In effetti l’amico e collega Felicetto Contu ha già tracciato in larga misura le tematiche da me trattate nella relazione, per cui sarà mio compito riassumere quelle parti che non hanno avuto una trattazione analitica molto puntuale nella esposizione del collega Contu.
La relazione non era soltanto una relazione, era una relazione che conteneva anche una parte dispositiva che ha costituito oggetto di confronto molto serrato con le diverse componenti politiche del Parlamento Europeo che è stato oggetto di numerosissime, oltre ottanta, proposte di emendamento, in gran parte sostitutivo, abrogativo o aggiuntivo, qualcuna di queste proposte, che ha trovato in larga misura anche il mio consenso e del collega Raggio, e quindi la relazione approvata dalla Commissione, con la sua parte dispositiva che in larghissima misura è rimasta quella originariamente proposta dal sottoscritto salvo una quindicina di emendamenti che in rilevante misura hanno migliorato la relazione stessa soltanto in piccola parte ne hanno ridotto, come dire, l’ampiezza d’orizzonte, è stata poi oggetto di una vivacissima discussione nell’assemblea plenaria che l’ha approvata a larghissima maggioranza con il solo voto contrario dichiarato e motivato della destra fascista francese, cioè del gruppo di Le Pen che ha dato addirittura luogo a tutta una serie di scontri anche di carattere personale perché questa destra spesso appoggia i propri argomenti anche con insulti che hanno determinato reazioni piuttosto vigorose da parte dei colleghi.
Allora che cosa dire del tema regionale oggi in Europa. L’Europa e la comunità, non ha definito non ha concetto, una definizione di regione. Forse in rispetto dell’autonomia stessa delle singole forme che le regioni vanno assumendo nelle diverse realtà.
Basti pensare che anche noi in Italia abbiamo delle regioni a statuto speciale che sono diverse dalle regioni a statuto ordinario, è difficile ricomprendere le une e le altre nello stesso tipo di disciplina, e così per quanto riguarda le regioni spagnole che sono diverse a seconda che si parli di Andalusia o di Paese Basco o di Catalogna o di Estremadura, ma ci sono le regioni, sia pure amministrative, e con solo i compiti di programmazione economica in Portogallo, che hanno anche la partecipazione di una parte, quanto meno, di componenti eletti perché sono rappresentanti di enti locali, e abbiamo le regioni che hanno compiti di programmazione economica in Francia, non hanno poteri legislativi, esistono le regioni anche in Inghilterra, perché anche in Inghilterra hanno bisogno di fare sintesi per ampi spazi territoriali, sociali ed economici, di fare programmazioni economiche, ma non hanno altra funzione che questa e sono soprattutto gestite da funzionari dello Stato.
Difficile quindi, in Europa, assumere un concetto di regione, non di meno esistono le regioni ed esistono con funzioni, con poteri, con capacità che, all’interno dei singoli stati stanno diventando sempre più protagoniste e con queste la comunità sta dialogando e curiosamente i più regionalisti nella comunità non sono i parlamentari; solitamente nel parlamento italiano i maggiori regionalisti sono il senato e il parlamento più che il governo; i più regionalisti nella comunità sono quelli della Commissione, cioè del governo della comunità, perché il governo della comunità quando elabora i suoi programmi strutturali e ha bisogno di realizzarli deve dialogare con coloro che sono chiamati a dare attuazione a quei programmi e poiché i governi degli stati sono “unti” di accentramento di tutte le iniziative ma non hanno dimostrato sufficiente efficienza nel realizzare i programmi stessi, vi è una tendenza della comunità a dialogare con i destinatari finali dei provvedimenti, d’altronde anche le normative sono finalizzate alle regioni, fondo regionale di sviluppo europeo, fondo sociale europeo, finora sono tutte norme che tendono a innescare processi regionali e sono in genere studiati sulla base di piani regionali di sviluppo; ecco perché i maggiori regionalisti sono nella Commissione più ancora che nel Parlamento e ancor più che nel Consiglio, e le maggiori resistenze noi le troviamo nelle burocrazie statali soprattutto, nel Consiglio dei Ministri che invece ha una concezione più globale, più unitaria, e teme questa articolazione troppo diffusa di potere che, difficilmente, si riesce a ricondurre ad unità. Non