Il definirsi del Progetto Europa nel passaggio dal Mercato Comune all’Unione Economica e Monetaria nella prospettiva dell’unione politica, segna un processo evolutivo destinato a cambiare il corso della storia.
Popoli e Stati che pure hanno scritto incancellabili pagine di civiltà cesseranno di confrontarsi in una competizione conflittuale che ha dominato attraverso guerre di conquista e di sterminio i secoli del nostro lontano e recente passato e che continuano a seminare morte e distruzione nella tormentata famiglia europea.
L’angoscia delle popolazioni croate, massacrate dalla violenza dell’esercito serbo, sono la testimonianza più drammatica di quanto intendiamo lasciarci alle spalle per costruire, nella solidarietà e nella pace, una nuova e più grande Patria.
Solidarietà che si realizza nel libero incontro fra gli eguali per dar vita ad una democrazia che si arricchisce del contributo articolato e molteplice della diversità.
Un’Europa le cui frontiere non saranno più presidiate da poderosi eserciti, ma aperte al fecondo incontro di cittadini e popoli impegnati a costruire insieme la civiltà del 2000.
In termini istituzionali tutto questo si realizza nel federalismo: patto liberamente definito fra popoli in vista, non tanto e non solo di particolari obiettivi, quanto di reciproco bisogno di mettere insieme i comuni valori che, pur senza confondersi, divengono patrimonio e forza di tutti.
Oggi si discute se all’origine del patto federale debba individuarsi la solidarietà ed, in ultima analisi, un reciproco impegno di fedeltà, o più semplicemente, un contratto volto a realizzare al meglio i rispettivi interessi dei contraenti che restano pertanto liberi di recedere una volta che questi siano stati raggiunti.
Pur senza contestare la rilevanza delle motivazioni che supportano la seconda ipotesi, si osserva che a legittimarla resta solo la logica del mercato: la logica del più forte.
Va da se che l’Europa nella quale crediamo non è questa.
Nell’accingerci a definire l’architettura istituzionale nella quale dovranno trovare spazi di serena convivenza circa 400 milioni di cittadini europei dobbiamo chiederci perché sino ad oggi questi hanno vissuto nella precarietà delle tensioni internazionali ed intere generazioni sono state sacrificate nei primi 50 anni di questo secolo, in due atroci guerre di inaudita violenza.
Premesso che i rapporti internazionali fra gli Stati, in mancanza di ordinamento cogente e di una autorità in grado di imporne il rispetto, si inscrivono alla fase pre-giuridica nella quale, in mancanza di accordo, si giunge allo scontro armato, è da osservare che una tale logica ha dominato la politica degli Stati Nazionali formatisi sotto il duplice impulso da un lato della Rivoluzione francese e, per altro verso, da quella industriale.
L’esigenza di governare il dirompente diversificarsi delle attività sociali, delle nuove professionalità, dei ritmi produttivi e commerciali, del moltiplicarsi dei rapporti sociali e il contestuale emergere della tendenza all’internazionalizzazione della produzione industriale ha stimolato il formarsi di poteri statali sempre più accentratori e verticistici in nome dei supremi interessi del Paese.
La conquista di nuovi mercati, l’esigenza di non essere sopraffatti dall’invadenza estera, l’albagia di asservire ai propri interessi popoli e territori da colonizzare, ha trasformato gli Stati europei in poderose macchine da guerra e di conquista cui tutti gli altri interessi sono stati sacrificati e sottomessi.
In tale contesto le Minoranze Nazionali vengono espropriate dei loro diritti naturali, costrette ad un conformismo piatto e prevaricante e private del patrimonio che ne hanno fatto e ne fanno soggetti politici unici ed irripetibili nella storia delle umane civiltà.
Se vogliamo realizzare un’Europa democratica, moderna e dinamica non solo nelle sue strutture operative ma aperta alle esperienze storiche e culturali capaci di esprimere tutta la forza delle diversità, dobbiamo ripensare criticamente alle passate esperienze e dar vita a nuove forme di partecipazione che vedano finalmente i popoli protagonisti della storia futura.
Si vuole cioè sottolineare il fatto che ben difficilmente possiamo ipotizzare un’Europa se non ne modifichiamo i presupposi sui quali fondarne la legittimazione politica.
Gli Stati dovranno modificare profondamente la loro struttura chiusa e verticistica per dare voce ai popoli che li costituiscono.
