Il veicolo della cultura – Convegno Giornate irlandesi – Cagliari – 21 aprile 1988

Quando qualche settimana fa la nostra così fervida animatrice di questo convegno mi ha proposto di partecipare a queste giornate irlandesi, ho espresso il mio pieno consenso, non solo in virtù del principio che tutti i ponti che si realizzano, tutti gli incontri che si favoriscono fra esperienze, culture, realtà diverse, arricchiscono il popolo che le ricerca e rappresentano un momento propedeutico, essenziale, necessario per meglio conoscersi e quindi poter stabilire un momento nel quale l’umanità va cercando di intensificare questi rapporti, va cercando di superare le antiche tradizionali contrapposizioni, quelle che hanno segnato dolorosamente le storie dei popoli attraverso conflitti devastanti e sanguinosi e che pertanto debbono, nella prospettiva, superarsi attraverso forme nuove e moderne di democrazia internazionale e la cultura è certamente un veicolo possente per aprire nuovi spazi alla speranza, alla collaborazione, al dialogo. È anche in considerazione della specificità dell’argomento che ho espresso, senza alcuna perplessità né esitazione, la adesione mia e dell’Amministrazione Regionale.
Gli irlandesi hanno vissuto una esperienza difficile nel loro affacciarsi da popolo indipendente nella storia del nostro tempo. Hanno dovuto conquistare con sacrifici drammatici e difficili il diritto ad una loro democrazia libera scuotendosi di dosso non solo i condizionamenti e dominazioni esterne, ma anche forme terribili, disintegranti di sottosviluppo per cui, nel secolo scorso, una ideale turba — fisicamente però molto partecipata — di, dovrei pensare a giudicare dai risultati odierni, milioni di persone hanno dovuto lasciare l’Irlanda per cercare spazi di vita altrove. Si calcola che oggi negli Stati Uniti i cittadini americani di lingua irlandese di cultura, di origine irlandese sono trenta milioni. Evidentemente è stato un processo di diaspora che ha spinto questo popolo lontano dalle sponde del proprio mare. E in questa sofferenza vi è stato però l’impegno ad un anelito di libertà mai venuto meno, un anelito di libertà che ha portato nel ‘921 alla costituzione dello Stato Irlandese ad una presenza importante, determinante, che oggi si pone da protagonista nella creazione di nuove ipotesi di democrazia europea e che ha assolto nella storia dei popoli ad un ruolo emblematico; si ha il dovere di lottare per la libertà. Non ci si può nascondere, non sono soluzioni sagge quelle della rinunzia, non è buon senso l’evitare il momento della verità; la libertà non è oggetto di compromesso: o è oppure non è. E gli irlandesi lo hanno capito e l’hanno posto con grande fermezza nel contesto della storia, ricavando un loro spazio importante che, ripeto, nel ‘921 diventa istituzione piena. Io sono anche sentimentalmente legato a questa loro esperienza perché venivano chiamati gli «irlandesi» nel vocabolario internazionale perché erano inglesi di lingua irlandese che lottavano per l’indipendenza dell’Irlanda e, curiosamente, questi che si opponevano alla dominazione inglese venivano chiamati gli «irlandisti». Nel 1919-20, in Sardegna si formava un partito che lottava per l’autonomia della Sardegna, e questi, che non godevano della simpatia dei poteri costituiti e delle forze politiche che si ispiravano a questi poteri, venivano associati agli «irlandisti», e venivano chiamati «sardisti». Non erano i militanti di quel partito a chiamarsi tali, ma erano gli avversari che li chiamavano cosi, un po’ schernendoli e accostandoli a questa esperienza che era invece tanto esaltante e che tanto onorava coloro i quali venivano a loro accostati. Si, c’è questa esperienza, evidentemente sono valori diversi, sono obiettivi diversi quelli che perseguivano gli irlandisti o, nella nostra Isola, i sardisti, ma il valore reale di fondo è comune, è la libertà in tutte le sue implicazioni, in tutti i suoi valori, è la democrazia, è la possibilità di realizzare un mondo di civiltà nel quale ciascuno abbia il diritto di essere pienamente se