“Autonomia è arte, è sapienza, è religione”. Così Camillo Bellieni sul Solco del 1° febbraio 1922.
Concordo pienamente con l’intuizione di Bellieni convinto che l’autonomia regionale, prima che formula istituzionale, sia una categoria dello spirito che spazia negli orizzonti della libertà diventandone punto di riferimento e, nel suo realizzarsi, asse portante.
La genesi stessa del pensiero autonomistico sardo, così come si è andato storicamente definendo nel corso di questo secolo, è illuminante per capirne la nobiltà dell’ispirazione.
Fiorisce in guerra fra i combattenti sardi: contadini, pastori e giovani intellettuali che mentre offrivano con ardimento le loro vite per la salvezza d’Italia intuirono nell’autonomia regionale la proposta politica capace, non di minacciare l’unità ma di consolidarla rilanciandone, con rinnovato empito unitario, una giovane e moderna democrazia radicata nel fermento creativo della solidarietà.
Seguendo in umiltà l’insegnamento di Bellieni sottolineo il valore della “saggezza” che si diffonde dal messaggio autonomistico; lealmente attuato, consente il sereno convivere, collaborare ed integrarsi delle diversità che, pur operando in piena autonomia, si propongono, per il bene di tutti, obiettivi e finalità comuni.
L’autonomia si trasfigura nell’arte e ne costituisce l’essenza stessa chiamando i suoi protagonisti all’estrinsecazione piena della loro personalità nell’equilibrato magico rapporto fra libertà e responsabilità.
Autonomia non è quindi isolamento ma partecipazione, esaltazione di valori che trascendono il contingente ed il materiale, per diventare incoercibile forza dello spirito, luce di fede nel travagliato sentiero dell’umano operare.
Ed in Bellieni si respira l’afflato mistico dell’uomo di fede che ha saputo trasmettere un insegnamento che va oltre il tempo e diventa apostolato.
Si comprende così come all’indomani della prima guerra mondiale l’idea autonomistica, quale forza guida del riscatto dei sardi dalla subalternità plurimillenaria, si sia diffusa con vigorosa appassionata partecipazione fra gli ex combattenti e, pressoché contestualmente, nella grande maggioranza dei sardi.
Questa ventata rinnovatrice ha dato vita ad un vero e proprio movimento politico che acquistò ben presto le dimensioni e l’organizzazione del partito di massa, la cui azione ha cancellato dallo scenario sardo lo sterile parlamentarismo clientelare, legato ad un notabilato fiacco e includente per proporsi da protagonista di una moderna democrazia regionalista nel più ampio scenario politico italiano.
I tempi non erano però maturi. In tutta Europa si andava infatti diffondendo l’ombra funesta delle dittature nazionaliste: fascismo, nazismo, franchismo, salazzarismo ne costituivano i fenomeni principali – non i soli – che, inseguendo miti d’imperiale potenza, hanno riprecipitato i popoli d’Europa e del mondo, dopo averne soffocato la libertà, nell’orrida carneficina di una nuova e più devastante guerra.
Mette però conto sottolineare come l’idea autonomistica abbia resistito al fascismo e, al suo dissolversi, sia impetuosamente fiorita.
È bensì vero che parte dei sardisti, abbandonata la bandiera dei quattro mori passarono al fascismo, ma salvo i soliti carrieristi voltagabbana, una parte notevole di loro credette alle promesse di Mussolini che assicurava, con l’autonomia, la realizzazione di opere pubbliche di tale rilevanza da cancellare i mali endemici che affliggevano la Sardegna da millenni.
La delusione non tardò a ricondurre tutti alla dura realtà.
L’evolversi della guerra e la sua conclusione ha finito però col dividere il mondo in due blocchi guidati rispettivamente dall’America divenuta simbolo della civiltà occidentale (fondata sulle grandi libertà conquistate con la rivoluzione francese) e dalla Russia comunista, che al di là della propaganda pacifista, proponeva la bolscevizzazione dell’Europa e dei paesi del terzo mondo sempre più insofferenti dell’arretratezza in cui trascinavano la loro intollerabile povertà.
Le grandi correnti di pensiero (rappresentative peraltro dei concreti e rilevanti interessi nei quali si articolava l’economia nazionale), come la stessa Chiesa (preoccupata del minaccioso diffondersi del materialismo storico), hanno finito con l’influenzare e condizionare le scelte politiche anche a livello locale marginalizzando il tema autonomistico considerato non più dominante ma complementare e comunque secondario rispetto allo scontro fra gli assertori della democrazia liberale e l’ideologia comunista.