di meno vi è una diversa visione del rapporto fra istituzioni regionali e territoriali e comunità che, come ricordava Felicetto erano considerate soltanto come spazi economici nei quali intervenire per determinare processi di riequilibrio, cioè le regioni erano prese in considerazione solo a fini assistenziali, le regioni ricche non avevano bisogno dello stimolo della Comunità Europea, tuttal’più ne avevano bisogno le regioni ex-ricche che subivano processi di de-industrializzazione, di crisi, per cui bisognava intervenire, l’obiettivo numero 2, cosiddetto, per restituire vitalità, vigore, tipo Genova oppure Stoccarda, mentre le regioni prese in considerazione sono le regioni ricomprese nell’obiettivo numero 1, cioè quelle travagliate da problemi di sottosviluppo nelle quali è necessario intervenire per determinare un riequilibrio con le regioni più avanzate. Quindi uno spazio economico e poco più, ma perché questo? Perché la regione, perché la comunità altro non era che il mercato che doveva stabilire un certo equilibrio tra le aree economiche nelle quali doveva operare, ma quando con Maastricht la comunità punta sull’unione politica e da mercato comune e da garante del mercato diventa governo politico del mercato, cioè governo politico dell’economia che quel mercato può sviluppare, e allora anche le regioni diventano un soggetto politico con le quali dialogare con tutta la dignità e il prestigio e la forza che le regioni esprimono con la loro capacità di governo dell’economia nell’ambito del proprio territorio, ma se debbono dialogare con la Comunità Europea non sono più governi locali, ma esauriscono il loro compito nell’ambito di rispettivi territori, ma diventano soggetti operanti in campo internazionale perché operano e danno i loro pareri e danno il loro consenso o la loro valutazione critica a provvedimenti che hanno valore e applicazione in tutta Europa. Ecco perché le regioni col trattato di Maastricht assumono un ruolo di rilevantissima importanza; vi è un salto di qualità perché, ripeto, non siamo più nel riequilibrio fra l’Ogliastra e il Campidano, fra il Campidano e le Barbagie tra le zone interne e le zone costiere; no, no stiamo parlando di un problema che riguarda lo sviluppo europeo, la politica europea, sia pure nell’ambito e nei limiti di tutta una serie di norme e di materie che vengono definite ma che non sono esaustive badate, perché? Perché la comunità dialoga anche col cosiddetto Comitato Economico Sociale e il Comitato per le Regioni, di cui vi ha già parlato Felicetto, per il quale io sono stato redattore e che è stato definito nella normativa prevista dalla mia relazione col voto del Parlamento di qualche giorno fa, di giovedì scorso, il Comitato delle Regioni può interferire su tutte quelle materie per le quali viene consultato, dalla Commissione e dal Consiglio dei Ministri, il Comitato Economico Sociale , quindi di più ancora, il Comitato delle Regioni di propria iniziativa può assumere un argomento e proporlo come tema di riflessione, di valutazione e di iniziativa, al Consiglio dei Ministri o alla Commissione, purtroppo non è previsto che dialoghi col Parlamento; il Parlamento nella mia relazione è il Parlamento ha approvato questo punto, rivendica anche un suo ruolo di rapporto diretto con le regioni, in particolare, la Commissione per le questioni regionali e per l’assetto del territorio che rivendica questa parte. Ma qual’è la parte debole di questo Comitato? Che il Comitato è frutto di compromesso tra centralisti e regionalisti, fra coloro che hanno paura del ruolo delle regioni e fra questi c’è il Parlamento che teme le regioni e le considera concorrenti nella gestione del potere comunitario, perché quanto più le regioni sono incisive nell’esprimere pareri che in qualche modo vincolino condizioni che indirizzino le decisioni della comunità, tanto minore sembra essere il ruolo del Parlamento, per cui, il Parlamento, conservatore di se e delle sue prerogative, tende a marginalizzare il ruolo delle regioni come componente di quel momento decisionale che finisce con l’essere quello della comunità stessa. Dicevo che il Comitato è frutto di un compromesso per cui si chiama Comitato delle Regioni, ma dev’essere composto da regioni ed enti locali, quindi a rappresentare gli stessi interessi vengono coinvolte istituzioni di tipo profondamente diverso tra di loro: i comuni e le regioni.
