La crisi che ha investito i partiti politici fioriti nella resistenza e consolidatisi nel lungo corso della cosiddetta “prima Repubblica” ha origine nella crisi dello Stato, nella sue archeologica inefficienza, nel conservatorismo di una classe dirigente superata dal dinamico evolversi del processi economici, sociali, culturali e tecnologici che hanno profondamente innovato la vita del popoli intensificandone i rapporti internazionali.
La struttura piramidale del potere che caratterizza lo Stato italiano, strenuamente difesa del partiti rigidamente gerarchizzati con vertice pensante e base obbediente, ha creato un intricate sistema di sbarramenti al vitale sviluppo di una democrazia radicata nel territorio.
Contestualmente si sono diffusi, come una lebbra, su tutto il territorio nazionale, con le gerarchie di partito, centri di potere non paralleli ma sostitutivi delle istituzioni (Parlamento, Consigli Regionali, Comunali, Governo e Giunte) espropriandole di ogni capacità decisionale nel vasto campo delle politiche sociali ed economiche, ma altresì di quelle amministrative con particolare riferimento al grandi appalti di opere pubbliche, piani regolatori di grandi e piccoli centri e così continuando in tutti i settori ove circola denaro in libertà.
Tutto ciò è potuto avvenire in assenza di qualsivoglia controllo democratico, nel riserbo ovattato delle segreterie di partito che imponevano agli operatori economici da loro favoriti, cospicue tangenti finanziarie sollecitate a titolo di contributo per le attività di partito e, non di rado, dei suoi dirigenti.
Si sa, ii segreto è l’esatto contrario della chiarezza: favorisce un clima di onnipotenza prevaricante e minacciosa. Si è sviluppato perciò un sistema di corruzione diffusa, rigorosamente proporzionale alla forza del partiti che ha messo in serio pericolo la sopravvivenza stessa dello Stato, schiacciato da un debito pubblico astronomico e dallo sfiducia sdegnata della generalità del cittadini.
La delusione ha infatti travolto i partiti nazionali dissolvendoli, D.C., P.S.I., P.S.D.I. P.L.I. sono scomparsi dando vita ad una serie di rivoli in costante disconoscimento reciproco mentre il P.C.I., travagliato dal ripensamento critico sull’esperienza storica del comunismo russo e dei paesi satelliti, ha cancellato gran parte del suo patrimonio ideologico, rinunziando alla dittatura del proletariato a favore di una democrazia aperta al confronto ed in economia, accettando le leggi di mercato.
Coerentemente con tali premesse ha cambiato nome e simboli chiedendo ed ottenendo di entrare in organizzazioni internazionali socialiste prima disconosciute e accusate di complicità fasciste. Il nuovo soggetto politico cui hanno data vita: Democratici di sinistra ha anch’esso pagato il rilevante scotto della scissione a sinistra ancora radicata sull’ideologia comunista.
Solo i partiti regionali quelle Unione Valdoteine, Sud Tiroler Volk Spartei e il Partito Sardo sono sopravvissuti alla bufera dissolutoria che ha investito i partiti nazionali.
Il fatto è del tutto naturale visto che la crisi è interna allo Stato centralista cui i partiti regionali sono antitetici, in forme e per interessi diversi si battono per la rifondazione dello Stato su basi federaliste.
Il processo è così maturo che nel Nord Italia si sono sviluppate robuste correnti di opinione duramente contestatrici del potere centrale per affermare un generico, omnicomprensivo federalismo che, di fatto, quantomeno a parole, sconfina nel secessionismo.
Quanto questo sia seriamente voluto dal suoi dirigenti è tutto de verificare posto che lo sviluppo del Nord, in 130 anni dello Stato italiano
è stato possibile solo generando il sottosviluppo del Sud, sfruttandone,
quale colonia interna le risorse finanziarle, le materie prime e
all’occorrenza, la forza lavoro.
