anche adesso.
«La Regione è nata vecchia di oltre cento anni, perché è stata creata a immagine e somiglianza dello Stato e dei suoi ministeri. È cresciuta peggio, perché, invece di ammodernarla, i suoi amministratori hanno complicato le procedure, le hanno appesantite, so­prattutto quando hanno deciso di allar­gare la partecipazione. Da quel momen­to, negli Anni Settanta, il potere esecu­tivo, la giunta, si è ritrovata a dover chiedere pareri ai vari Comprensori, Comunità montane, comitati, che spes­so neppure si pronunciano, facendo perdere settimane e mesi».
E la pratica del consociativismo, quella che ha confuso i ruoli di governo e opposizione, giunta e Consiglio. E vecchia di oltre dieci anni, perché questa maggioranza non l’ha modificata?
«Il nostro obiettivo è stato sin dall’ini­zio proprio quello di restituire a ogni istituzione il suo ruolo. In questi giorni il Formez ci consegnerà i risultati di uno studio sulla formazione degli atti amministrativi, ma da tempo abbiamo impostato un’azione di riforma che consenta di evitare commistioni e ruoli impropri. Chi governa deve decidere e attuare, la Regione deve diventare un ente di alta programmazione e alta amministrazione, che detta grandi li­nee politiche, e deve delegare ai Comu­ni e agli enti locali la gestione, l’attua­zione concreta, amministrativa, delle grandi scelte. Abbiamo bisogno di dina­mismo e di efficienza, di procedere in modo snello. Rientra in questo quadro anche la telematizzazione del sistema pubblico, che tenteremo di finanziare grazie alla legge sul Mezzogiorno, uno strumento indispensabile per coinvol­gere nell’informazione e nelle scelte Province, Comuni, comprensori in tempi reali e non biblici».
Anche i tempi della politica sono piuttosto lenti. È vero che la giunta ha presentato al Consiglio le leggi di riforma della Regione, così come decine di altri importanti provvedimenti: progetti speciali per l’occupazione, istituzione dei parchi, legge sulle cave, per non parlare di Piano acque e governo delle risorse idri­che, sui quali torneremo. Ma poi queste proposte si sono arenate. Evidentemente c’è qualcosa che non va nella maggioranza, sulla carta fortissima, con 51 degli 81 consiglieri regionali.
«Non sempre la maggioranza è stata unanime, ma nel complesso si è rivela­ta omogenea. I ritardi sono nati dall’o­struzionismo vero e proprio di un’oppo­sizione che ha ritardato in modo patolo­gico, nell’intera legislatura, tutti i bi­lanci, approvati a metà anno con modi­fiche marginali rispetto alle proposte della giunta: penso ai trenta miliardi per la scuola privata. Sono stati questi ritardi a mantenere enormi residui passivi, per tornare alla domanda pre­cedente. Nonostante gli ostacoli, co­munque, abbiamo proceduto a impor­tanti scelte: abbiamo trasferito ben mille miliardi del bilancio regionale, parlo di Lavori pubblici, ai Comuni. Anche se non sempre gli enti locali hanno avuto la possibilità e la capacità di spendere in fretta. Sì, la Regione è ancora una macchina vecchia. Ma è bene si sappia che, nonostante tutte le farraginosità, nel 1988 abbiamo speso il 46 per cento delle somme in bilancio contro un 31 per cento dello Stato».
È possibile che tutte le responsabili­tà dei ritardi siano dell’opposizio­ne? Una maggioranza così schiac­ciante avrebbe potuto, se più unita al suo interno, far passare le sue scelte di riforma della Regione.
«No, non c’è scollamento nella maggio­ranza e neppure scarso interesse per le riforme. In realtà, abbiamo dovuto ricorrere a una valutazione di opportu­nità, soprattutto in questa parte con­clusiva della legislatura. Per non bloc­care provvedimenti di grande rilievo, come la legge urbanistica o il Piano straordinario per il lavoro, abbiamo dovuto in qualche modo sacrificare le leggi che cambieranno volto alla Regio­ne, provvedimenti di respiro tanto ampio da bloccare per mesi il Consi­glio».
Questa risposta può avere un senso per leggi di grande riforma. Ma in questa nostra strana isola i ritardi si accumulano anche su questioni assai più semplici da risolvere. Prendiamo il caso della forestazio­ne. La Regione sarda finanzia da trent’anni la nascita di pinete e di boschi di eucaliptus, nonostante l’inutilità di queste specie arboree, incurante del fatto che la produzio­ne del sughero stia crollando perché stanno scomparendo le sugherete: dall’Ottanta a oggi siamo scesi da 180 mila a ottantamila quintali l’an­no. Non le pare contraddittorio e grave?
