Caso Scomazon – Anni ’90

Ora che si sono spenti gli ultimi echi del clamore suscitato dalla sentenza che conclude definitivamente il giudizio sulla responsabilità di amministratori e funzionari regionali in ordine del caso Scomazon, ritengo necessario, quale maggior responsabile della politica regionale all’epoca in cui i fatti hanno preso avvio, proporre all’opinione pubblica alcune riflessioni.
Dato per scontato che nella pubblica amministrazione (compresa quella giudiziaria) sono possibili e, purtroppo, frequenti abusi, corruzioni, ladrocini, come dimostrano in modo clamoroso i casi denunziati in Italia, dal susseguirsi di tangentopoli milanesi, aostane, palermitane, spezine, romane ed altre, il problema è quello di individuare le responsabilità degli autori di tanto crimine per colpirli con estrema severità e, nel contempo, studiare procedure di tale trasparenza da rendere impossibile il loro ripetersi.
Il danno provocato da chi tradisce il proprio mandato nell’espletamento di un pubblico servizio non si esaurisce nella somma maggiore o minore di cui si appropria ma, ingenerando sfiducia nelle pubbliche istituzioni, contribuisce a destabilizzarle diffondendo disaffezione e disimpegno con effetti progressivamente paralizzanti.
Il danno si moltiplica in modo indefinito e disgregante. Il rimedio però non è quello di sparare sul mucchio ma individuare il responsabile e punirlo in modo adeguato.
Nel caso Scomazon è avvenuto esattamente il contrario. Il Sostituto Procuratore
della Repubblica, assumendo invero un tono predicatorio e vagamente giustizialista – in piena antitesi con il rigore processuale, che si realizza con l’incisività del bisturi e la discrezione monacale di chi serve la giustizia non per mestiere ma per vocazione e scelta di vita, ha trascinato in giudizio un’intera giunta regionale (quasi che tutti gli assessori dovessero passare il loro tempo a controllare Scomazon), abbandonandosi ad espressioni di basso gergo qualunquistico quali “cosiddetti politici”, non certo usuali nel pur severo ma scabro linguaggio delle più diverse magistrature.
Tutto questo ha determinato ingiustificata confusione e smarrimento nell’opinione pubblica posto che i politici, salvo due (dirò poi perché), come gran parte dei funzionari sono stati assolti. Di più: ha scaricato sulla Regione un enorme onere di spese processuali che l’Amministrazione non avrebbe certo provocato se avesse potuto agire di propria iniziativa in sede di auto-tutela.
A questo punto viene spontanea una considerazione di natura costituzionale: chiunque proponga una domanda di condanna che i magistrati del giudizio ritengono infondata, è condannato nelle spese giudiziarie.
Tutti, dico tutti, compreso lo Stato quando promuove domande ritenute non accoglibili sono, di norma, condannati a rifondere le spese del giudizio. Vi è una sola eccezione alla regola generale: la Procura della Repubblica presso la Corte dei Conti.
Può promuovere tutti i giudizi che crede, paralizzare pubbliche amministrazioni,
sindaci, enti e quanti operano nell’ambito dei pubblici interessi senza gravarsi di alcuna responsabilità per tutti quei casi che risulteranno infondati in fatto e in diritto.
È una chiara violazione della norma costituzionale. Questa mia opinione è largamente condivisa da eminenti giuristi. Spero che qualche avvocato trovi modo di sollevare il problema sì da ricondurre ad unità le istituzioni operanti nel vasto campo della giustizia.
Detto questo voglio esprimere perplessità e amarezza per la riconfermata condanna di Luigi Cogodi e Giovanni Merella. Perplessità per il rispetto che comunque debbo ad una sentenza e a giudici ispirati, ne sono certo, dal convincimento di dare corretta soluzione al caso sottoposto alla loro valutazione; amarezza per la condanna di due galantuomini che, nell’espletamento del mandato politico e di governo, hanno profuso intelligenza, cultura ed operosità fervida passionalmente volta al riscatto del popolo sardo dalla condizione plurimillenaria di emarginazione economica e subalternità politica.
Sono personalmente testimone di queste verità e, per quanto riguarda Luigi Cogodi, del fatto che fu proprio lui – in verità contro il mio parere – dopo qualche settimana dal nostro insediamento a revocare a Scomazon, pur in assenza di specifici rilievi, l’incarico di economo regionale che cumulava con quello di cassiere.
Tremo all’idea di quali danni avrebbe potuto scatenare questo torbido individuo se avesse conservato il duplice ruolo assolto in precedenza. La mia amarezza è resa più viva dai grandi servizi che Cogodi e Merella hanno reso alla pubblica amministrazione, ampliandone i diritti nei difficili contrastati rapporti con il Ministero delle finanze e con i poteri dello Stato in genere.
Ricordo con quale tenacia, che sfiorava talvolta la durezza, Cogodi difendeva in Giunta le sue opinioni. Erano confronti serrati ma fisiologici e propedeutici a scelte sofferte e ragionate.
Sono stati condannati perché, quali Assessori alle finanze, avevano un rapporto
più diretto con i movimenti finanziari. Non discuto la correttezza giuridica – per altro sempre opinabile – del giudizio. Personalmente trovo il rilievo sommamente ingiusto convinto come sono che compito del politico sia quello di fissare obiettivi coerenti agli interessi generali e specifici delle collettività amministrate senza sostituirsi mai ai funzionari cui spetta il compito di darvi esecuzione, posto che ne hanno la cultura tecnica, la professionalità e responsabilità intellettuale e morale.
Il politico che si intriga nei compiti riservati ai funzionarti è, di norma, un faccendiere o, più semplicemente uno sbriga-faccende, preoccupato nel primo caso di favorire in modo illecito se stesso o i propri amici e, nel secondo caso, di tutelare, con l’autorità del ruolo, la propria immagine elettorale.
La Giunta da me presieduta, preoccupata di questa pericolosa commistione, su proposta dell’assessore Benedetto Barranu, varò una legge che sottrae agli assessori la firma sui singoli provvedimenti e ne responsabilizza i funzionari, restituendo così a questi dignità di ruolo ma anche severità di comportamenti.
Fare del politico un capo ufficio è non solo riduttivo del suo vero ruolo istituzionale ma altresì un’ipocrisia giuridica.
Voglio confermare pubblicamente a Luigi Cogodi e a Giovanni Merella la mia stima, certo di interpretare quanti fra i sardi ne hanno seguito l’opera intelligente, onesta
ed appassionata.