I Giacobini, affermatisi componente maggioritaria a conclusione della rivoluzione francese, ebbero quale obiettivo primario quello di concentrare i poteri di legislazione e governo ai vertici dello stato assicurandosi che avessero puntuale adempimento su tutto il territorio nazionale attraverso una fitta rete di funzionari amministrativi, fiscali, tecnici e di polizia ad esso gerarchicamente soggetto.
Vennero così cancellate dal quadro istituzionale le molte nazionalità che arricchivano, con le loro culture, lingue, tradizioni, usi e costumi, la grande comunità francese.
Alsaziani, Lorenesi, Bretoni, Provenzali, Baschi, Catalani, Corsi – per citare i popoli più noti – volenti o nolenti, dovettero accettare, imparare, parlare, e scrivere – nelle sedi pubbliche – esclusivamente la variante di lingua francese parlata a Parigi rinunziando alla propria identità etnica.
Con le armate vincenti di Napoleone Bonaparte il modello di Stato francese venne esportato in larga parte d’Europa ed imposto con il pieno consenso delle classi dirigenti locali.
Unico organo intermedio previsto fra governo centrale e municipalità: un ente statale, corrispondente alla Provincia italiana, soggetta peraltro al controllo del Prefetto, investito di tutti i poteri del governo centrale nell’ambito del territorio affidato alla sua direzione e controllo.
I Comuni gestivano l’amministrazione dei rispettivi territori entro modesti spazi di autonomia fissati dal Governo.
A ben guardare tanto i Comuni che le Province, per dare corso ed impulso ai processi di sviluppo nelle rispettive circoscrizioni, avevano come unico interlocutore il Governo centrale, tramite il Prefetto dei rispettivi capoluoghi provinciali.
Il primo e più celebre contestatore dello stato centralista fu uno dei più fervidi partecipi della rivoluzione francese: il corso Pasquale Paoli, deluso e tradito nelle aspettative di autonomia della sua regione per la quale aveva elaborato una costituzione così moderna che nel tardo settecento, fra le illuminanti aperture democratiche, prevedeva, prima nel mondo, il voto alle donne.
Questa lunga premessa è correlata alla denunzia del costante attentato dei poteri centrali dello Stato all’autonomia regionale o, come sarebbe più corretto dire, alla sovranità policentrica dello stato regionalista. Dando per acquisita la legge approvata nelle scorse settimane dal Parlamento italiano, definita federalista, (in sostanza si limita ad ampliare, in settori istituzionali di rilevante interesse, le competenze regionali, ma difetta dei contenuti cardine dello stato federale quale il senato pariteticamente rappresentativo delle Regioni e la Corte Costituzionale formata da magistrati eletti in eguale numero dagli organi centrali e regionali dello stato) dobbiamo, oggi, concentrare la nostra attenzione sul dibattito volto a chiarire le proposte istituzionali delle parti politiche sul ruolo delle diverse istituzioni nella costituzione del futuro stato federale. Il quadro non è incoraggiante.
Nella destra: l’incoerenza delle posizioni sostenute dalle componenti del Polo: quasi separatismo della Lega, contro unità, ordine, gerarchia, disciplina – e così continuando – di Alleanza Nazionale, mentre la sinistra, tradizionalmente antifederalista, è oggi combattuta fra l’ampliamento dei poteri regionali ed un federalismo eminentemente municipale.
Rifacendosi al falso storico di una tradizione italiana dominata dal municipalismo, contraddetta dalle numerose statualità presenti su gran parte del territorio italiano (da Federico II al Regno delle due Sicilie, dallo Stato del Vaticano, al Gran Ducato di Toscana, Principato di Piemonte e Regno di Sardegna) sta il fatto che anche i così detti ‘Comuni” non erano altro che capoluoghi di Stati che oltre la politica interna svolgevano intensa attività internazionale come la Toscana dei Medici, il Comune di Milano (che fra Brianza, Valtellina, Bresciano, Pavese etc. arrivava sino a Locarno e Bellinzona, oggi Svizzera) per non parlare delle Repubbliche di Genova e di Venezia il cui territorio ricomprendeva città e popoli oggi governati da diversi stati (Nizza, Dalmazia, etc.) ed estendevano i loro interessi politico-commerciali ben oltre il Mediterraneo per trattare affari sin nell’estremo oriente.
Ebbene l’idea di associare i grandi comuni (come una forte corrente di sinistra e soprattutto la destra sociale vanno sostenendo) quali soggetti federati in uno alle rispettive istituzioni regionali, significa disintegrare il ruolo della Regione costretta a subire il ricatto dei grandi comuni a danno della maggioranza dei piccoli, ma soprattutto distruggere il concetto stesso di stato federale rinsaldando tutti i poteri centralisti sintetizzati nella politica del “divide et impera”: Regioni condizionate ed in conflitto con i grandi comuni impegnati nel far proprie la maggior parte delle risorse in danno dei piccoli comuni; si profila il pericolo del perpetuarsi della situazione di sempre; concentrazione in città di banche, università, centri di ricerca, enti economici, grandi aziende, industrie, commerci, uffici dell’alta burocrazia amministrativa, tecnica e giudiziaria, sedi di rappresentanze imprenditoriali nazionali ed internazionali. Conseguenze: crescente processo d’inurbamento, e contestuale desertificazione delle campagne e spopolamento dei piccoli paesi.
A parte l’anomalia di una promiscuità istituzionale sconosciuta in qualsivoglia stato federale che ipotizza solo stati federati formati da territori regionali e relative popolazioni in esso insediate, si deve finalmente prendere atto del nuovo ruolo giustamente rivendicato dagli Enti Locali dando loro voce e potere deliberante in sede regionale.
L’ipotesi s’inserisce nel quadro del nascente federalismo interno in seno alla comunità regionale quale forza vivificante la democrazia partecipata e solidale in grado di scongiurare la potenziale contrapposizione fra Regione e Comuni che i fautori del centralismo considerano essenziale per assicurarsi la conservazione di un potere politico-burocratico superato dalla storia.
La risposta: in analogia alle istituzioni legislative degli stati federali fondate sul bicameralismo rappresentativo rispettivamente, una dei cittadini residenti nello Stato e l’altra delle istituzioni federate dovremmo dar vita, accanto al Consiglio regionale, ad una seconda assemblea eletta dalle giunte o Consigli degli Enti locali, avente potere deliberanti su legge finanziaria, bilancio, programmazione e ripartizione delle risorse oltre che su tutte le tematiche che investono l’organizzazione, le funzioni ed in ultima analisi i poteri degli Enti locali.
Coinvolgendo le istituzioni locali nell’attività legislativa regionale non si creerebbero più conflitti interni alla politica regionale, scongiurando così il subdolo insinuarsi del “divide et impera” da parte del governo centrale.
Scongiuriamo il ritorno ad un passato intessuto di campanilismo, emarginazione, guerre fra poveri e, soprattutto, subalternità: frutto principale delle nostre divisioni.
I popoli, uniti nella storia da comunità d’interessi, collocazione geografica, cultura, lingua, usi tradizioni costumi, debbono organizzare un sistema istituzionale che esalti i loro valori e la forza dell’unità.
Il loro inserirsi nell’intenso processo di sviluppo nazionale ed internazionale, non deve essere affievolito da antistoriche conflittualità ormai superate dalla moderna democrazia federalista che eleva i popoli da sudditi in soggetti sovrani.
Autonomia e Federalismo interno – Documento per Ufficio ex Consiglieri regionali – 18 luglio 2001
30 Marzo 2013 by