«Il fatto è che noi dobbiamo tener conto del parere dei tecnici quando ci dicono che i terreni percorsi dagli incendi sono degradati e bisogna dare spazio a piante pioniere come i pini. Diverso è il discorso degli eucaliptus, che sono piante esigentissime. Certo, i boschi di quercia da sughero si stanno riducendo e, da esportatori di questo prezioso prodotto, siamo diventati importatori. In ogni caso sono d’accordo che la politica di forestazione vada profonda­mente rivista».
Spesso le aspettative della so­cietà sarda sono state deluse dalle scelte dei dirigenti politi­ci. Dieci mesi fa il Consiglio regio­nale ha scritto una delle pagine più nere della sua storia, boccian­do a tradimento la legge che isti­tuiva la commissione per la parità tra uomini e donne. Come giudica la classe politica che ha espresso questo voto e quanta strada ritiene debbano percorrere le donne sarde per ottenere nei fatti la parità con gli uomini?
La bocciatura è stato un incidente, più che l’espressione di una cultura e di una scelta. In Sardegna le donne hanno sempre avuto un ruolo importante nella società pastorale: un ruolo che le mette in primo piano in un operare così determinante nella vita familiare che finisce col condizionare la cultura della società. Un ruolo esterno non lo aveva­no, certo. Ma l’uomo non governava neppure un centesimo, in casa. Erano le donne a concedere loro i pochi spiccioli per la festa. Nell’impatto col modificarsi della struttura sociale si sono inseriti modelli di società che sono entrati in rotta di collisione e abbiamo subito traumi incoerenti. Gli uomini si sono sentiti un po’ sulla difensiva. Oggi le donne sono dapper­tutto, in tutti i mestieri tradizionalmen­te maschili. In percentuale più bassa, e  certo, perché è un fatto recente l’insor­gere del pianeta femminile. Ci sono tempi tecnici di questo espandersi. Per  quanto riguarda le pari opportunità: la legge non l’ho né affossata né esaltata, non ho potuto votarla perché ero impegnato fuori dall’Isola, tuttavia l’avrei certamente fatto. Ma davvero le donne hanno bisogno di essere tutelate con una legge? Sono aperti tutti i concorsi, mi pare, è dentro di noi che dobbiamo modificare il rapporto predatore-pre­da. Secondo me questa legge non toglie e non aggiunge niente. La donna si sta conquistando spazi per le sue capacità. Per essersi saputa inserire senza farsi condizionare. Certo, le contadine non stanno bene, ma neppure i contadini. E comunque se il Consiglio lo vuole è sufficiente uno sforzo minimo per ap­provare la legge nei prossimi giorni.»
La bocciatura della legge sulla pari­tà non è stata il solo episodio che ha visto la maggioranza e l’opposizione compatte nell’affossare un provve­dimento così atteso. Anche un’altra legge proposta unitariamente da tutti i gruppi politici, quella che finanzia lo sport sardo, venne boc­ciata nel segreto dell’urna. E ancora non è stata varata, nonostante lo sport in Sardegna subisca gravi danni anche dagli alti costi dei trasporti, vero handicap per atleti e società. Non pensa sia il caso di impegnarsi più attivamente su que­sto fronte?
«Chiederò al ministro del Tesoro di farci partecipare alle entrate di Toto­calcio e Totip, almeno di quelle prove­nienti dalla Sardegna: è un nostro diritto. Quanto alla legge, forse è stata presentata troppo a ridosso delle elezio­ni, e qualcuno temeva di favorire ecces­sivamente l’assessore di turno. Certo, quel no del Consiglio è stato un grave errore, perché ha penalizzato tanti appassionati. Ma oramai i tempi sono maturi per l’approvazione, ovviamente se l’opposizione democristiana sarà disponibile a non frapporre ostacoli. La Regione non può non intervenire in un settore così importante per la nostra vita sociale, che vede decine di migliaia di giovani impegnati spesso anche ad alto livello».
Emerge una conflittualità per­manente in Sardegna fra mag­gioranza e opposizione. Spo­standoci sul versante nazionale, qual è la situazione nei rapporti fra Regione e organi centrali dello Sta­to? Scontri durissimi, come quello sui referendum nucleari negati, si sono alternati alla collaborazione.
