Il problema politico è di vedere se esiste equilibrio nella distribuzione istituzionale del potere o se vi sia un prevalere prevaricante a favore di alcune istituzione a danno di altre.
Noi, sardi, abbiamo vissuto in Italia l’esperienza comune alle minoranze inglobate negli Stati nazionali formatisi sulle ceneri degli Stati aristocratici dissoluti dall’empito rinnovatore della Rivoluzione Francese; all’imperio statico ed assoluto del principe e della ristretta fascia sociale di aristocratici, che ne legittimavano il perpetuarsi, è succeduto, con prorompente vitalità, l’ingresso nella vita pubblica delle grandi masse costituenti il fermento dinamico del pluralismo assicurato dalle molteplici componenti sociali della nascente borghesia.
Nel fervido definirsi delle linee guida dello Stato borghese è prevalsa la corrente giacobina che, per meglio e più efficacemente controllare il moltiplicarsi delle nuove attività economiche e culturali oltre che i nuovi equilibri sociali tra i ceti che si contendevano primato e ruoli dirigenti nell’ordinamento dello Stato, ha sostenuto l’avocazione di tutti i poteri decisionali ai vertici di questo.
Venne così sconfitta la proposta girondina che assumeva per contro l’esigenza di diffondere ii potere decisionale nel territorio investendone le popolazioni, sì da renderle così protagoniste responsabili del proprio sviluppo, riservando al potere centrale la competenza in ristretti ambiti che, pur rilevanti, erano limitati a settori d’interesse generale quali politica monetaria, difesa dello Stato, affari esteri, oltre funzioni interne di coordinamento, indirizzo e controllo.
Va rilevato come la tesi giacobina finisse con il privilegiare i poteri forti radicati di norma nella società urbana, sacrificando e sottomettendo l’economia rurale, il mondo delle campagne, espropriato di poteri e ruoli e ridotto a ruolo subalterno e funzionale all’economia industrial-finanziaria della città.
Questa impostazione, affermatasi diffusamente in tutti gli Stati nazionali, è all’origine del gravi squilibri sofferti, non solo economici, altresì politici e culturali, in larga parte d’Europa e segnatamente in Italia.
Altro elemento che ha pesantemente influito nello squilibrato rapporto venutosi a definire all’interno della società, è costituito dall’emergere, all’interno di questa, della comunità etnica prevalente nello Stato che ne ha assunto i valori come i soli ammessi, vennero così vietate le lingue parlate dalle popolazioni insediate nei diversi territori ed imposta in essi la lingua dell’etnia dominante.
Così in Francia furono rifiutati nella scuola come nell’apparato pubblico il provenzale, il bretone, il corso, l’occitano, il basco, il catalano ed altre lingue imponendo a tutti l’uso del francese nella sua variante parigina.
Si volle in sostanza impedire lo sviluppo all’interno dello Stato delle diversità perché considerate potenzialmente disgreganti dell’Unità Nazionale. In effetti l’etnia dominante, divenuta depositaria del potere, ne ha preteso la difesa cancellando le etnie minoritarie attraverso un coattivo processo di assorbimento. Ciò ha potuto fare imponendo la propria cultura e quindi un modello di cittadino che ne esprime i valori. Attraverso la scuola di Stato e l’introduzione del servizio militare obbligatorio, ha educato per quasi due secoli le giovani generazioni a conformarsi all’archetipo di cittadino e di società coerente e funzionale agli interessi del gruppo dirigente.
In Italia questa visione costituzionale – sin da subito recepita dai Principi sabaudi – si è realizzata attraverso un’organizzazione territoriale del potere che ha espropriato le popolazioni e le loro istituzioni, sin nei più sperduti comuni, attraverso una rete capillare di funzionari presenti e operativi ovunque: prefetti, intendenti di finanza, proveditori agli studi, organi di polizia, quando non addirittura lo stesso esercito utilizzato in funzione repressive.
Ma la vocazione all’occupazione di tutti i momenti decisionali è un dato crescente ed inarrestabile degli Stati Nazionali tanto che in Italia per oltre vent’anni si è affermata al vertici dello Stato la dittatura Mussoliniana, in Spagna quella Franchista, in Germania la Hitleriana, in Portogallo il Salaziarismo e così continuando in Polonia, Romania e Bulgaria fra colonnelli, ammiragli e piccoli re sostenuti della presenze invadenti e repressive delle rispettive polizie.
Il ritorno alla democrazia, determinato non da rivolgimenti interni, (impotenti a fronteggiare i processi degenerativi della violenza centralista) ma dall’impatto di eventi internazionali quali la seconda guerra mondiale, ha favorito in genere miglioramenti di facciata quali il regionalismo italiano.
