Signor Presidente, colleghi consiglieri, la richiesta della Giunta di fare dichiarazioni su un tema di così viva attualità, è originata dal verificarsi di fatti altamente drammatici che hanno coinvolto pubblici amministratori in un’area ben definita della nostra Isola, che coincide in larga misura con quella a più netta vocazione pastorale. Gli atti di violenza verificatisi recentemente si inseriscono in un contesto storico già intensamente sofferto nei lunghi anni del sottosviluppo e della progressiva emarginazione, nella rincorsa a quei riequilibri che pur costituiscono gli obiettivi di una politica affermata dal governo dello Stato, dal governo della Regione, dai poteri pubblici e mai realizzata.
È un’occasione che ci richiama però a riflessioni di carattere più generale, all’interno delle quali collocare questi che potremmo definire episodi e che potrebbero invece, secondo certe valutazioni, assumere il rilievo di una svolta specifica, tesa a minacciare il democratico esplicarsi dei poteri pubblici in un ambito di società civile che certo non può tollerare forme di paralisi esercitate nella violenza da sconosciuti e con un indice di allarme sociale così elevato. E c’è da chiedersi se il fenomeno acquista carattere di recrudescenza, ossia di vivacizzazione, di intensificazione di atti criminali, o se, pur nella gravità del loro verificarsi, tali atti possano essere riguardati quali episodi gravi, ma non per questo emblematicamente espressivi di un processo involutivo di cui dovremmo tener conto nelle nostre conclusioni e nella scelta politica cui siamo chiamati.
Coincide abbastanza casualmente col nostro dibattito la relazione introduttiva all’inaugurazione dell’anno giudiziario, svolta proprio stamane dal procuratore generale Viarengo, dal cui testo apprendiamo che in sostanza il numero dei reati nella loro globalità e in diminuzione; ma poiché il dato quantitativo di per sé è scarsamente significativo, se non viene letto e disaggregato nelle sue componenti, scopriamo che sono in diminuzione i reati minori, quelli che possiamo ricomprendere nella vasta fascia delle contravvenzioni, mentre il delitto risulta in sensibile aumento, sebbene non abbia raggiunto i vertici del 1983-‘84, che sono rimasti insuperati, e che a loro volta erano nettamente inferiori a quelli che hanno dato luogo alla Commissione parlamentare d’inchiesta sui fenomeni di criminalità in Sardegna. Quindi non nell’impatto emotivo del verificarsi dei singoli reati, ma in un arco di tempo sufficientemente lungo, si da poter essere valutato comparativamente con quello che stiamo vivendo, si va verso una diminuzione dei fenomeni criminali, pur in presenza del modificarsi di obiettivi, ancorché in costanza di forme criminali che si ripetono all’interno di una tradizione, di una cultura, di condizioni ambientali che ne favoriscono l’esplicarsi.
Quali le cause? Evidentemente rifiutiamo la letteratura che vuole una zona a vocazione criminale, perché non è coerente con la nostra interpretazione sociale e storica del fenomeno. Non vi è una razza maledetta, vocata al crimine; sono queste forme di razzismo che ormai non trovano più seguaci credibili e che vanno respinte; il discorso va ricondotto invece all’interno di un’analisi che espunge anche l’assunto della miseria, della povertà come causa, e quindi sinonimo, di criminalità.
L’esperienza, se non soccorressero altre considerazioni, ci consente di respingere un assunto di questo genere, anche perché le statistiche vedono zone di povertà assolutamente indenni dalla lebbra criminale, per la presenza di fattori positivi che ci inducono invece ad individuare cause emergenti concretamente operanti. Certo i fattori ambientali sono un elemento estremamente grave nella produzione delle condizioni che favoriscono l’insorgere dell’azione criminale e, nelle condizioni ambientali, anche i processi di emarginazione sociale, i processi di sottosviluppo, della disoccupazione, della povertà, possono favorire la ricerca della manodopera criminale in quelle fasce che, per un complesso di ragioni, sono più fragili e più esposte.
