Signor Presidente, gli appelli, i messaggi, le proposte grondanti sentimenti di pace che inondano le pagine dei giornali, le deliberazioni di partiti, associazioni, organizzazioni diverse in tutto il mondo, salvo le diffuse eccezioni genuinamente popolari, esprimono solo la cattiva coscienza delle potenze occidentali ed orientali, di null’altro preoccupate se non di neutralizzare una conseguenza – direi del tutto naturale, quasi necessaria – della loro politica fondata sul principio dell’egemonia e della reciproca prevaricazione.
Di che meravigliarsi se un dittatore cinicamente spregiudicato pratica per anni una manifesta politica di armamento, non certo determinata da motivazioni umanitarie, ma da dichiarati obiettivi di predominio su una vasta area territoriale, strategicamente essenziale per gli equilibri politico economici del mondo e degli stessi popoli che vi risiedono? Di che meravigliarsi se, in virtù di calcoli non meno spregiudicati di potenza, per conservare i privilegi in atto o per prevenire possibili pericoli rappresentati dalla politica destabilizzante praticata dall’islamismo fondamentalista di Khomeini e dalla potenza militare della Siria, Unione Sovietica e potenze occidentali hanno armato il dittatore iracheno fornendogli tecnologie di guerra che oggi minacciano di sterminare forse centinaia di migliaia di vite umane, distruggendo opere, infrastrutture e valori, retaggio di secoli delle infelici popolazioni coinvolte nel conflitto?
Il Parlamento europeo, se vuole essere all’altezza del suo ruolo storico nel condannare la guerra e il folle disegno di divaricante potenza di Saddam Hussein che questa guerra ha scatenato, deve con eguale inequivocabile fermezza condannare la politica egemonica posta in atto da quegli Stati preoccupati non tanto di aprire nuovi spazi alla crescita dei rispettivi popoli quanto di sacrificare ai propri interessi la libertà altrui sfruttando le altrui risorse e fondando su di esse il proprio benessere. La lebbra del colonialismo si espande con la subdola insidiosa pericolosità delle mille forme che va assumendo per meglio mascherare la profondità del male che produce.
Siamo chiamati a prendere coscienza di tutto questo e a scegliere fra continuare questa gara sfrenata nella politica di potenza, fondata sul segreto, sul potere della forza militare, sulla subalternità – e in questo caso, sconfitto un Hussein ne sorgerebbero altri, sempre più motivati e magari moralmente accettabili ma causa comunque di laceranti contrapposizioni, tanto devastanti quanto inutili, che sarebbero, in ogni caso pagate con il genocidio – oppure cominciare a riconoscere finalmente che tutti i popoli sono reciprocamente necessari gli uni agli altri. Nel reciproco scambio di risorse umane, di materiali, concepiti quali tesori di civiltà, sta un ordinato e felice futuro di lavoro e di progresso per l’umanità, un progresso che confini finalmente nel torbido passato le iniquità delle ingiustizie che contrappongono due parti dell’umanità, il nord della ricchezza e il sud dell’emarginazione e della povertà. Ma questo obiettivo si realizza nella pace, nella luce della pace, una pace che dobbiamo ricercare, costruire con il negoziato per far cessare l’inumano massacro che sta annientando il futuro di intere generazioni. Si offre alla Comunità – lo hanno detto i colleghi che mi hanno preceduto – un appuntamento storico per far sentire il peso della volontà europea come forza che, rinnovandosi essa stessa, apre nuovi e più sicuri orizzonti agli equilibri del mondo.
Crisi del Golfo – Parlamento europeo – 20 febbraio 1991
17 Giugno 2021 by