«È un rapporto contraddittorio, fra periodi di grande produttività e fasi di incomunicabilità. Quando Giovanni Goria presiedeva il Consiglio dei mini­stri stavamo per approdare al confron­to fra Stato e Regione, c’era già un’a­genda dei lavori. Ma la crisi di quel governo ha bloccato tutto. La legge sul Mezzogiorno è andata avanti con alter­ne vicende: dopo un periodo di conflit­tualità, devo riconoscere che il mini­stro Gaspari ha impresso maggior dinamismo. Oggi sappiamo che la Sardegna potrà contare su 1.200 miliardi per il primo anno e mille per il secondo e il terzo. Anche con il ministro Giorgio Ruffolo, responsabile dell’ambiente, si è creato un buon rapporto dopo gli editti del suo predecessore, Pavan, persuaso che fossimo sudditi e non un organo dello Stato: ricordo il caso del golfo di Orosei. Con Ruffolo è in corso una discussione che consentirà alle imprese sarde di partecipare ai lavori, finanziati con 120 miliardi, per il risanamento dello stagno di Molentargius. anche il ministro dell’industria Adolfo Battaglia ha accolto nei giorni scorsi la nostra richiesta di inserire due tecnici di grande valore nel comitato incaricato di studiare l’utilizzazione del carbone Sulcis, che noi intendiamo gassificare, non desolforare come propone l’Enel, che costa di più e rende meno».
Sembra che tutto vada per il meglio, che il dialogo prevalga sulla polemi­ca. Qualche anno fa c’era una mag­giore tensione nei rapporti con lo Stato, soprattutto a proposito di servitù militari.
«Abbiamo dovuto addirittura ricorre­re in giudizio contro l’allora ministro della Difesa Giovanni Spadolini allor­ché un ammiraglio si comportò come una sorta di governatore militare del­l’Isola. Ma lo stesso attuale presidente del Senato riconobbe le nostre esigen­ze, insediando la commissione pariteti­ca sulle servitù militari incaricata di individuare la riduzione delle servitù e la restituzione alla Regione dei beni non indispensabili alla difesa dello Stato. Proprio ieri il ministro Zanone ci ha comunicato alcune importanti novi­tà in proposito. Intendiamoci, alcuni fatti positivi non devono celare grosse ingiustizie ai danni della Sardegna. Penso soprattutto alla siccità, per fronteggiare l’emergenza, la Regione ha stanziato 600 miliardi, lo Stato non ha ancora scucito una lira. E un fatto allucinante, a Roma ci hanno approva­to la legge, e poi ci hanno detto arran­giatevi. E così siamo costretti a spende­re la gran parte delle somme manovra­bili del bilancio (oltre milleduecento dei 5.300 miliardi servono alla sola Sanità) per fronteggiare una vera e propria calamità. E assurdo che mini­stri come Maccanico mi dicano che i satelliti fanno sperare in qualche piog­gia all’orizzonte».
È vero che c’è un dossier segreto con dati ancora più allarmanti sulla carenza d’acqua di quelli sin qui resi noti?
«Non ho visto nessun dossier segreto, né i miei collaboratori mi hanno infor­mato della sua esistenza. La situazione è comunque gravissima, la siccità è la peggiore degli ultimi 70 anni, anche sulla base dei dati ufficiali, perché gli invasi di cui disponiamo sono pieni soltanto al dieci per cento della disponi­bilità: appena 180 milioni di metri cubi su una potenzialità di 1.760milioni».
In questa Sardegna che rischia la desertificazione la Regione si sente esente da responsabilità? Perché non vengono varati il Piano delle acque e la legge che governa il settore riportando a un governo unitario la miriade di enti che si occupano della risorsa acqua?
«C’è anche un responsabilità del potere regionale e dei Consorzi di bonifica per lo stato disastroso in cui versa la rete di distribuzione, ridotta a un vero proprio colabrodo. Un colabrodo che ci ha fatto perdere 50 milioni di metri cubi. Ma non sono responsabilità di oggi o di ieri, e neppure degli ultimi sei mesi.»
Vuol dire che le sue giunte non hanno responsabilità?