Pericolo in verità previsto e denunziato sin dagli anni Venti da Camillo Bellieni che in un profetico articolo del marzo 1922 così ammoniva il popolo sardo
“Autonomia è arte, è sapienza, è religione”, e avvertiva: attenti all’autonomia di facciata, “paravento dipinto di vari colori dietro il quale si nasconde la pesante macchina statale, quella che ci soffoca e contro la quale si è levata la nostra ribellione. Resterebbero immutate la circoscrizione con a capo il Prefetto, l’ordinamento finanziario che accentra i tributi nelle casse dello Stato.
Resterebbero i Ministeri del Lavoro, dell’Industria, dell’agricoltura, dei lavori pubblici, con le migliaia di impiegati a coordinare le regioni, a distribuire fondi speciali alla regione più potente e a quella più pericolosa, continuando l’attuale politica dei favori. La confusione delle competenze, delle funzioni, dei controlli nelle forme e modi attuali, sarebbe aggravata dall’Ente Regione”.
La Costituente ha affrontato ii tema del regionalismo considerandolo non il superamento della vecchia concezione statuale, ma una semplice riforma volta a realizzare poco più di un decentramento di poteri amministrativi e lasciando perciò intatte le vecchie strutture, da quelle prefettizie a quelle fiscali e di polizia, in un ruolo di defaticante contrapposizione e di sostanziale svuotamento del ruolo delle nuove istituzioni regionali.
L’ambiguità delle norme statutarie, la limitata ampiezza del poteri trasferiti e la precisa riserva in favore dell’intervento del poteri centrali anche nelle materie di esclusiva competenza regionale, trova puntuale riscontro nel dibattito svoltosi in sede costituente.
L’espressa ostilità manifestata dall’intero schieramento della sinistra (L’Italia in pillole di Pietro Nenni) ma soprattutto dei comunisti ha favorito ii consolidarsi delle posizioni conservatrici di cui, in nome della sacra unità della Patria, si erano fatte sostenitrici le destre largamente rappresentate da una forte ala democristiana, dai liberali di Nitti e Einaudi, oltrechè del M.S.I.
Significativo in proposito ii confronto, sempre in sede di Costituente, tra Emilio Lussu e Palmiro Togliatti; quest’ultimo si opponeva all’introduzione nella Carta Costituzionale di qualsivoglia riferimento al federalismo, e ciò in nome della storia italiana; puntuale la risposta di Lussu che ricordò a Togliatti come la storia del popoli sia storia delle citta, cioè del signori, che delle città fanno i centri d’irradiazione del loro potere, assoggettando a questo prima di tutto ii mondo rurale spogliato del diritto di concorrere a scrivere la propria storia.
I contributi di pensiero di personalità quali Piero Calamandrei e Leo Valiani, azionisti come Lussu, del democristiano Mortati sono caduti nella pietraia infeconda del centralismo statale per cui il regionalismo, è stato ristretto in ambiti marginali insuscettibili di incidere nelle scelte nazionali nel momento formativo della volontà legislativa. Nondimeno le istituzioni regionali si sono rivelate conquista irrinunziabile per le popolazioni che hanno ritrovato in esse momento orgoglioso di riaggregazione unitaria, esaltandone i valori etnici e culturali affermatisi nei secoli attraverso sofferti processi che sono diventati al di là degli obiettivi, luce di civiltà.
In effetti la Carta Costituzionale ha dato vita ad istituzioni regionali dal respiro corto destinate ad esaurirsi in attività marginali insuscettibili di modificare ii corso degli eventi.
È mio profondo convincimento che si volesse una riforma di pura facciata destinata ad una vita breve e stentata da concludersi nella silente delusione del fallimento.
Ma questa corrente di pensiero non ha tenuto conto di un fattore difficilmente controllabile e coercibile; un fattore immateriale vivo e vibrante nell’animo di ogni uomo; scaturisce dal legame profondo e misterioso che lega ogni essere vivente alla propria terra; un rapporto di generazione quasi tra madre e figlio che consente ai nati in un territorio ben definito di dar vita ad una Nazione, ad un legame cioè che li rende partecipi di valori che diventano culture, lingua, comunità di interessi, esperienze storiche, usi e tradizioni comuni.
Il ritrovarsi intorno ad una istituzione che gli restituisce questo rapporto vitale significa trascendere gli interessi materiali per impugnare la bandiera di una ritrovata identità.
Mai come in questo periodo i sardi hanno preso coscienza delle gravi minacce incombenti sulla loro cultura e quindi sulla loro identità.
In proposito sono luminose le pagine dedicate da Nereide Rudas al sofferto rapporto fra i sardi e la loro terra di cui avvertono la dolorosa nostalgia anche fra quanti non se ne sono mai allontanati.