Il partito sardo perse così una parte notevole della sua militanza, ma l’ideale autonomistico restò quale patrimonio comune della grande massa dei sardi che, pur disarticolati e contrapposti in molteplici partiti, chiedevano ai rispettivi dirigenti di battersi per una forte autonomia regionale.
Salvo benemerite eccezioni i dirigenti però tendevano ad obbedire alle segreterie romane e, in linea generale, agli indirizzi di politica estera determinati dalla guerra fredda in atto fra Russia ed America.
Fu quindi vittoria di popolo se, nonostante i rilevanti ostacoli interni ed esterni, la Consulta sarda, in sede propositiva e la Costituente italiana, in sede deliberante, definì uno Statuto di Autonomia per la Sardegna che si configurò come Speciale rispetto a quelli riservati alle Regioni di diritto comune; ciò in considerazione della peculiare specificità della “questione sarda” condizionata anzitutto dalla sua collocazione geografica e dagli eventi storici che ne hanno contrassegnato la solitudine nel contesto europeo e mediterraneo.
Va rilevato per altro che lo statuto d’autonomia non ha risposto, per la sua insufficienza, alle attese, né ha potuto esplicare appieno il ruolo di promozione dello sviluppo e quindi dell’integrazione dei sardi nel contesto italiano, ma ha comunque costituito un vigoroso momento di aggregazione in virtù del quale i sardi hanno preso coscienza di sé quale popolo soggetto di storia, economia, cultura e valori politici che lo fanno unico ed irripetibile nella grande famiglia umana.
Hanno capito come la sardità non sia un disvalore nascente dalle condizioni di arretratezza, ma l’asse portante di una civiltà contadino-pastorale maturata attraverso i difficili percorsi della storia imposta ai sardi da dominatori esterni succedutisi nell’arco di oltre due millenni. Una civiltà intessuta di sofferenza e solitudine nel quotidiano rinnovarsi dell’oppressione che pur depredando il nostro popolo delle sue risorse materiali non ne ha spento la forza morale, lo spirito resistenziale e la cultura che ancor oggi danno luce, dignità e tenace fermezza al radicamento etnico della sua inconfondibile identità.
Dopo mezzo secolo di esperienza, l’autonomia attraversa una crisi di transizione derivante, per un verso, dal mancato svilupparsi di tutte le potenzialità offerte dall’ordinamento autonomistico e, per l’altro verso, dal tumultuoso modificarsi, evolversi e diversificarsi dei grandi processi economici, sociali in atto in tutto il mondo.
La Sardegna stenta a tenere il ritmo dello sviluppo italiano ed ha bisogno di nuovi e più incisi spazi di autonomia per rivendicare a sé il diritto-dovere -in quadro di solidarietà federale italiana ed europea – di studiare e decidere il progetto e le politiche su cui costruire il futuro dei sardi.
Dovremo cancellare così anche il ricordo del piagnisteo querulo che lamenta le ingiustizie dei poteri esterni visto che tali poteri, con relative responsabilità, dovranno diventare respiro vitale dell’autonomia.
L’esperienza autonomistica ha attraversato fasi esaltanti e stasi regressive dipendenti da fattori molteplici non di rado interni alla dinamica politica della democrazia sarda; di maggior peso – ovviamente – i condizionamenti esterni.
A mio parere la fase più feconda s’è sviluppata nel primo decennio: da l’insediamento del Consiglio e Governo regionale sino al solenne riconoscimento del diritto dei sardi al Piano di Rinascita quale riparazione di un debito storico dell’intero Paese nei confronti del popolo sardo.
Dignità, equilibrio, concretezza di proposte di politica sia istituzionale che economica hanno ispirato in quegli anni i governi regionali che si sono così imposti al rispetto del Parlamento italiano e del suo Governo.
Dopo è stato un susseguirsi di luci ed ombre che hanno parzialmente attenuato la forza primigenia dell’impegno autonomistico; ma non la fede dei sardi nell’autogoverno.
Questa è una possente molla, pesantemente compressa; non attende che l’opportunità per liberarsi e dispiegare appieno tutta la sua forza.
Viviamo una crisi di crescita; come tutte le crisi suscita fermenti contraddittori fra conservazione ed innovazione. Attraversiamo perciò una fase che, sono certo, si aprirà ad un rinnovato slancio autonomistico nel cui orizzonte, indicato per altro dai Padri fondatori, si vanno definendo con crescente incisiva precisione le linee di una moderna democrazia federalista.
Mario Melis