«Voglio dire che una giunta Melis ha impostato e approvato un Piano delle acque. La discussione cominciò nel dicembre del 1987…»
Ma il Piano è arrivato in Consiglio, alla commissione Programmazione, soltanto nel marzo di quest’anno…
«È un esempio di quelle procedure  farraginose di cui parlavamo. Ben prima era però arrivata la legge predisposta due anni fa dall’assessore Binaghi sul governo unico del settore. Voglio però precisare che non stiamo a la guardare in attesa delle decisioni del Consiglio. Delle 37 nuove dighe previste dal Piano delle acque, 18 sono state 
inserite nella legge sul Mezzogiorno, e già è possibile la loro progettazione. Abbiamo anche inserito nel bilancio 130 miliardi destinati all’assessorato ai Lavori pubblici per affrontare l’emergenza. Proprio per questo è gravissima responsabilità di chi lascia la Regione a combattere questo dramma in solitudine. Siamo arrivati al punto che 
il ministro per la Protezione civile ha negato l’esistenza dell’emergenza davanti agli esterrefatti sindaci del Sulcis ai quali ha detto che non ci sono risorse per loro e per la Sardegna.»
Sulla siccità è scontro con il governo. Ma anche su altri fronti il dialogo sembra difficile. Che fine ha fatto la continuità territoriale? Lei ci crede ancora, o l’esperienza negativa giunta dalla vicina Corsica le ha fatto cambiare idea?
«La continuità territoriale non è un fatto di tariffe. È una grande sfida, che ci chiama a dimostrare se siamo capaci di governare un’economia marittima, di trasformare l’insularità nella grande occasione di assumere un ruolo centra­le nel Mediterraneo e nel traffico fra gli Oceani. La giunta ha autorizzato la Sfirs, la finanziaria della Regione, a partecipare con imprenditori privati alla nascita di una società di navigazio­ne con sede a Cagliari, che ospiterà anche un’officina di riparazione. L’o­biettivo è quello di rompere il monopo­lio della Tirrenia. Non è più accettabile il disprezzo assoluto della Tirrenia verso i sardi, l’impossibilità di prenota­re i posti sulle navi come si fa sugli aerei. Ho protestato anche con il mini­stro della Marina mercantile, protestai con Goria quand’era presidente del Consiglio, ma il Consiglio di amministrazione è incurante del potere politi co. Fa il bello e il cattivo tempo, con una gestione non chiara né trasparente, incurante del controllo politico. Ancora mi devono spiegare perché le navi circolano per mare con 120 uomini di del equipaggio contro i 45 dei traghetti svedesi, assai superiori di stazza, e perché mai su tremila dipendenti meno di trecento siano sardi».
Che fa presidente, chiede posti riservati ai sardi?
«Non sono razzista, ma mi sembra giusto assumere lavoratori iscritti negli elenchi della Sardegna. Soprattutto, la Regione ha il dovere e la volontà di contribuire a costruire un’economia marittima: o diventiamo protagonisti sul mare, o abbiamo perso non una
battaglia, ma la guerra».
Se ci spostiamo dal mare verso il Nuorese, i problemi non sono minori. Un anno fa il ministro delle Partecipazioni stata­li Carlo Fracanzani si impegnò a nome del governo per lo stanzia­mento di mille miliardi a favore delle zone interne con lo strumen­to dell’accordo di programma. Poi, tutto si è fermato, così come si è fermata la Conferenza delle Parte­cipazioni statali. Perché?
«Non smentisco certo chi sostiene che la responsabilità sia dell’opposizione democristiana, che a Roma, dove go­verna il Paese, si lascia tentare dalla voglia di bloccare o ritardare l’attuazio­ne dei provvedimenti. In questo caso, ne fa le spese l’accordo di programma per la Sardegna centrale. Quasi che il governo, svolgendo i suoi compiti, fa­cesse un regalo alla giunta e non un dovere verso i sardi.
È sconvolgente che per una motivazione analoga sia saltata anche la Conferenza Stato-Re­gione sulle partecipazioni statali. La Conferenza si doveva tenere lo scorso anno, è stata rinviata, e ora è pratica­mente saltata al prossimo autunno. Per giustificarsi, il ministro Fracanzani mi ha detto che a chiedere il rinvio sareb­bero stati i sindacati, ma i dirigenti regionali di Cgil, Cisl e Uil hanno smentito categoricamente, anche a no­me delle segreterie nazionali».
Nuoro rappresenta un’area di gran­de sofferenza, pur manifestando molti positivi elementi di modernità e apertura. Da tempo la città e i suoi rappresentanti rivendicano la pre­senza dell’Università. Come valuta questa richiesta, e che cosa pensa dell’insegnamento a distanza?