I comuni hanno compiti amministrativi, di programmazione nell’ambito del proprio territorio, compiti importanti, fondamentali; io mi sono politicamente formato nella lunga esperienza, prima di diventare consigliere regionale sono stato dieci anni sindaco e mi onoro di aver fatto quella esperienza che mi ha insegnato il 90% delle cose per le quali ho potuto poi affrontare responsabilità non più alte, di tipo diverso, ma non confondo il ruolo del sindaco del comune con il ruolo delle regioni, che è un ruolo legislativo, che è un ruolo di governo, che è un ruolo di indirizzo, di sintesi, di contemperamento degli interessi diversi di, come dire, di mediazione di tutto ciò che all’interno di una regione va emergendo e spesso in conflitto interno tra le diverse aree economiche o sociali della stessa regione; se noi chiamiamo i comuni a gestire gli stessi interessi insieme alla regione, dico che disarticoliamo quella visione di sintesi e rischiamo veramente di vedere realizzarsi l’antico detto “Divide et Impera”. Sì, è un frutto di compromesso, per cui io non farei grande affidamento sul Comitato delle Regioni, io farei affidamento invece su quell’altra grande conquista che è la sussidiarietà, cioè questo concetto, in virtù del quale, tutto ciò che non è possibile risolvere, per la dimensione dell’impegno o per la natura di questo, a livello inferiore dev’essere deciso a livello superiore, ma, questo significa, questo dice il trattato di Maastricht, questo significa che tutto ciò che può essere risolto nelle istituzioni di base dev’essere risolto e deciso nelle istituzioni della democrazia di base, ma, a chiarire meglio questo punto vi è quella affermazione che è nel preambolo del trattato di Maastricht che dice: “le decisioni debbono essere assunte il più vicino possibile al cittadino”, è chiaro che il più vicino possibile al cittadino non è il governo dello Stato, non è il governo della comunità, il più vicino possibile al cittadino è il comune, quindi il comune è coinvolto nella sussidiarietà, nel processo di sussidiarietà e la regione, la regione è coinvolta nel processo di sussidiarietà, ma si dice, no, perché il trattato di Maastricht dice che la sussidiarietà opera tra la comunità e gli stati, ma non parla di regioni, non parla di comuni, e questa è l’interpretazione letterale della norma comunitaria, della norma del trattato. Ma la verità è che allora si parla di Stato-persona non di Stato-istituzione.
Lo Stato istituzione è la sintesi di tutte le istituzioni che sono presenti nello Stato.
Giustizia, perché, nella relazione era previsto uno specifico capitoletto o paragrafo, si chiamano così nel linguaggio comunitario, nel quale si diceva espressamente che; “le regioni hanno diritto di difendere le loro prerogative e competenze davanti alla Corte di Giustizia”, senonché con un’iniziativa di un socialista tedesco, il collega (Teller?), la Commissione a maggioranza ha disposto la soppressione di questo emendamento. L’Assemblea l’ha ripristinato non esattamente nella forma molto specifica e greve con la quale l’aveva previsto il relatore, in una forma più generica ma è detto chiaramente, “che le regioni possono accedere alla Corte di Giustizia per tutelare le loro competenze”. Chi è il proponente? Lo stesso (Teller?), lo stesso che mi aveva proposto la soppressione in Commissione, l’ha riproposta, naturalmente col parere favorevole del relatore, è stata approvata a larghissima maggioranza , quindi le regioni potranno difendere le loro prerogative che venissero in qualche modo invase dalle iniziative comunitarie. Ecco, le regioni, lo ricordava Felicetto, possono partecipare al Consiglio dei Ministri laddove il governo dello Stato deleghi un rappresentante della regione. Debbo dire che, ai tempi della C.E.C.A. spesso gli assessori regionali sardi venivano delegati dai ministri a rappresentare il paese, gli assessori regionali della Sardegna hanno spesso rappresentato l’Italia quando si discuteva di miniere, il ministro dell’industria diceva all’assessore regionale all’industria della Sardegna: “vai tu a Bruxelles e discuti tu con il commissario o con i funzionari, perché la maggiore competenza e il maggior interesse nella materia era dell’economia sarda a difendere quel settore. Sì, noi abbiamo molti temi ed interessi. Bene, questa possibilità l’abbiamo ancora, però badate, non è tanto la comunità europea che ci da questi poteri, ce li dovrà dare la costituzione dello Stato italiano,cioè le regioni debbono prima di tutto lottare: le regioni italiane, la regione sarda, dovranno lottare perché all’interno dello Stato italiano si disegni una nuova costituzione che ampli gli spazi e gli orizzonti della democrazia, consenta queste nuove istituzioni che hanno profondamente innovato nello Stato, di avere un ruolo veramente innovatore e protagonista e che si assumono le responsabilità; il problema dell’autonomia è legato al problema delle responsabilità, come tutti i diritti hanno senso se sono correlati al dovere, diritto-dovere si dice, e così è l’autonomia.
