… Più grave è lo scollamento che tuttora si registra nei rapporti fra le Regioni e le Assemblee parlamentari. Nello scorso decennio, in coincidenza con la formazione e l’approvazione della legge n. 382 del 1975 e del decreto n. 616 del ’77, il Parlamento appariva ancora come il più naturale garante delle autonomie regionali; e, per conseguenza, la legislazione statale ordinaria veniva concepita come la sede più atta per concretare una tale garanzia, a fronte della funzione di indirizzo e coordinamento delle attività regionali, come esercitabile dal Governo. Viceversa, le esperienze degli ultimi anni stanno dimostrando che le stesse Camere prestano scarsa attenzione al soddisfacimento delle esigenze autonomistiche e vanno anzi approvando un sempre maggior numero di leggi invasive o compressive delle competenze regionali. E questo dato rafforza l’impressione, già molto diffusa, che i raccordi fra lo Stato e le Regioni esigano un vaglio preventivo sulla coerenza regionalistica dell’intera legislazione statale interessante le Regioni stesse.
a – Ora la strada maestra per assicurare questo tipo di valutazione e di compensazione delle istanze centrali e locali consiste nella prevista riforma del bicameralismo. Occorre, in altri termini, riprendere l’idea già formulata nel ’47 dal Progetto di Costituzione, trasformando il Senato in una Camera delle Regioni (salvo l’eventuale inserimento di rappresentati dagli stessi enti autonomi minori, secondo la proposta di legge costituzionale già presentata nella scorsa legislatura e poi ripresentata il 2 luglio 1987 dagli on.li Bassanini e altri).
Malgrado il dibattito sul bicameralismo sia tutt’altro che concluso, si può ben dire che almeno tre punti sono stati fissati e messi in luce:
primo, che il Parlamento dovrebbe conservare una struttura bicamerale, essendo nettamente minoritarie le proposte monocameralistiche;
secondo, che tale struttura dovrebbe però assicurare la differenziazione funzionale delle due Camere;
terzo, che al Senato andrebbe in ogni caso attribuito un ruolo forte e spiccato, evitando in partenza il rischio di introdurre un bicameralismo di mera facciata.
Ed è appunto in questo quadro che la progettata Camera delle Regioni verrebbe a collegarsi armonicamente; sicché la richiesta d’istituirla non appartiene affatto al regno delle utopie costituzionali, come stanno d’altronde a dimostrare le prese di posizione assunte in tal senso negli ultimi tempi, ben oltre lo schieramento regionale.
Resterebbe da vedere se la composizione di tale Assemblea debba essere rappresentativa delle sole Regioni od anche dei Comuni e delle Province; se entro le Regioni stesse la potestà elettorale debba spettare ai Consigli od alle Giunte od ad entrambi pro quota; se, conseguentemente, vada mantenuto l’attuale bicameralismo perfetto o sia viceversa necessario sottrarre al Senato determinati poteri e funzioni, per riservarli alla Camera dei Deputati (a cominciare dal rapporto di fiducia fra il Parlamento e il Governo). Ma le Regioni non ritengono opportuno pronunciarsi fin d’ora su questi specifici punti, purché resti ferma l’esigenza di creare una seconda Camera che formi un effettivo strumento di integrazione della rappresentanza e di garanzia politica delle autonomie territoriali.
b – Rimane del tutto subordinata, a questa stregua, la richiesta di rafforzare il ruolo già spettante alla Commissione parlamentare per le questioni regionali. Va comunque ricordata la proposta – manifestata dalla Commissione stessa in un documento del dicembre 1984 – per cui nuove norme regolamentari, conformemente adottate dalla Camera e dal Senato, dovrebbero attribuirle il potere di esprimere pareri, obbligatori ma non vincolanti, quanto ai disegni ed agli altri progetti di legge statale che incidessero sulle autonomie delle Regioni: il che non imporrebbe – secondo il citato documento, condiviso sul punto dalla Conferenza dei Presidenti – alcuna revisione costituzionale. Per contro, l’adozione di apposite norme costituzionali sarebbe indispensabile, sia che si volessero inserire in quel collegio i Presidenti di tutte le Regioni, come già suggeriva la Commissione parlamentare per le riforme istituzionali (e come le stesse Regioni riterrebbero congruo), sia che s’intendesse attribuire al collegio medesimo un proprio potere d’iniziativa legislativa.
c – Nelle precedenti parti di questo documento si è già ragionato di alcune auspicabili riforme del Titolo V della Costituzione. In sintesi, può essere ora ribadito che le Regioni ritengono comunque superate l’impostazione e la stessa terminologia dell’art. 117, primo comma della Costituzione: le quali riflettono un ordinamento amministrativo ormai largamente trasformato e rinnovato dalla legislazione ordinaria dello Stato. Di qui la richiesta di riscrivere il comma medesimo, tenendo conto delle nuove materie di interesse regionale, venutasi determinando nel corso degli ultimi decenni (con particolare riguardo ai molteplici profili della tutela ambientale): salva l’ipotesi di ritornare al Progetto di Costituzione rielaborato dalla Commissione dei 75 (ed approvato sul punto dalla stessa Assemblea Costituente, nella seduta dell’11 luglio 1947), che aggiungeva ai settori nominati dal primo comma tutte le “altre materie indicate da leggi speciali”, introducendo in tal modo un determinante fattore di elasticità nel riparto fra le competenze centrali e locali.
Alla proposta di revisione degli arti. 117, 118 e 119 Cost., si sommano anche richieste ulteriori, tendenti a coinvolgere le stesse Amministrazioni regionali nella prevista riforma delle istituzioni. Sotto alcuni aspetti si tratterebbe di modificare il Titolo V della Costituzione e le corrispondenti previsioni degli Statuti speciali: particolarmente allo scopo di consentire che delle Giunte regionali possano far parte soggetti estranei ai corrispondenti Consigli. Sotto altri aspetti, occorrerebbe invece ritoccare le “norme per la elezione dei Consigli regionali delle Regioni a statuto normale”, dettate dalla legge n. 108 del 1978: elevando a 40 il numero minimo dei Consiglieri ed alleviando in tal modo le difficoltà che i legislativi delle Regioni meno popolose incontrano nel loro funzionamento. Infine, potrebbe essere utile che alcune Regioni di diritto comune rielaborassero i loro Statuti (ed ottenessero la necessaria approvazione delle Camere), nelle parti riguardanti le funzioni consiliari, talvolta esaltate ed appesantite a dismisura, come pure la distribuzione delle competenze nell’ambito degli esecutivi.
Conclusivamente, la Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle Provincie autonome esprime la convinzione che il degrado dell’intero sistema politico italiano esiga rimedi pertinenti e coraggiosi. Alla riforma dei “rami alti” delle istituzioni si deve accompagnare la riforma dei “rami bassi” del complessivo ordinamento della Repubblica. Ma anche la necessaria revisione delle norme concernenti gli organi centrali di governo dev’essere effettuata in vista delle autonomie territoriali, cui vanno assicurati spazi adeguati e dignità politica. Diversamente, mancherebbe di effettività giuridica la fondamentale proposizione costituzionale per cui “la Repubblica riconosce e promuove le autonomie locali”, ed anche la riforma regionale, che pure ha rappresentato un momento centrale del quarantennio repubblicano, rischierebbe di subire una involuzione inarrestabile, tale da mettere in forse lo stesso fondamento giustificativo delle Regioni in Italia.
Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle Provincie Autonome – Roma – 11 marzo 1988
30 Aprile 2021 by