«La cultura è fondamentale per lo sviluppo del Nuorese, e così l’estensio­ne della presenza dell’Università istitu­zionale nel territorio con tutti i mezzi e sistemi di diffusione della didattica, che possono anche essere quelli dell’in­segnamento a distanza. Il nodo è però la valorizzazione delle risorse intellettua­li con l’Università che non resta chiusa nel Palazzo ma diffusa nel territorio. Per questo la giunta ha deciso di creare una Scuola superiore per la pubblica amministrazione, e sta pensando a un Centro di ricerca informatica che met­ta disposizione di tutti i ricercatori sardi dati e conoscenze: non sono ne­cessari costi altissimi, ma cervelli, abbiamo già investito cinquecento mi­lioni in un progetto di fattibilità. E abbiamo deciso di collocarlo a Nuoro perché si possa eventualmente operare anche con l’insegnamento a distanza, tenendo fermo il fatto che non si può essere terminali dell’azione didattica, ma è necessario uno scambio».
Lei sposta il discorso sul ruolo degli intellettuali. Quali sono, se ci sono, gli intellettuali sardi capaci di inda­gare nella situazione dell’Isola sug­gerendo nuovi stimoli, vie moderne, di crescita e sviluppo senza attardarsi su modelli superati, di chiusura nostalgica nel passato?
«Non faccio nomi, non ne ho titolo e penso sarebbe ingeneroso stilare classifiche. Però bisogna dire che stanno emergendo figure nuove di studiosi, anche al di fuori del recinto della cultura umanistica. Sono convinto che da questi settori aperti alle scoperte della tecnologia possa venire un contri­buto concreto alla crescita della Sarde­gna. È una presenza di rilievo, ancor più importante perché oggi la cultura sta cambiando, attraversa con tutti noi una fase di trasformazione. La Sarde­gna è cambiata radicalmente, io ero un pastore-avvocato, altri erano pastori-medici, tutti eravamo chiusi in una società rivolta al suo interno. Ora emergono grandi potenzialità rivolte verso l’esterno anche grazie alla rivolu­zione informatica».
Lei crede che i premi letterari abbia­no un ruolo positivo nella valorizza­zione della cultura sarda?
«Non ne sono per niente convinto, li vedo più come uno strumento di richiamo turistico che come un elemento di stimolo alla valorizzazione del nostro patrimo­nio culturale. C’è il rischio di farsi coinvolgere nel giro dei premi e delle giurie, che alla fine è un circuito chiuso. Noi abbiamo altre esigenze, il bisogno di far crescere i nostri intellet­tuali partendo dalle radici, dalla nostra memoria storica».
Eppure si ha l’impressione che la Regione guardi spesso con un vecchio spirito fra il no­stalgico e il paternalistico al mon­do dell’emigrazione. Non basta of­frire a chi ha lasciato la Sardegna inserendosi in nuove realtà, spesso avanzatissime, una politica assistenziale.         .
«Escludo che la Regione si muova in questo modo, anche perché i più critici verso un’impostazione arretrata sono proprio gli emigrati. Rispetto ai decen­ni passati, gli emigrati sono radical­mente cambiati. È finita l’era della nostalgia, oggi gli emigrati sono comu­nità ricche di professionalità che si inseriscono con grande personalità nelle comunità dell’Italia del Nord e dell’Europa. Esportano il meglio della cultura e dell’arte sarda, sono rispetta­ti dalle autorità dei Paesi che li ospita­no.
Andate ad Harlem, in Olanda, andate a Stoccarda, troverete opere di artisti sardi nei grandi parchi pubblici. E troverete circoli dei nostri emigrati che danno lezione di modernità, di capacità professionale. I sardi all’este­ro sono un esempio magistrale di una visione della Sardegna capace di non disperdere la propria identità pur dia­logando con settori avanzatissimi della società europea.
Nego che la Regione incrementi posizioni di retroguardia, anche perché verrebbero contestate proprio dagli emigrati. Gente che non gira con le valigie di cartone, ma ha acquisito una forte professionalità, si è inserita da protagonista in quei Paesi nei quali molti sono giunti venti, tren­t’anni fa, spesso con dolore e in mezzo a drammi inenarrabili. Ma oggi si sono inseriti da protagonisti. No, non si può pensare ad attività di puro assistenzialismo verso cittadini di un’Europa che guarda al 1992 come a una tappa decisi­va per tutti.»
Ma la Regione sta lavorando seria­mente in vista della scadenza del mercato unico europeo? Nel recente passato i deputati al Parlamento europeo hanno spesso lamentato uno scarso impegno.
