Articolo sul Partito Sardo d’Azione – 1999

Il Partito Sardo d’Azione si prepara al suo congresso per il mese di marzo. La pubblicistica prevede scissioni disgreganti e taluno, dalle colonne di un autorevole quotidiano, sollecita chiarimenti pacificatori per scongiurare la diaspora.
Non so, tutto è possibile, ma per quanto mi è dato capire non vi sarà alcuna scissione perché, se proprio la si vuole definire così, è già avvenuta. Scissione comunque è un nome grosso, sproporzionato, dato che tutto si riduce a qualche centinaio di militanti che di fatto sono già usciti dal Partito. Infatti hanno assunto posizioni politicamente rilevanti in contrastato linea e conseguenti scelte della dirigenza.
Mi sia poi consentito di amaramente sorridere sull’enfatizzazione giornalistica relativa ad un presunto confronto fra posizioni, ideologicamente inconciliabili, all’origine di questa scissione. Evidentemente chi scrive queste cose fa ricorso per comodità letteraria, o per altro, a categorie concettuali che hanno ben scarso rapporto con la realtà. Questa evidenzia, ormai da anni, una crescente crisi che ha tormentato ii Partito inaridendone le sorgenti politicamente pensanti, per l’insorgere di contrapposizioni personali che, con il patrimonio di valori posti a base della sua fondazione e delle esaltanti battaglie affrontate in oltre settant’anni di storia, non hanno proprio nulla a che fare.
L’oggetto del contendere non s’incentra né sulla riforma dello Stato, né della Regione o sul ruolo delle comunità locali, sulla politica energetica, marittima o sulla disoccupazione (od altri temi di grande attualità e rilevanza), ma più semplicemente sul fatto che alcune persone che da qualche anno determinavano la linea del Partito nominando, revocando, sostituendo ed espellendo dirigenti, hanno dovuto prendere atto di aver perso tale potere per cui, per continuare a primeggiare, hanno assunto ed operato scelte preparatorie all’uscita dal Partito, in necessario contrasto con le direttive degli organi di Partito ed, in particolare, con il deliberato dell’ultimo congresso che ha confermato alcuni punti cardine cui attenersi nel fare politica sardista. Fra le altre quella di schierarsi a sinistra, non già per accodarsi ai partiti che tali storicamente si definiscono, ma per riaffermare una linea di cambiamento rispetto al conservatorismo incancrenito delle destre.
Voglio chiarire che fare politica di sinistra oggi in Sardegna per noi significa schierarsi a difesa di un popolo che vive l’iniqua emarginazione praticata dai governi dello Stato in misura e forme diverse da oltre 130 anni, determinando sottosviluppo, disoccupazione, emarginazione, dissanguamento finanziario, sottocapitalizzazione dell’imprenditoria e così continuando. Per fronteggiare mali strutturali così profondi e diffusi, il Partito Sardo, schierato da sempre contro questo insieme di fattori negativi non postula certo i piani quinquennali di staliniana memoria, ma una politica dinamica che lungi dal fare guerra al capitale (anche perché è proprio il fattore vitale che manca nell’economia sarda) né sollecita l’afflusso attraverso investimenti, governati dalla Regione, ma in larga misura, di provenienza esterna. Ecco perché, sin dal primo costituirsi del Partito ci si è sempre battuti per la zone franca sarda, istituto considerato strumento funzionale allo sviluppo dei paesi ove la povertà è endemica, ma anche nei paesi della ricchezza realizzata proprio in virtù della zona franca ivi operante da secoli: Amburgo, Brema, Rotterdam, Anversa. Le esperienze sono così positive che molte economie nel mondo – soprattutto dopo gli anni Ottanta – vi stanno facendo ricorso. Si pensi ai circa duecento punti franchi degli Stati Uniti d’America, alle decine fioriti nel territorio francese, in Inghilterra, Irlanda, per non parlare della Cina comunista.
Politica delle imprese quindi come fattore capace d’imprimere attraverso fantasia creativa, professionalità, studi di mercato ed alleanze nazionali ed internazionali, un ruolo dell’economia sarda cui la collocazione nel Mediterraneo offrirà vigorosi impulsi sia nel vitale settore marittimo che aereo: settori suscettibili di grandi potenzialità di sviluppo internazionale, data la centralità geografica della Sardegna.
Ciò risponde per altro agli indirizzi del padri fondatori. Non è male ricordare che Camillo Bellieni nel 1922 scriveva “Come altrove abbiamo già detto, il nostro autonomismo è preparazione all’internazionalismo, non in nome di un astratto ideale umanitario, ma come accordo d’interessi per la creazione di una forma statale che superi le attuali divisioni nazionali”. Tutto quanta abbiamo detto presuppone uno Stato profondamente innovato.
La crisi dello Stato centralista, travolto da inefficienza, corruzione, elefantiasi frustrante e defatigante ha aperto il confronto sulla sua riforma, meglio sarebbe dire: rifondazione. Mentre con la riforma si migliora l’esistente con la rifondazione lo si cancella per creare un’istituzione nuova, moderna, dinamicamente democratica.