In effetti i movimenti nordisti, pur essendosi sviluppati nella protesta contro l’inefficienza dello Stato e le conflittualità nascenti da un’immigrazione massiva che sta modificando gli equilibri socioculturali preesistenti, sarebbe grave errore liquidarli come esplosioni irrazionali di razzismo secessionista.
È mia convinzione che alla base di una mobilitazione popolare così diffusa ci sia un bisogno reale di partecipazione democratica capace di coinvolgere le grandi masse nelle scelte politiche di cui sono protagoniste e a buon diritto legittime titolari. In ultima analisi – in prospettiva – sono forze di cambiamento in senso federalista dello Stato.
Come di norma avviene nel corso delle grandi crisi che sommuovono l’esistente determinando profondi cambiamenti, al centro degli schieramenti si aggruma la massa anonima del conformismo moderato che pur scontento dell’esistente ha paura del nuovo. II fenomeno in Italia ha preso il nome del Berlusconismo.
Un ammassarsi al centro, intorno ad un uomo che, dall’alto della potenza personalmente conquistata nel difficile ginepraio della Prima repubblica, appare al conformista, eternamente inappagato, il grande timoniere capace di condurre la barca dell’intreccio d’interessi di una borghesia, creativamente operosa ma pavida, nel porto delle sicurezze.
Ed il Partito Sardo?
Già, proprio all’appuntamento storico nel quale i postulati dei padri fondatori sono stati confermati dalla storia e si va sviluppando un vitale fermento volto a realizzarne gli obiettivi, il Partito Sardo, dopo aver avuto un vasto crescente consenso di opinione pubblica, sembra oggi disgregarsi in una crisi involutiva mortale.
La verità è che il potere espropriato alle istituzioni dai vecchi partiti imponeva loro un tipo di organizzazione interna fatta di tessere, gerarchie, correnti e frazioni per contendersi la dirigenza e quindi il potere.
Le ideologie che per l’innanzi costituivano ii momento alto della politica sono svanite e sostituite dallo scontro duro del potere. Le tessere hanno costituito la legittimazione del potere all’interno dei partiti
Il Partito Sardo non è stato indenne dal contagio.
Non si è capito che il Partito Sardo non deve, né può essere, un partito di potere posto che di questo dispongono in misura ben maggiore e determinante i partiti più grossi.
La sua ragione di vita è nell’originalità e nel coraggio della proposta politica nella capacità d’innovazione, nella sferza contro l’inerte accettazione della subalternità, nell’entusiasmo che apre, spalanca i cuori alla speranza ed all’impegno, nel vedere negli amici di partito non già pericolosi concorrenti ma generosi fratelli che affrontano con noi una battaglia per sconfiggere l’ingiustizia, conquistare per tutti libertà e benessere. Il potere è solo lo strumento della politica e non il suo fine.
L’autonomia è una fiammella che s’accende nel cuore di ogni cittadino per diventare fiamma ardente dell’intera comunità. È un valore dello spirito. Mercanteggiare questo con briciole di potere i cui vantaggi non vanno oltre le persone che ne dispongono e pochi capi elettori, produttori di tessere, non è solo tradire i grandi valori che stanno cambiando la concezione stessa dello Stato ma avviarsi al suicidio politico.
L’imminente congresso scioglierà i nodi di questo momento che sotto troppi aspetti conserva aree di un’ambiguità e d’incertezza, soprattutto di scarso radicamento nella dura roccia della coscienza sardista.
Ho fiducia che comunque ii sardismo riprenderà il suo travagliato ma esaltante cammino. Spero ardentemente che questo cominci con il congresso, ma – Partito Sardo o no – sarà comunque un momento di popolo. I giovani, pressati da una realtà che cammina sempre più veloce ed incalzante, sapranno riprendere con candore spirituale, forza morale e consapevole responsabilità, la grande strada indicata dal padri fondatori; strada ancora lunga, aspra ma affascinante e ricca di prospettiva.
Una Sardegna ed un popolo che in libertà, pace e solidale collaborazione con le genti di là dal mare, da pari a pari, dia il suo contributo per costruire la civiltà del futuro.