«Abbiamo ottenuto un finanziamento di seicento miliardi con il nostro Piano integrato mediterraneo, ritenuto uno dei migliori presentato in tutto il Continente. E la Sardegna è stata la prima, insieme con l’Abruzzo, a presentare un PNIC, piano nazionale di interesse co­munitario. A Bruxelles siamo presenti, nessuno può accusarci di aver sottova­lutato il ruolo della Comunità economi­ca europea. Tutta la nostra impostazio­ne programmatica e politica è volta a proiettare la nostra economia, a partire da quella marittima, all’incrocio fra Mediterraneo e Vecchio Continente».
A proposito di emigrazione, il Pre­mio Solinas, nato alla Maddalena, è volato a Roma, con la Regione che ha assistito passivamente a questa grave perdita culturale per l’Isola. Non le sembra un grave errore?
«La responsabilità di quel trasferimen­to non nasce nella Regione, ma è in gran parte dovuta agli organizzatori. Ho avuto l’impressione che non voglia­no più tenerlo alla Maddalena, ma trasferirlo a Cagliari. Comunque, rico­nosco l’esigenza di riportare il premio alla Maddalena, anche perché lì ha una sua motivazione profonda».
C’è un dibattito in corso all’interno della categoria dei giornalisti sui problemi dell’informazione, e in particolare sul rapporto con la pubblicità. All’interno del problema generale, c’è quello della pubblicità istituzionale. Qual è il suo pensiero su questo tema in particolare, e in generale sulla situazione dell’infor­mazione in Sardegna?
«Sul piano generale, sono preoccupato perché la situazione dell’informazione può essere influenzata da uno stato di precarietà delle proprietà dei giornali. Ho interpellato gli editori, che hanno escluso cambiamenti degli assetti pro­prietari, assicurandomi che c’è una continuità. Quanto alla pubblicità, c’è un’interferenza pesante, in qualche modo sproporzionata nel rapporto con l’informazione. Non sempre è chiara la distinzione fra pubblicità e informazione. Siamo alla fine della legislatura e la precarietà del mio ruolo mi impedisce di porre il problema, che indubbiamente esiste, non foss’altro che per le inquietudini del mondo giornalistico e andrà affrontato da chi verrà dopo di noi.»
In questa legislatura il Consiglio ha finalmente approvato la proposta di legge per l’istituzione di una zona franca in Sardegna. Crede che il Parlamento discuta e accolga positivamente quel provvedimento, oppure teme che resterà chiuso in un cassetto senza produrre risultati concreti?
«Sono convinto che, se in Sardegna saremo uniti, la legge passerà. In fondo, per quarant’anni è stata soltanto una parola d’ordine sardista, e ora le cose sono cambiate. La zona franca è diventata un patrimonio di tutti i partiti in Sardegna. Non solo: intere regioni del Mezzogiorno, i sindacati hanno scoperto l’utilità di questo strumento. Certo non ci si limita più a richiedere la vecchia zona franca doganale, obiettivo parzialmente superato dall’esistenza della Comunità e del mercato unico europeo. Oggi noi rivendichiamo un insieme di incentivazioni di carattere non soltanto doganale ma anche fiscale e di assistenza alle imprese che consenta alla Sardegna di attirare investimenti. Un obiettivo decisivo, nel quale potrebbe giocare un ruolo di primo piano il porto canale di Cagliari».
Si ha l’impressione che i problemi della città capoluogo dell’Isola ven­gano spesso sottovalutati, se non dimenticati. Che fine ha fatto il Centro agro-alimentare, e lo stesso impegno sui trasporti pubblici? Quanto al porto industriale, la Re­gione ha fatto tutto il suo dovere?
«Se oggi sono in corso i lavori per l’ultimo lotto è perché questa giunta ha strappato 220 miliardi al ministro del Mezzogiorno, che non intendeva finanziarli come completamento delle opere avviate dalla vecchia Cassa.
I dirigenti del Consorzio industriale ebbero notizia del finanziamento dall’assessore ai Lavori pubblici del tempo, Roberto Binaghi».
Ancora oggi, però, non si capisce chi gestirà il porto.
«Il mio obiettivo è creare una società per azioni che governi con criteri manageriali l’azienda-porto. Ho già messo insieme per ben tre volte Comune, Provincia, Consorzio industriale, associazioni degli imprenditori per trovare un accordo. Sono convinto che vada fatta una scelta di efficienza, senza attardarsi su falsi obiettivi. Per essere chiari, penso che la società dovrà poi affidare la conduzione dell’azienda a un direttore di grande esperienza, che magari venga da Rot­terdam o da un altro dei grandi porti europei. Il suo stipendio sarà altissi­mo, ma l’importante è che la produtti­vità sia ancora più elevata».