L’autonomia comporta anche responsabilità e responsabilità importanti, questo di essere deresponsabilizzati da uno Stato dispensatore, assistenzialista, finisce con l’uccidere l’autonomia perché uccide la responsabilità; ecco allora, che noi abbiamo il dovere di rivendicare una autonomia speciale in relazione alla specialità della nostra condizione, in relazione alla specialità del nostro rapporto, della nostra storia, della nostra soggettività etno-storica, di tutto un complesso di fatti e di elementi che in tutta l’Europa sono tenuti nella massima considerazione e nel più grande rispetto in relazione alle diverse componenti dei singoli stati. Ebbene tutto questo potrà essere un fatto importante. Io credo che noi stiamo per affrontare una delle crisi più difficili della nostra storia, perché abbiamo raggiunto un tenore di vita, un livello di consumi, un insieme di valori che sono gravemente minacciati da una crisi economica, da una crisi istituzionale, da una crisi morale veramente di difficile governo. Abbiamo dei grandi doveri che la storia ci chiama ad affrontare. Ci sono due fattori nuovi in questo secolo nella vita dell’Europa, uno è la comunità, le altre sono le regioni. A queste due istituzioni preesistevano i comuni e gli stati. Oggi ci sono le regioni e la comunità, ma ciascuno a partire dal fatto continentale al fatto non locale o al fatto territoriale, che diventa rilevante ed essenziale, ciascuno deve trovare in se le risorse per il proprio sviluppo. Noi abbiamo nella nostra centralità mediterranea una grandissima forza non facciamoci insegnare da Tiensin e da Canton che cos’è la zona di libero scambio, che cos’è la zona franca, quella che avevamo un secolo fa e che come unione perfetta abbiamo distrutto. Non facciamoci insegnare che cos’è la zona franca, sto parlando naturalmente, è una definizione ormai superata come formula economica si parla di defiscalizzazione, si parla di riforme del fisco, di esenzioni fiscali. Non facciamoci superare veramente da tutto quanto sta marciando; Genova oggi ce l’ha, ce l’ha Napoli che sta realizzando un interporto gigantesco a 20 Km dal suo litorale, ce l’ha Venezia, noi no, non ancora, ma è difficile che noi possiamo avere uno sviluppo che altri ci regalano se non ce lo costruiamo noi.
Ma, molto rapidamente, purtroppo non è semplice parlare in Europa di questi temi e di questi argomenti perché la risposta che ci da il Consiglio dei Ministri così, come la Commissione, è che sono problemi interni agli Stati che ogni Stato risolve in piena autonomia nell’ambito della propria costituzione e che vi sarebbero interferenze del tutto illegittime da parte della Comunità, se la Comunità pretendesse dì dire all’Italia: tu rendi legittimi l’insegnamento del sardo nelle scuole sarde,o l’uso del sardo nei tribunali, negli uffici pubblici ecc. , perché questo non consente né il trattato di Roma né il trattato di Maastricht. Ma è altresì vero che si è costituito nel Parlamento Europeo un intergruppo di difesa delle lingue meno diffuse. Io faccio parte di questo intergruppo e ne seguo i lavori, e poiché ci si alterna alla presidenza con turni di tre mesi, durante un periodo estivo sono stato presidente anch’io, dico periodo estivo perché non mi ha dato molte possibilità, perché l’agosto è un periodo di totale paralisi e luglio altrettanto, settembre si riprende. Non di meno alcune iniziative le abbiamo prese e tutte le iniziative che sono venute dalla Sardegna per valorizzare in qualche modo la cultura sarda hanno trovato modo di essere finanziate dallo statuto di, non ricordo il cognome adesso, (su Is Launeddas?) che è uno studio importante che è stato finanziato in quella occasione ad altre come (Papiros?) e così via, hanno trovato particolare, benevola accoglienza da parte della comunità su segnalazione di questo intergruppo. Il riferimento che però è stato fatto a una deliberazione dell’81 su iniziativa dell’onorevole Cuipers, che è un fiammingo e che ha posto tutta una serie di temi che non il consiglio d’Europa, ma il Parlamento Europeo ha approvato e che ha trasmesso poi.
