«A su connottu, a su connottu. La Sardegna deve riprendere la lotta per l’indipendenza, come ai vecchi tempi, quando si sognava di fare una nazione ricca e felice che non avesse bisogno di protettori o di padrini aldilà del mare». Scavalcati a destra sul fronte del federalismo, i sardisti tornano alle origini. E a guidare il cavallo bizzarro verso la meta sarà il patriarca di sempre, Mario Melis. Che gli anziani di Nuoro ricordano in toga come paladino di pastori e contadini e poi amico degli uomini in gambali per le lunghe passeggiate a discutere di indipendenza e libertà. Ed è il Melis di sempre, il battagliero presidente della Regione, l’ex sindaco di Oliena, l’avvocato allievo del saggio Luigi Oggiano. Il leader sardista spazia a 360 gradi. Sentiamolo.
Presidente, che succede? Per anni avete fatto da soli la battaglia per il federalismo e ora che ve lo vogliono imporre quasi quasi avete dei dubbi.
«Può sembrare paradossale, ma è praticamente così. Noi vogliamo il federalismo, non c’è alcun dubbio. Ci siamo battuti per settant’anni per questo. Ma io hop la sensazione nettissima che quello di cui stanno discutendo oggi le delegazioni di Lega e MSI nella commissione Affari costituzionali del Senato non è un progetto federalista. Al massimo si prefigura una confederazione, un’intesa, un accordo tra Regioni che si mettono insieme per pagare alcune spese generali che paiono utili ai contraenti. Ma da questo rapporto esula il senso del federalismo: la solidarietà. E quindi lo Stato confederale continua a gestire la moneta, l’esercito, la giustizia, la politica estera. Insomma, continua a gestire le cose più importanti dell’Italia».
Ha paura che la Sardegna possa avere problemi di sopravvivenza? Crede che non ce la faremo ad andare avanti con le nostre forze, senza i trasferimenti che vengono dalle regioni più ricche?
«No, il problema è un altro. Non temo tanto per l’economia della nostra Isola. Sono invece spaventato dal progetto che prevede i ricchi con i ricchi e i poveri con i poveri. Ma non più sull’accordo tra classi sociali, ma con macroregioni. Il Nord vuole restare chiuso nella solitudine del suo benessere. Il centro cerca di sopravvivere grazie al fatto d’essere una sorta di anello di congiunzione e il Sud è abbandonato a se stesso, senza alcuna via d’uscita, senza speranza. Insomma, siamo ben lontani dal concetto federalista che era all’origine del Partito sardo d’azione e siamo ancor più lontani dal concetto di europeismo che i sardisti portarono avanti già con Emilio Lussu e Camillo Bellieni. Erano altri anni, altri problemi, un’altra storia.
Ma sin da allora i sardisti pensavano all’Europa, il loro orizzonte era ben più vasto della Lombardia e del Trentino».
Cosa volevano allora gli ideologi del sardismo? Qual era il sogno di Lussu e Belleni? E, soprattutto, perché ci siamo fermati, cosa non ha funzionato?
«Il Psd’Az diede indicazioni regionalistiche, ma si prefigurava l’europeismo di oggi. I sardi volevano una soggettività forte ma non per chiudersi, bensì per rompere l’isolamento. Per potersi confrontare. È stata questa l’ideologia vincente dei padri del sardismo. In questo senso si voleva dare un contributo specifico corredato alla peculiarità dei problemi
dell’Isola. Volevamo uscire per ricevere da tutti gli altri quegli apporti culturali necessari alla nostra crescita sociale ed economica. Volevamo andare in Europa per poter costruirE una Sardegna più forte Poi i fatti ci hanno travolto: dopo il fascismo E la guerra ci fu il sogno italiano e tutte quelle cose che ci hanno bloccato lo sviluppo. I progetti sono rimasti nel cassetto».
E oggi, invece, cosa propongono i leghisti? Qual è il loro modello operativo per trasformare l’Italia in una federazione di Stati?
«Miglio non vuole un patto federale, bensì un contratto federale. Vuole sottoscrivere una sorta di negoziazione commerciale, con chi ti vuole e sinché ti vuole. L’ideologo della Lega lombarda una volta fece una sorta di proclama che suonava così: con chi vogliamo ma anche con chi ci vuole. Volevano unire la Lombardia al Ticino ma gli svizzeri non li vollero e per questo motivo i lumbard furono costretti a stare col Piemonte. Comprensibile la Lombardia ha nove milioni di abitanti e i ticinesi erano appena sei milioni. La Svizzera rischiava di perdere la sua indipendenza».
La scelta del Piemonte fu quindi obbligata, perché altrimenti avrebbero preferito stare con una nazione ricca
«Certo. Si pensi un po’ il sogno delle Lega lombarda non era quello di contribuire a far crescere l’Italia, loro non hanno alcun interesse a rafforzare l’ideale di questo grande Paese che tanto ha dato al mondo. Vogliono solo comprarsi il fuoristrada e regalare la pelliccia alla moglie. Insomma, pensano al portafoglio e non al cuore,
alla salute del conto in banca e non a quella dell’anima».
Insomma, per i leghisti del ricchissimo, nord Italia non si tratta di recuperare le specificità di ciascuna regione ma di un mero calcolo.
«Esatto, è proprio così. Dietro tutto questo progetto federalista si scorge solo il desiderio di far diventare i ricchi ancora più ricchi e i poveri ancora più poveri. Il sardismo ha un concetto più elevato dell’indipendenza. Noi combattiamo l’egoismo dei popoli, crediamo nella solidarietà. Vogliamo che i più ricchi aiutino i più poveri a crescere in modo che in un futuro non troppo lontano si eliminino 1e differenze tra poveri e ricchi».