Se Cagliari rivendica maggiore in attenzione dalla Regione, anche da Oristano giungono richieste per una soluzione urgente dei casi ancora aperti, come quello della Sbs.
«L’Ente regionale Ersat sta studiando un piano di rilancio della Società di bonifiche sarde che deve passare da una fase puramente assistenziale a una forte produttività.»
Non c’è solo la Sbs. Un anno fa lo sciopero provinciale lanciò la vertenza Oristano che ha portato alla firma di un protocollo d’intesa fra Regione e sindacati. I sindacati lamentano la lentezza della giunta nell’attuazione di quegli accordi. Che cosa ha fatto l’esecutivo regionale per la provincia più debole dell’Isola?
«Non è vero che quella di Oristano sia la provincia più debole e non è vero che in ci sia impegno per valorizzarla. Decisivo è il ruolo della diga su Tirso, che consentirà un ulteriore balzo in avanti a un’agricoltura in grado di dare risultati importanti e di rilievo».
Ha premesso di essere sempre sincero. Ci dica la verità: che cosa apprezza di più negli alleati di governo, e che cosa invidia all’opposizione?
«Sincerità per sincerità, mi viene più facile dire cosa mi dà fastidio. Negli alleati non apprezzo la chiusura all’in­terno degli interessi del proprio parti­to, che talvolta ci ha impedito e ci impedisce di raggiungere risultati mag­giori. C’è un’insufficiente sinergia, manca cioè uno sforzo comune non rallentato dagli interessi di partito. Quanto all’opposizione, mi dispiace che non abbia svolto il suo ruolo. La Dc non ha esercitato una funzione critica, di proposte alternative. In cinque anni non è venuta fuori un’idea che si contrapponesse alle nostre scelte, ma soltanto la volontà di ritardare, spesso al limite dell’ostruzionismo, l’azione del governo. Anche per questo, tornando al discorso iniziale dei residui passivi, i bilanci sono stati approvati con molti mesi di ritardo, col il risultato che la spesa si è concentrata in quattro, cinque mesi, quelli conclusivi di ogni anno. E con disagi pagati dalla comunità.»
Lei polemizza, ma le abbiamo chiesto anche che cosa invidia?
«Io che milito in un partito cresciuto tumultuosamente, privo di strutture, invidio l’organizzazione di quei partiti che riescono a tradurre l’azione di governo in un vasto consenso di massa, attraverso sezioni e federazioni che collegano alla base l’opera dei dirigen­ti. Il Partito Sardo d’Azione conta su alcune personalità e molti aderenti, soprattutto giovani, ma non ha ancora la forza di collegarsi alla sua base per vie interne. Abbiamo un rapporto di­retto con l’opinione pubblica, senza intermediazione partitica. Alla Demo­crazia cristiana, al Partito socialista, al Partito socialdemocratico e al Partito repubblicano invidio una maggior esperienza di governo, visto che hanno costantemente fatto parte delle giunte regionali. Ma anche il Partito comuni­sta, pur essendo all’opposizione, ha sviluppato una capacità di affrontare le questioni centrali della politica e dell’e­conomia servendosi di uffici studi, disponendo di elemento conoscitivi, raramente improvvisando.»
A conclusione di questa intervista, una domanda è d’obbligo. Fra due mesi si vota. Non è soltanto il tempo di bilanci ma anche di proposte agli elettori. È il momento per tutti di giocare a carte scoperte anche sulle alleanze. Quale maggioranza auspica Mario Melis per la prossima legislatura?
«Dovreste chiederlo non a me ma al segretario del mio partito, Carlo Sanna. Non sono in grado di esprimere pareri che impegnino altri».
Non le stiamo chiedendo l’impegno del Partito Sardo d’Azione, ma il suo parere.
«La mia opinione è che senza un cambiamento profondo degli equilibri politici non sarà opportuno cambiare maggioranza. Solo un ribaltamento elettorale potrebbe indurmi a modifica­re orientamento. Non penso che modifi­cazioni modeste degli equilibri politici possano far nascere diverse formule di governo. Oggi non vedo perché dovrei modificare il mio atteggiamento, anche perché dalla Dc non è venuta un’oppo­sizione capace di affascinarmi e di convincermi a cambiar linea con pro­poste politiche alternative. Già, non ho visto proposte e suggerimenti di scelte in grado di affrontare più efficacemen­te i problemi che ci stanno davanti».
C’è chi suggerisce una giunta omo­genea a quella nazionale perché questa sarebbe la strada per ottene­re di più da Roma.