Io non facevo parte del Parlamento Europeo, ho avuto questa relazione di Cuipers e quella ho letto. E ricordo che da lì nacque anche quel convegno che fu finanziato per un terzo dalla Comunità Europea e per due terzi dalla Regione Sarda e mi onoro di dire che allora ero il Presidente della Regione Sarda e che sostenni con tutte le mie forze, contro il governo dello Stato Italiano che si rifiutò di dare il suo alto patrocinio e lo rifiutò anche al Presidente della Repubblica, che era Cossiga, il quale mi disse: “caro Mario, io non posso dare il mio alto patrocinio perché lo posso dare solo su sollecitazione del Presidente del Consiglio che, per quanto stimolato a darmelo non me lo ha dato”, e quindi si svolse col patrocinio e il finanziamento della Comunità Europea, ma nel silenzio e direi nell’ostilità dello Stato Italiano, ma finanziato dalla Regione Sarda.
Certo noi facciamo quello che possiamo, io so che ho ricevuto una bellissima lettera dal Presidente della Generalità catalana.
Contrariamente a quello che pensano molti che la nostra presenza in Europa aumenterà sempre più il divario tra le regioni ricche europee e le regioni povere e quindi la Sardegna; io sono convinto, invece, che a lungo andare la nostra presenza in Europa potrà migliorare il livello della nostra economia, ma sono altrettanto convinto, ecco perché prima, nel primo intervento ho parlato di un adeguamento, di una migliore preparazione da parte nostra per questo nostro confronto, per questa nostra presenza nell’Europa, sono però altrettanto convinto che noi ancora non siamo sufficientemente attrezzati per essere presenti come dovremmo essere presenti in Europa. Ha ragione l’amico Raggio quando ha detto che, quasi quasi, occorre reinventare l’autonomia, ha ragione quando dice che occorre anche e soprattutto che si parli non solo di sussidiarietà, ma anche di partecipazione. Qualcuno, non ricordo chi, ha suggerito anche di solidarietà, ma io credo che la partecipazione, se fatta in una certa maniera, sia già un concetto abbastanza accettabile per un iter di questo genere. Vi è, in conclusione, a mio modesto avviso, il problema che non si può enucleare la Sardegna dal resto delle altre situazioni che esistono in Europa che sono consimili oggi, la depressione che abbiamo in Sardegna la abbiamo anche in altre regioni; esistono problemi che, addirittura, non sono più neanche europei, ma sono addirittura mondiali, problemi del confronto dell’Europa col Terzo Mondo che indubbiamente finirà col comportare altre conseguenze nei confronti delle regioni più deboli, tutto questo certo ci deve spingere ad auspicare una maggiore consapevolezza da parte nostra delle problematiche esistenti.
Io non sono affatto convinto che noi non siamo attrezzati. Non è attrezzato chi culturalmente, intellettualmente, moralmente, politicamente non lo vuole essere e chi non vuole lottare e dice che è colpa delle istituzioni. Se noi non lottiamo, certamente le soluzioni non vengono, se noi lottiamo, vengono le soluzioni, modifichiamo l’istituzione, modifichiamo i rapporti con gli altri, creiamo le condizioni. Certo, nella nostra inerzia, nella nostra inattività sicuramente siamo sconfitti e l’istituzione è lì a testimoniare la sua inutilità, ma se noi sappiamo utilizzare con tutte le energie, con tutta la passione, con tutta la fede, con tutta la forza possiamo contribuire al cambiamento.