Mi pare sia un no su tutta la linea…
«No, il punto è un altro. Questo che ci vogliono offrire è un federalismo di destra perché , tende a conservare le strutture economiche e politico-amministrative del potere a chi le ha già, lasciando in una crisi profonda chi non possiede. Noi di fatto dovremmo restare dentro un alveo italiano ma senza averne i benefici, dovremmo sborsare molto di più e guadagnare decisamente di meno».
Lei per primo volle arrivare a un avvicinamento con la Lega. Ricorda l’arrivo di Bossi al palazzo dei Congressi?
«Sì. Utilizzai i fondi del parlamento europeo – e voglio sottolineare l’aspetto europeista del mio sogno federale – per organizzare due convegni a Cagliari. Il primo con Gianfranco Miglio e il secondo con gli amici Umberto Bossi, Roberto Maroni e Francesco Speroni. Ma proprio in quelle due occasioni scoprimmo quanto noi e loro fossimo intimamente diversi, quale differenza ci separasse. Quello è un federalismo mistificato, non è federalismo. Tanti Stati si mettono insieme per dividersi alcune spese come la Giustizia o la Farnesina. I ricchi però non pensano di certo ad aiutare i poveri: i rapporti tra le regioni si chiudono dopo la mera contabilità».
Lei crede pochissimo in Bossi, quindi. Non ha alcuna fiducia nella proposta leghista.
«Quando cercava di resistere a Berlusconi – proprio sul federalismo gli mandai un telegramma. Ero pronto a battermi al suo fianco. Ma la sua scarsa credibilità l’ha dimostrata proprio quando ha accettato di progettare il federalismo assieme a un partito che rappresenta l’antifederalismo per eccellenza: Alleanza nazionale, con i missini».
Pare di capire che lei prevede per l’Italia un’unità nazionale imperfetta.
«Sì, le regioni povere dovranno pagare le spese generali delle regioni ricche senza averne assolutamente niente in cambio».
Da un punto di vista strettamente operativo, in cosa si differenza la vostra idea di federalismo dal progetto della Lega?
«È il principio che cambia: le strutture materiali, poi, resterebbero pressoché invariate. Noi vogliamo realizzare un federalismo della solidarietà. Noi vorremmo una capacità di sovranità statuale sarda (non diciamo che le regioni attuali debbano restare queste: magari alcune regioni singolarmente considerate non hanno la forza di costituire uno stato autonomo, come Puglia, Basilicata, Molise, Abruzzi: 21 regioni in Italia sono troppe). Le nostre regioni devono essere trasformate in mini-Stati che tutti insieme partecipano alla realizzazione di uno stato federale stabilendo i rispettivi problemi con capacità del tutto autonome».
Praticamente volete realizzare un’autonomia quasi totale.
«Vogliamo una grande autonomia ma solo all’interno di un bene comune. Lo Stato gestirebbe solo la moneta, l’università, la grande ricerca scientifica, alcune cose generali del fisco garantendo che un venti per cento delle risorse raccolte venga reinvestito per il riequilibrio delle regioni rimaste in ritardo per lo sviluppo, insomma, lo ripeto perché sia ben chiaro: Miglio propone un federalismo contrattuale. Noi un federalismo solidaristico. Ogni regione all’interno del proprio territorio deve poter decidere tutto quanto le interessa. Non è più possibile avere questa duplicazione di uffici per cui la Regione ha competenze parallele a quelle dello stato spesso conflittuali tra loro».
A suo avviso il bisogno di autonomia nei sardi è aumentato o diminuito nel corso degli anni?
«Oggi c’è molto più bisogno di federalismo. I sardi possono criticare la Regione (e ne hanno ben donde) ma si sono abituati all’autonomia. Ora ne individuano la i- forza reale di tutela e di prospettiva. Purtroppo la classe dirigente nostrana praticamente non esiste. E, si badi bene, non mi riferiscono assolutamente a singole persone, non voglio fare nomi. Ma la nostra classe politica e anche quella imprenditoriale sente un unico bisogno impellente: avere padrini che possano dare una qualche protezione».
Secondo lei si tratta di un decadimento dei nostri giorni?
«No, si tratta di un male antico che purtroppo ora si è diffuso a tutto il corpo sociale. Oggi vediamo i nostri politici alla ricerca spasmodica di un’ispirazione esterna, vanno a cercare il miracolismo. Si pensi al caso di Forza Italia, un partito che si afferma in pochi giorni e che rappresenta una proposta improvvisata riscuote anche da noi consensi straordinari».
Sembra decisamente preoccupato per quanto dovrà accadere.
«Moltissimo, ma non tanto perché vince Forza Italia quanto per il fatto che vedo oggi più che mai la voglia di vivere di luce riflessa, in modo acritico, senza progettare nulla, senza pensare. I nostri politici, i nostri imprenditori vogliono cercare solo un protettore esterno. Viviamo di indotto, di sussistenza. Guardiamo all’esterno non per arricchirci di cultura e di professionalità, ma per trovare certezze che invece possiamo trovare solo al nostro interno».
La solita storia delle elemosine che sembrano essere in Sardegna estremamente gradite.
«Sì. Per essere felici ci basta che ci finanzino un po’ di opere pubbliche. Invece i nostri dirigenti i e i nostri imprenditori dovrebbero andare a scoprire il mondo per creare in Sardegna le condizioni della sviluppo».
E ora il grande patriarca riprende la battaglia. Starà sulla tolda della nave, nonostante i venti che sferzano dal nord. In prima linea, come sempre. Nella battaglia per un autonomismo fondato sulla solidarietà e sulla riscoperta della grande madre Italia. A su connottu.
No, caro Bossi, così non c’è accordo – intervista di Antonangelo Liori – Unione Sarda – 10 aprile 1994
12 Giugno 2024 by