Le cause reali vanno ricercate in questa società che ha visto precipitare, disgregarsi i valori tradizionali della società agro-pastorale, i codici e i modelli di comportamento che consentivano di individuare al suo interno le difese contro i fenomeni di criminalità. Ogni società ha la sua frangia di criminalità, anche quella più progredita; anche quella scandinava che viene sempre assunta come esempio di società severa per il convivere di tutte le sue componenti senza conflittualità rese venefiche dall’azione criminale. Ebbene questa fascia criminale deve pur trovare nell’organizzazione sociale le motivazioni del suo operare criminoso. È dato di esperienza comune che la solitudine, i vasti silenzi caratterizzano e dominano il nostro ambiente per decine e decine di chilometri; dalle grandi aree del Gennargentu fino alle marine non si incontra una casa, un centro abitato, un punto di civile e privata difesa; ebbene in quelle solitudini l’occasione al delitto, le condizioni dell’impunità, le opportunità si moltiplicano senza che la società abbia congrue possibilità di difendersi. Condizioni ambientali quindi che , secondo un’antica cultura della società pastorale, consentivano la consumazione di determinati reati i quali, proprio per la conformità della società che era in grado di contenerne l’insorgenza, non travalicano le difese apprestate. Io stesso per quasi quarant’anni ho vissuto in quelle aree l’esperienza di una professionalità che mi ha messo in contatto, pressoché quotidiano, con protagonisti e vittime, e potrei dire che il reato di violenza era l’eccezione; la stessa rapina era inconcepibile nel mondo dei pastori se non per umiliare la vittima; su furtu a rapina non era un mezzo per impossessarsi dell’altrui, un mezzo di arricchimento per spogliare altri dei loro beni perché a questo bastava il furto che dimostrava la balentia, che dimostrava l’abilità dell’operatore senza violenza.
Che utilità ha mai la violenza? La violenza era in passato finalizzata a mortificare il rapinato, a dimostrargli la sua impotenza, a dimostrargli come la sua arroganza poteva essere punita, annientata; era una sanzione, una punizione ma in fondo un monito: nell’economia del delitto, almeno nella tradizione della società culturale, non si doveva ricorrere al di più se non necessario.
Ma quella società, colleghi, è entrata in crisi, sono entrati in crisi i suoi valori ed anche le sue difese e oggi la violenza è un elemento dominante. L’omicidio preventivo è diventato funzionale all’arricchimento. Io ricordo che nella criminalità tradizionale, l’omicidio era l’effetto di illegittima difesa; si ricorreva alla violenza solo dopo la scoperta del crimine: l’inseguimento del ladro cioè poteva portare, per conseguire l’impunità o per mantenere il possesso della refurtiva, a questa atroce conseguenza della illegittima difesa. Ma oggi la violenza è funzionale alla consumazione del delitto. Ecco un processo involutivo che aggrava e allarma più di quel tipo di criminalità che era l’espressione di una società ormai superata.
Oggi l’abigeato, per esempio, non è finalizzato all’allevamento del bestiame e quindi ad arricchire il ladro che, attraverso bollettini più o meno alterati, più o meno falsificati, diventa proprietario di un maggior numero di armenti. No, quella era la logica dell’abigeato di appena qualche decennio fa; oggi si ruba per immettere nel mercato, per consumare rapidamente e per rapidamente trasformare in guadagno ciò che invece prima diventava occasione di lavoro, determinava un maggiore impegno aziendale per colui il quale si impossessava delle greggi altrui. Vi è stato uno stravolgimento, ed oggi che siamo di fronte ad una società dei consumi che accelera i suoi ritmi, i protagonisti del crimine perseguono i loro obiettivi con modalità differenti e il loro arricchimento non e più il frutto del lavoro ma solo della violenza; è un arricchimento indebito che passa attraverso la vita stessa delle vittime.