«È una tesi che mi offende. Capisco che si potrebbe contare un maggior nume­ro di amici, ma con gli amici non si promuove lo sviluppo dell’Isola, quello lo promuoviamo noi con le nostre idee, la nostra capacità, la forza delle argo­mentazioni. L’autonomia è anche ri­vendicare il proprio diritto a darsi formule di governo coerenti con le indicazioni degli elettori».
Ma lei, Mario Melis, si promuove come presidente della Regione?
«Ho già detto che non sono mai soddi­sfatto dei risultati raggiunti, neppure la notte quando vado a riposare. Ho però la coscienza a posto perché ho assolto al mio compito con tutto l’impe­gno di cui ero capace, senza risparmia­re energie. Mi auguro di aver ottenuto qualche risultato, di aver contribuito a far crescere il ruolo della Sardegna. Voi sapete che a Bruxelles c’è una comitato incaricato di fornire pareri alla commissione esecutiva della Co­munità europea, il governo, diciamo così, dell’Europa. Ne fanno parte due soli presidenti di Regione, il veneto Bernini e il sardo Melis. È un riconosci­mento importante, che non nasce dalla presenza di amici, ma dal ruolo che la nostra Regione si è conquistata con il suo lavoro».
L’incontro della redazione dell’Unione Sarda con il presidente della Regione si conclude così, dopo un lungo faccia a faccia. Abbiamo tentato di fare un bilancio di cinque anni importanti per la Sardegna, che ha visto al governo partiti tradizionalmente considerati di opposizione.
È stata una legislatura importante, il sistema si è definitivamente sbloccato, nella nostra Regione è finita l’epoca della democrazia bloccata e delle varie conventio ad excludendum. I sardi han­no potuto vedere in azione, al governo, anche forze storicamente escluse dalla «stanza dei bottoni». Il giudizio su questa e sulle precedenti esperienze è ora nelle loro mani.
Fra due mesi esatti, nella seconda domenica di giugno, gli elettori diranno la loro. Il nostro giornale intende con­tribuire a uno svolgimento della cam­pagna elettorale che garantisca il mas­simo pluralismo, e che consenta di orientarsi fra le forze in campo esami­nando i problemi sul tappeto. Il tentati­vo sarà quello di stimolare i partiti a confrontarsi sui programmi, a dare risposte ai problemi concreti dell’Isola: il lavoro, lo sviluppo e la modernizza­zione dell’apparato produttivo, ma an­che la valorizzazione degli intellettuali e della cultura, e, contemporaneamen­te, l’assistenza alla parte più debole e bisognosa della popolazione. Tutto ciò senza trascurare l’esigenza decisiva di una riforma della pubblica ammini­strazione e di una valorizzazione piena dell’ambiente naturale ma anche del­l’immenso patrimonio storico e archeo­logico dell’Isola.
Non sarà una campagna elettorale di ordinaria amministrazione proprio perché il voto sarà decisivo per stabili­re chi governerà e chi starà all’opposi­zione. Sarà un periodo di grande parte­cipazione, anche emotiva, come è giu­sto in campagna elettorale. Noi ci auguriamo che il confronto verta so­prattutto sulle soluzioni da dare alle grandi questioni ancora irrisolte. E che grande spazio abbia il ruolo dell’Euro­pa, non soltanto perché il 18 giugno anche i sardi, come tutti i cittadini europei, sceglieranno i loro rappresen­tanti nel Parlamento di Strasburgo.
La scadenza del mercato unico, l’apertura dei mercati, la libera circola­zione dei capitali, dei lavoratori, la fine delle barriere fra gli Stati, comporte­ranno una grande svolta per tutti. Anche per questo la Sardegna dev’esse­re in grado di attrezzarsi al meglio, per cogliere le opportunità positive evitan­do il rischio di essere emarginata dalla nuova Europa.
All’appuntamento mancano poco più di tre anni. Siamo convinti che tutti i partiti siano coscienti del rilievo storico della data del 31 dicembre del 1992. Occorrerà arrivare a quell’impor­tante scadenza preparati e coscienti: a nessuno sarà concesso di appellarsi al destino cinico e baro per giustificare ritardi o omissioni. Tutti hanno il dovere di lavorare perché la Sardegna possa in questi tre anni compiere il balzo in avanti indispensabile per agganciare il treno dello sviluppo. Non è un’impresa semplice, ma non è nep­pure impossibile arrivare al traguardo in condizione di parità con le aree più progredite del Continente se chi ammi­nistra la cosa pubblica saprà guardare all’obiettivo del mercato unico privile­giando l’interesse generale rispetto a quello di parte.