stesso. Ed è curioso, che gli irlandesi abbiano, in questo secolo, espresso un fervore di cultura, abbiano conquistato le pagine più prestigiose della critica letteraria internazionale con uomini che oggi dominano la scena della cultura nel mondo: Joyce, O’Neill, Beckett, Yeats e così una fioritura di grandissimi che vede, più o meno nello stesso periodo sorgere in Sardegna il premio Nobel Grazia Deledda, che vede un Salvatore Satta, scrittore di grandissimo prestigio nazionale ed internazionale, che vede altre figure che hanno avuto meno fortuna sul piano della conoscenza, ma che, non di meno, avevano valori di cultura, di letteratura, di contenuti di grande, esaltante significato: come Sebastiano Satta, gli artisti, Ballero, Stanis Dessì, Floris, Ciusa lo scultore, considerato fra i più grandi scultori del nostro tempo nella cultura italiana, ma anche nella cultura mondiale. E però, negli scrittori irlandesi si sente la tensione del loro essere irlandesi, pur scrivendo in lingua inglese, anzi, quelli che hanno scritto in gaelico hanno poco rappresentato nel fare letteratura, quelli che hanno scritto in lingua inglese sono diventati delle figure di valore internazionale ma parlando di Irlanda, riscoprendo i valori profondi del loro essere irlandesi.
Come Grazia Deledda ha raggiunto l’universalità parlando di Sardegna, esprimendo il proprio mondo, i valori di questa cultura, di questa società, le sofferenze, i limiti, i condizionamenti, i ritardi di questa società. E così Sebastiano Satta, e così Salvatore Satta, e così Francesco Ciusa con la sua «Madre dell’ucciso», ad esprimere le sofferenze la spiritualità emblematicamente racchiusa nel dolore della madre dell’ucciso. Sì, vi sono delle storie parallele, i nostri rapporti con gli irlandesi sono stati certo molto pochi, sono esperienze individuali quelle che, in larga misura, accomunano la nostra storia di popolo alla loro. Nondimeno, vi sono dei parallelismi che hanno un loro significato e che meritano molta riflessione; lo ricordava il Sindaco, la civiltà delle grandi pietre, ma è questo mondo di allevatori di bestiame, di pastori, come noi siamo, pastori, anche noi veniamo dalla civiltà delle grandi pietre, anche i nostri progenitori lontani hanno affidato ai millenni il mistero della loro civiltà, della loro forza, questa incrollabile fiducia nella forza del loro diritto a continuare ad essere protagonisti.
Quando costruivano un nuraghe dovevano impiegare tempi tecnici di qualche secolo, ma non si scoraggiavano per questo, la vita delle persone trascorreva nel corso della esecuzione, ma avevano la certezza che altri avrebbero continuato. Questi popoli che hanno veramente aperto nel sacrificio, ma nella forza della loro spiritualità le vie del futuro.
Oggi il dramma non si è risolto e spesso siamo chiamati ad assistere allo svolgersi di episodi particolarmente difficili, laceranti, che esprimono ancora inquietudini che sono nel nostro tempo, e che dimostrano, non tanto, la violenza dei popoli, quanto l’incapacità di chi assume il ruolo di governo a dare risposte alle attese dei cittadini, perché i popoli vogliono vivere in buona armonia fra di loro, vogliono trovare soluzioni per collaborare insieme, non per scontrare. Sono spesso eredità antiche, concezioni superate di una statualità padrone che è incompatibile con le prospettive di una aggregazione sempre più ampia, ma sempre più fondata sulle realtà culturali specifiche, sulle diversità, sul diritto di tutti ad essere se stessi, per cui l’Europa più che sulla forza degli Stati, va realizzandosi sulla forza dei popoli, ed io credo, che all’Irlanda, che ha così significativamente contrassegnato questo arco di tempo, che è il nostro tempo, spetti un avvenire di serenità, di progresso, di benessere, in un rapporto sempre più integrato e sempre più aperto con gli altri popoli. E quello che io dico per l’Irlanda lo sento, lo avverto sempre più intensamente per la nostra terra, perché sia un avvenire di tutti nella pace, nella libertà, nella democrazia, che in fondo è la Patria di tutti i popoli.