Sì, siamo in presenza di una crisi della società pastorale, chiamata all’impatto con i valori del nostro tempo, con un modello di società che ancora non e approdato, nella realtà della sua diffusione, nelle nostre contrade, ma che è presente nei mass media, che è presente negli ideali e che si vuole realizzare comunque. Ed ecco perché noi abbiamo una crescente criminalità minorile: perché investe la fascia sociale più esposta, più vulnerabile, più suggestionabile; ecco perché abbiamo un settore così rilevante della nostra grande famiglia nella situazione di compiere delitti enormi, atroci; sono ragazzi che senza sufficiente esperienza di vita, senza sufficiente esperienza critica fanno gloriosamente uso di armi da fuoco. Certo come quando eravamo ragazzini noi. Io non l’ho mai fatto perché al mio paese non c’erano lampadine da rompere, ma era tradizionale il bambino che rompeva lampadine a sassate; nella mia infanzia bauneese non c’era l’energia elettrica, ma dico…
Cioè quelle stesse lampadine che trenta, quarant’anni fa si rompevano con la fionda, oggi vengono distrutte a revolverate.
I delitti commessi dai ragazzi sono in crescente aumento e rappresentano le suggestioni della società del consumi, le suggestioni dell’azione pubblicitaria che arrivano — un tempo si chiamavano i persuasori occulti, oggi sono sempre più evidenti ed esplicite — in casa nostra, dentro le nostre famiglie a disgregare il rapporto umano con i nostri stessi figli e per i quali vi e scarsa possibilità di difesa. Vi sono cause evidentemente scatenanti, perché la povertà, unita a degli ideali che non si riesce a realizzare, creano lo sfasamento, lo squilibrio, gli scompensi, e lo scompenso, quando ha rilevanza sociale, diventa elemento di diffusa inquietudine sino a sfociare nell’azione criminale.
Ma vi sono altri fattori nelle nostre campagne: vi è l’antico contrasto tra pastori, la loro conflittualità originata dalle divergenze sul nomadismo e gestione stanziale delle aziende agro-pastorali. Vi e cioè l’esigenza di fruire del territorio in termini estensivi, e chi è stato Assessore della difesa dell’ambiente e Assessore dell’agricoltura ha subito questa esperienza difficile, questa conflittualità spinosa, incoerente, tra i pastori che, dovendo gestire aziende con indici di red-dito relativamente bassi, non si possono permettere grosse spese per l’allevamento del bestiame e purtroppo vanno incontro a difficoltà reali dovute alla scarsa disponibilità dei terreni e alla insufficiente disponibilità di acqua per irrigarli. Inoltre la protezione di queste produzioni comporta spese, impiego di risorse o di attività che non rientrano nelle possibilità del pastore, ecco perché vi è l’esigenza di poter spaziare, senza discipline particolari, su vaste aree in contrasto con la necessità, invece, di restituire gran parte del nostro territorio alla sua naturale vocazione, che è il bosco. In sostanza la difesa ecologica, l’utilizzazione ottimale del territorio spesso contrastano con quella operazione se vogliamo irrazionale, ma fisiologicamente incontestabile, che vorrebbero altre categorie di produttori. Il problema è dunque il governo del territorio, è la gestione dell’ambiente e i fatti verificatisi ad Aritzo, a Dorgali, ad Orani, ad Orgosolo (sgarrettamenti di bestiame, incendi di pinete appena messe a dimora, devastazioni, atti di violenza alle persone, quanto meno con significato intimidatorio) ne sono la dimostrazione concreta. Io stesso in Oliena, durante la mia esperienza di amministratore comunale, volendo portare a produzione la Valle di Lanaittu, ho assistito al dilagare, nel corso dei relativi lavori, di reati tali da richiedere il processo in tribunale; nulla di drammatico, ma comunque azioni violente anche in quell’occasione.
Noi viviamo in una società che, in materia di governo del territorio, si pone problemi nuovi: di urbanizzazione, di ottimizzazione dei valori urbanistici delle aree fabbricabili, di espropriazioni. Per costruire una piazza, per fare una strada, per realizzare un’opera pubblica di interesse collettivo occorre spesso sacrificare interessi individuali. Governare significa operare, dicono, inter volentes (tra coloro che vogliono). No, molto di più: spesso governare significa operare inter nolentes (tra coloro che si oppongono), perché, fermo restando il perseguimento di indirizzi e obiettivi generali, noi, nel conseguirli, ci scontriamo concretamente con interessi opposti. Ecco allora l’esigenza di fare chiarezza. Certo, a Desulo queste cose ce le siamo dette con molta franchezza; guai a recitare il rituale, mancheremmo ad un appuntamento specifico. L’indagine condotta con così alto senso dello Stato della Commissione parlamentare d’inchiesta sui fenomeni di criminalità in Sardegna questi elementi li ha messi in evidenza e li ha sottoposti al Parlamento e a tutti i poteri su cui ricade la responsabilità del decidere.