L’anelito del popoli alla libertà da vivere in piena autonomia e, ove possibile, in feconda solidarietà con altri popoli, può soffrire le crisi del contingente ma non spegnersi. Posso capire la crisi del P.S.d’Az. che, nonostante la sua gloriosa storia, resta strumento di politica ma non del sardismo che è patrimonio irrinunciabile di ogni sardo.
La tendenza al diffondersi della regionalizzazione dei partiti in Sardegna, al di là del tatticismi strumentali, risponde all’esigenza di scrollarsi di dosso una subalternità che consapevolmente rifiutata dal popolo, comincia proprio nella militanza partitica, credo perciò che la classe autenticamente dirigente ed in particolare gli intellettuali, politici ed imprenditori che ricoprono ruolo protagonista si sentano chiamati all’impegno di lottare con il popolo per scriverne la storia rifiutandosi di subirla.
L’esperienza regionalista va quindi considerata altamente positiva quale tappa sofferta di un itinerario di libertà che pur senza esaurirlo consentirà al nostro popolo la piena affermazione dell’autogoverno. Siamo ben consapevoli che il processo storico all’origine di questa battaglia non postula automutilazioni separatiste ma l’emergere di una soggettività politica capace di autodeterminazione nella prospettiva di rapporti liberamente concordati ed operanti attraverso istituzioni legate solo dal reciproco bisogno di solidarietà.
Il clamoroso fallimento dello Stato Nazionale avviluppato nella rete vischiosa e inestricabile della corruzione, paralizzato do una burocrazia altezzosa, prevaricante quanto inefficiente, dimostra l’impossibilita di rimediare a tutto ciò con la semplice cosmesi riformatrice.
È la filosofia dello Stato che bisogna ripensare attraverso ii rovesciamento dell’organizzazione del potere che va riportato nella sede naturale che è il popolo.
La sovranità popolare dovrà esprimersi attraverso istituzioni in grado di definire nei diversi livelli comunali e regionali, in tutta la forza creativa, la capacità progettuale e realizzatrice dell’insieme degli interessi salvo quelli deferiti alla competenza di un potere centrale a motivo dell’ampiezza e rilevanza di questi.
Da sardista non posso che confermare l’impegno alla rifondazione dello Stato su basi federaliste.
Il concetto di “sovranità popolare”, non è una frase vuota di reale significato ma definisce una visione della comunità, una sua capacità di promozione dello sviluppo, un sistema di attività che coinvolge la partecipazione delle popolazioni, consapevolmente protagoniste di decisioni ad operosamente impegnate nella realizzazione di queste.
La sede del potere è quindi nella base popolare e come tale diffusamente presenta nel territorio ove sono insediate, in nuclei più o meno numerosi, le popolazioni. Il federalismo non si esaurisce infatti nell’architettura di un modello di Stato, ma fiorisce come volere individuale di libertà e responsabilità.
Non v’è coazione all’origine dello Stato federale ma reciproco bisogno d’integrazione, collaborazione, solidarietà.
Il federalismo innerva la sue struttura organizzativa per cerchi concentrici la cui ampia base poggia sulla volontà popolare e si esprime attraverso un’articolata struttura istituzionale che si diversifica in funzioni e competenze secondo specifiche vocazioni territoriali e per materia. La legittimazione all’operare di queste resta sempre la delega popolare. Dal Comune che assolve nell’ambito del proprio territorio all’espletamento di tutti i compiti amministrativi, alla Regione, cui sono riservati compiti meramente legislativi, di promozione, indirizzo, controllo ed esecuzione nel proprio territorio di disposizioni emanate dal Governo centrale nelle materie delle quali ha conservato la competenza.
In coerenza di quanto sopra, al potere federale incombe il compito di fare sintesi di tutti i valori presenti nelle diverse realtà dello Stato, elaborando la politica estera, la difesa nazionale, la politica monetaria e fiscale, concorrendo al riequilibrio socio-economico tra le diverse realtà territori ed umane oltreché collaborando con i singoli Stati federati nelle politiche di questi in materia di pubblica istruzione, amministrazione della giustizia e altre da definire in sede statutaria.
Debbo in proposito salutare i contributi di Alberto Contu, positivi per concretezza ad ampiezza di visione politica, il primo sull’organizzazione del potere nello Stato Federale il secondo nella definizione dello Statuto dello Stato Federale Sardo.
Ritengo di condividerne l’impostazione e lo spirito sia per quanto attiene i soggetti del potere legislativo in campo federale articolato su due camere, rispettivamente rappresentanti i cittadini dello Stato e le istituzioni federate pariteticamente rappresentate nella seconda camera.
Essenziale che a dirimere i conflitti di competenza tra Stato federale e federato sia un giudice terzo; una Corte costituzionale eletta in eguale numero di giudici da ciascuna delle camere parlamentari.
Presentazione dell’opera collettiva “L’Ora dei Sardi” Cagliari – 5 novembre 1999
26 Febbraio 2024 by