Cambia, come oggi si usa dire, la filosofia. Il potere sovrano non cala più vertici soggiogandone i cittadini, ma nasce come diritto primigenio dei cittadini medesimi che decidono in piena libertà quali istituzioni darsi per il buon governo sia in sede comunale che regionale e federale. Fermo restando che agli enti locali vengono riconosciuti tutti i poteri amministrativi, nell’ambito dei rispettivi territori ed alle Regioni potere legislativo, di programmazione, vicario e di controllo riducendo all’essenziale i compiti di pura gestione, al governo federale andranno riconosciuti i poteri che per loro natura non possono essere decisi e praticamente risolti a livello locale.
Il Potere federale è, di norma, comprensivo di Governo, Parlamento, Corte Costituzionale e Capo dello Stato. Ebbene ii Parlamento di uno Stato così concepito è bicamerale: una rappresentativa del cittadini, costituita da un numero di rappresentanti regionalmente proporzionato al numero dei votanti, mentre la seconda, è pariteticamente rappresentativa delle Regioni (due per ciascuna Regione). La Corte Costituzionale è, infine, composta da giudici eletti in numero paritetico dalle due Camere. Il Capo dello Stato può essere eletto dal Parlamento o direttamente dal popolo, come in America.
Ebbene questa è la linea da sempre proposta dal Partito Sardo: Stato Federale intuito e coraggiosamente sostenuto nel secolo scorso da due grandi sardi: Giovanni Battista Tuveri e Giorgio Asproni.
Torniamo al Congresso. La linea del Partito l’abbiamo illustrata, non sarà certo contestata. Loro forse a parole la migliorano ma la politico che stanno praticando li allontana da questa linea anni luce.
L’aver, con il voto di un consigliere regionale, l’on. Efisio Serrenti eletto nelle liste del Partito Sardo, fatto cadere una giunta della quale facevano parte due assessori sardisti, non già in base ad una esperienza dimostratasi negativa, ma prima ancora che assumesse la responsabilità di governo e favorire, sempre con il determinante voto del consigliere sardista, una giunta della quale fanno parte personalità di Alleanza Nazionale e un forte nucleo di Berlusconiani, dimostra come siano lontani anni luce dai valori del sardismo.
Alleanza Nazionale è la discendente, riveduta, corretta (e migliorata) del residuato ideologico fascista espresso sino ad ieri dal Movimento Sociale italiano.
Non discutiamo le persone, che rispettiamo, né la legittimità democratica, ma dobbiamo confermare che si tratta di una forza politica antitetica al sardismo. Del Berlusconismo poi che dire? Un partito nato, alimentato, finanziato da un grosso operatore economico che dopo aver beneficiato largamente del favori dei governanti della prima Repubblica (i giudici dicono anche colluso) vorrebbe sommare, nella persona del capo-finanziatore, oltre il massimo potere economico anche quello di governo.
Secondo i dati ufficiali, è l’uomo pi ricco d’Italia; dispone di aziende diverse, nell’edilizia, nell’editoria ma, soprattutto, dispone del più vasto ed articolato sistema d’informazione privato italiano: giornali e televisioni. Una concentrazione di poteri mai verificatasi prima nella storia italiana.
Questo signore sembra molto interessato alla Sardegna. Ha dichiarato che il suo avvenire è nel turismo e che ci creda non c’è dubbio. Ha in atto una grossa iniziativa turistica accanto alla Costa Smeralda, ricoprire le colline antistanti il mare di Cugnana di case che chiamerà Olbia 2. E il Sindaco – del suo partito – è d’accordo.
Diamogli la Regione, siamo certi che apprezzerà Arbatax, Villasimius, Bosa, Santa Teresa e così continuando. Il Presidente della Regione e la Giunta che potranno fare: dirgli di no? Perché come li ha creati li distrugga?
La Sardegna diventerà così l’eden dei vacanzieri serviti dai camerieri sardi. Crediamo anche noi alla rilevante potenzialità del turismo, ma la consideriamo componente di un complesso economico ben più articolato nel quale i sardi saranno produttori d’industria, agricoltura, tecnologia, cultura, in un contesto internazionale che ne fa dei protagonisti e non dei camerieri.
Chi vuole vada pure a celebrare il nuovo principe. Lui accetta tutti. Da Bossi, che chiamava Giuda, a Pannella che, per la vocazione alle droghe libere, definiva sacerdote di morte. Figuriamoci se non accetta sardisti convertiti. Per noi non sono esperienze nuove. È capitato anche con un altro uomo potente: Mussolini. Anche allora si sono trovati sardisti che lo hanno seguito.
Quello, almeno, non perseguiva interessi personali ma la gloria dell’onnipotenza. Sappiamo com’è finita. Quanto sarebbe opportuno riflettere ed imparare dalla storia.