Dobbiamo dire che, certo, molte cose tra quelle indicate nella relazione Medici sono state realizzate; non sono stati conseguiti, invece, i risultati sperati, anche perché alcuni interventi sono poi entrati in crisi. Basti pensare a quelli effettuati nella Sardegna centrale che, nelle intenzioni dei governi di allora, dovevano modificare profondamente le strutture sociali, la stessa cultura, gli stessi valori di quell’area economica. Invece, dopo aver determinato tutto lo scompaginamento dell’esistente, creando miti, creando modelli che stavano definendosi attraverso un processo di crisi, sono poi falliti perché non hanno potuto realizzare appieno quell’ipotesi di sviluppo che era alla loro base, ed anche quel poco che hanno realizzato ha subito processi involutivi drammatici.
Oggi siamo pertanto in presenza di una situazione determinatasi dal fallimento di quegli obiettivi, fallimento che non ha consentito il raggiungimento delle mete sperate. Come possiamo meravigliarci, quindi, se proprio in quelle zone si verificano i fenomeni più acuti, le reazioni più gravi a questo stato di cose? Dovevamo dar vita ad un modello di amministrazione che, sia per quanto attiene lo Stato, sia per quanto riguarda la Regione, fosse quanto di più moderno, di più efficiente, di più duttile, di più rispondente alle esigenze dei cittadini
che potesse esistere per garantire la certezza dei loro diritti. Non abbiamo realizzato questo traguardo, ne siamo ancora lontani e tutto ciò, evidentemente, non può che essere causa di ulteriore diffuso malessere; le condizioni ambientali sfavorevoli sono quindi ancora presenti.
Io non mitizzerei molto i fenomeni di riacutizzazione verificatisi nel Nuorese a danno di pubblici amministratori; si tratta di atti che devono allarmare sicuramente, ma non devono essere assunti come sintomo di un processo di diffusione, perché penso che ogni episodio abbia una sua precisa genesi. Del resto fenomeni di questo tipo se ne sono verificati a decine nel corso della nostra storia; sono presenti non solo nel Nuorese, ma anche nel Cagliaritano.
Io stesso nel corso della mia esperienza professionale di avvocato ho prestato la mia opera in molti processi (anche qui, nel Cagliaritano) per atti di intimidazione (nulla di più grave dell’intimidazione) nei confronti di pubblici amministratori. Sono fenomeni che ogni tanto insorgono; quando gli interessi in gioco cominciano a diventare corposi, le reazioni possono assumere anche queste forme. Certo abbiamo il dovere di essere estremamente rigidi, di essere vicini, solidali, di andare a ricercare di volta in volta le cause di questa conflittualità affinché si possano adottare le opportune misure per superarla; dobbiamo offrire a coloro che si trovano in trincea la solidarietà necessaria e portare lì l’azione del potere politico.
È evidente che si tratta di fatti atroci, ben difficilmente comprensibili: quando un sindaco subisce l’aggressione di un suo familiare ci troviamo di fronte ad un fatto che esula dalle tradizioni della criminalità sarda, ad una vendetta trasversale, che colpisce indirettamente la vittima designata mortificandola ancora pin duramente. Il senso della responsabilità personale in Sardegna era un valore assoluto; la vendetta trasversale era estranea e, in sostanza, quando si verificava, comportava la condanna sociale di colui che se ne macchiava. Famosi banditi che avevano potuto godere dell’omertà, o perché temuti o perché a denunciare il latitante sembrava non essere un’azione socialmente nobile (ma io penso soprattutto perché temuti) venivano immediatamente denunciati e travolti quando compivano azioni criminose verso persone estranee alla loro vicenda umana.
Un famoso bandito che non riuscì a colpire il sue nemico e si vendicò su una figlia, nel 1927 venne, dopo neanche due mesi, catturato, ucciso, spazzato via. Ricordo che nel Nuorese un’intera famiglia di latitanti venne spazzata via mentre altri furono catturati e condotti in Corte d’Assise dove le condanne giunsero inesorabili.
Oggi, invece, di fronte a delitti che investono anche persone dell’ambito familiare delle vittime, la società resta disarmata. Ho sentito – e direi che e una liberazione dall’angoscia per tutti noi – che è stata appena restituita a libertà una donna sequestrata tempo fa in Gallura.
Oggi si colpiscono indifferentemente donne e bambini, mentre anni fa sequestrare una donna, usare violenza ad una donna, significava avere il massimo del disprezzo che poteva investire un criminale nella nostra Isola.
Ebbene, tutti questi fenomeni involutivi provengono dalla crisi della società, dall’impatto di una società pastorale, ancora attardata in modelli di vita legati al nomadismo, ad una cultura e a tradizioni superate, coi ritmi del nostro tempo ai quali e costretta a soggiacere. Queste situazioni sono derivate dallo sfilacciamento indotto dal consumismo, dal crollo del vecchi valori non sostituiti da nuovi.
Ecco tutto questo, colleghi, ci pone di fronte ad interrogativi nuovi, ci pone di fronte a fenomeni di criminalità indotta che incombono pericolosi e devastanti: per esempio, la droga che, nonostante sia sempre stata estranea alle forme di criminalità tradizionalmente presenti nella nostra regione si sta diffondendo tra i nostri ragazzi, tra gli emarginati, e dalle fasce del proletariato urbano va diffondendosi, con la forza della peste, anche nelle contrade più lontane ed interne. Non c’e sufficiente informazione, non c’e sufficiente difesa preventiva; l’informazione, la cultura devono essere lo strumento per contrastare questo cammino dilagante. Si tratta peraltro di una forma di criminalità che, per sua natura, deve presupporre una certa organizzazione avente carattere di stabilita. Non deve trattarsi, in altre parole, di una organizzazione occasionale come avviene per i sequestri di persona o per le rapine: un gruppo di persone che si associano per commettere un determinato reato, perseguito il quale ciascuno va poi per la sua strada. No, nella droga l’organizzazione deve avere carattere di permanenza perché ha necessita di collegamenti esterni, che vanno al di là delle sponde della nostra terra. Ecco allora che, per questa strada, sta entrando in Sardegna una nuova forma di criminalità: la criminalità organizzata. Lo spaccio della droga viene infatti organizzato e trova le sue basi più efficienti – per quanto si apprende dalle relazioni dei Procuratori generali, dalla stampa o negli studi di sociologia nazionale ed internazionale – proprio dove esiste una tradizione di criminalità organizzata, di mafia, di camorra, di ‘ndrangheta; forme tutte queste di criminalità organizzata, che si esportano da una località all’altra, in America, per esempio, oggi anche in Australia e domani – perché no? – potrebbero dilagare anche in Sardegna.
Questa piaga atroce e terribile può diffondersi favorita soprattutto dall’importazione di criminali di altre regioni d’ Italia nelle nostre carceri; criminali il cui contatto con la delinquenza sarda può produrre questo effetto estremamente pericoloso. Ecco allora che problemi che ci dobbiamo porre diventano molteplici e ci chiamano a riflessioni severe. Certo un’azione di prevenzione robusta, diffusa, costante, che non disarmi mai, esercitata in tutto il territorio, può essere utile ma come realizzarla? Intanto conferendo maggiore efficienza alle forze di polizia senza per questo attribuire loro poteri eccezionali, per carità. Ecco, questo è uno dei pericoli per i quali dobbiamo essere molto vigili perché l’emozione e lo sdegno di fronte alla turpitudine di certi delitti chiama reazioni dure, repressive che sono, in fondo espressione del senso etico del cittadino e della società che reclamano la sanzione, il castigo nei confronti di chi tanto male ha operato. Ma guai ad essere vittime di suggestione e di emozione: questi episodi criminosi sono fenomeni che vanno ricondotti all’interno di terapie sociali con la forza della civiltà, delle procedure ordinarie che sono di per sé sufficienti a fronteggiarli. Ecco perché io dico che occorre dare credibilità alle stazioni dei carabinieri.
Certo, quando io faccio osservare al Generale comandante dei carabinieri, quando viene a rendere visita di cortesia, che le nostre caserme sono popolate da ragazzi, in paesi dove per la solitudine delle campagne non sono facilmente apprestabili altre difese se non quelle rappresentate dal prestigio del comandante la stazione dei carabinieri, che raccoglie la fiducia dei cittadini, che raccoglie quindi le informazioni attraverso le quali è possibile prevenire o comunque con tempestività attivare indagini, ovviamente mi si risponde che il trasferimento di un maresciallo anziano in uno di questi Paesi implicherebbe automaticamente, tre giorni dopo, la presentazione di una domanda di pensionamento anticipato, perché probabilmente questo sottufficiale ha figli che studiano all’Università, avrà la moglie che insegna, sarà riuscito finalmente, dopo chissà quanto tempo, a trovarsi un alloggio in una città o in un paese vicino alla città, e il trasferimento gli scombina tutto questo, gli crea un tale danno che preferirà andare in pensione.
Ecco quindi che le nostre caserme sono popolate da giovani, pieni di entusiasmo, pieni di spirito di sacrificio, di un volontarismo commovente e coraggioso, ma senza quella necessaria esperienza per governare un mondo inquieto e difficile quale quello che oggi noi stiamo vivendo.
Occorrono perciò prevenzione, specializzazione, organizzazione, efficienza, tecnologia, perché la criminalità oggi è anche tecnologia: gli walkie-talkie i criminali sardi li sanno adoperare, i pastori sanno informarsi tempestivamente su ciò che avviene mentre la polizia non sempre è sufficientemente organizzata. Ma vi e anche un’altra soluzione, l’unica realmente possibile, ossia quella di mobilitare le popolazioni perché ritrovino in se stesse la forza e la capacità di sradicare dal proprio seno queste forme criminose. Ma in che modo questo potrebbe avvenire? Con organizzazioni che appartengono alla tradizione e alla cultura della nostra società pastorale, i barracelli, che hanno scritto pagine importanti nella lotta al crimine in Sardegna. Naturalmente i barracelli, così come sono oggi disciplinati, ben difficilmente potranno fronteggiare fenomeni criminali quali quelli di cui ci stiamo occupando. Evidentemente dovremo studiare forme nuove di organizzazione, ma non possiamo rinunciare ad offrire alla società civile strumenti, mezzi, poteri, condizioni giuridiche perché possano emergere quei valori in essa esistenti, lo sdegno verso tali forme di criminalità; dobbiamo, cioè, dare alla forza etica che e presente nella nostra società anche la forza giuridica e gli strumenti perché possa meglio difendersi. E non deve più ripetersi ciò che è avvenuto in passato quando lo Stato, di fronte ad iniziative della Regione ha detto: «La lotta alla criminalità è compito mio, tu Regione non c’entri nulla, tu, a parte le poche competenze legislative previste nei primi articoli dello Statuto hai solo competenze amministrative». Infatti quando già nel 1973 si tentò di proporre una modifica del ruolo e dell’azione del barracellato, trovammo il Ministero degli Interni preoccupato ed allarmato e comunque ostico e resistente a qualunque innovazione. Da allora ad oggi, però, molte cose sono cambiate.
Io voglio chiudere questo mio primo intervento auspicando che la mozione che i colleghi della Democrazia Cristiana hanno proposto si concluda con un ordine del giorno unitario che resista alla suggestione di certe forme di reazione contrarie al principi di democrazia e di organizzazione civile della nostra società.
L’animo nostro si apre non al pessimismo ma ad una ragionata speranza; la riduzione globale dei crimini indica che va crescendo la coscienza civile della nostra popolazione; la riduzione dei delitti consumati e l’aumento dei delitti tentati significa che le capacità di resistenza, di prevenzione sia pubblica che privata sono aumentate, che non è più così facile commettere i reati.
Siamo quindi in un clima e in un contesto che deve aprire non solo il cuore e il sentimento ma la mente ad una ragionevole valutazione di speranze. Credo che noi possiamo concludere che le forze del male che sono presenti, che sono pericolose, possono essere sconfitte se riusciamo a ritrovare soprattutto in noi stessi quei valori che sono il presidio più sicuro della società civile.