La drammatica esperienza che, alle porte di casa nostra, stanno vivendo le popolazioni balcaniche, il dirompente dissolversi dell’impero sovietico costituiscono un’esperienza ineludibile alla cui origine non sta solo il regime liberticida che ha privato i cittadini del vitale respiro democratico, ma l’oppressione di popoli, assoggettati in nome di superiori principi, alla violenza della subalternità all’etnia o nazione dominante.
Sono proprio i popoli che oggi insorgono contro l’esperienza sovietica e non solo i balcanici, ma il grande firmamento della diversità che pur avrebbero tanto bisogno di reciprocamente sostenersi.
Il tentativo di genocidio etnico perpetrato da poteri centrali delle ricostituite nazioni-stato sta scatenando dolorose guerre fratricide impensabili in una aggregazione spontanea di mutuo sostegno fra popoli.
La risposta di tutto questo è l’ autodeterminazione.
Da valore ideale, nel breve volgere di pochi decenni”l’autodeterminazione” è venuta assumendo il rilievo di un vero e proprio diritto che trova, riscontro nel Articolo 1, del Patto sui Diritti Civili e Politici come in quello sui Diritti Economici Sociali e Culturali che la grande maggioranza dei Paesi di tutto il Mondo ha sottoscritto.
L’Europa in particolare si è fatta promotrice di un vasto movimento di decolonizzazione offrendo ai popoli dei diversi Continenti di assurgere, attraverso l’autodeterminazione, ad autonome statualità.
Un diritto che secondo gli organi politici delle Nazioni Unite diviene cogente e come tale obbliga alla sua osservanza gli Stati.
A beneficiarne sono evidentemente, in prima battuta, le minoranze inglobate all’interno di questi, cioè, i Popoli che abbiano in se i requisiti della statualità.
A deciderne la sussistenza non è però il potere costituito, ma ovviamente il popolo che abbia consapevolezza della propria identità.
Il suo esercizio non significa necessariamente la mutilazione dello Stato ma, di norma, l’obbligo di aprire un serio credibile confronto con le proprie minoranze al fine di definire con esse il nuovo rapporto ed il grado di sovranità cui hanno diritto per organizzare in autonomia il proprio sviluppo.
Ma a ben guardare, pur senza giungere ad integrare la figura della minoranza etnica, va preso atto che la storia d’Europa è in larga misura storia di minoranze; popoli che in dipendenza di peculiari vicende storiche, geografiche, economiche e culturali esprimono specificità distinte e diverse da quelle nel cui contesto sono iscritte.
E tali diversità si sono così profondamente radicate nello spirito e nella coscienza popolare da avere resistito attraverso i secoli, nonostante l’assoggettamento a dominazioni diverse, sino ai giorni nostri.
Diversità che non significa contrapposizione ma solo molteplicità, pluralismo, identità. L’Italia ne è un esempio emblematico tanto che nella storia gloriosa dei suoi Municipi si è passati attraverso forme ed ordinamenti istituzionali distinti e molteplici.
Non meno illuminanti sono analoghe esperienze del Regno Unito, della Germania Federale e della stessa Spagna; non vi fa eccezione né la Francia né il Belgio, come la Svizzera e l’Austria. Diversi di questi Stati ne portano nella loro Costituzione una testimonianza viva ed operante.
Ciò che emerge è il bisogno di queste popolazioni di operare in termini di grande unità, riconoscendosi membri di una Comunità, diversa e irripetibile nel contesto territoriale ed umano al cui progresso civile danno per altro il loro prezioso ed originale contributo.
Nel loro formarsi preesistono allo Stato e possono essere da questo esaltate o represse.
L’esperienza degli Stati Nazionali nel loro verticismo centralista le ha contrastate, negate ed occultate senza però riuscire a spegnere la forza vitale che trae legittimazione e respiro dal diritto naturale; da una sorta di “jus gentium” che per la sua universalità dà forza e luce di certezza allo spirito resistenziale dei popoli.
Le pagine incancellabili di civiltà di cui l’Italia va legittimamente orgogliosa sono fiorite in forza delle diversità di cui ancor oggi è così ricca.
Se alcune aree hanno ricevuto processi involutivi di degrado non solo economico ma istituzionale e, per tanti versi, civile non è certo colpa delle travagliate popolazioni che hanno subito e subiscono questo umiliante sottosviluppo, ma di un sistema di Governo che continua dall’alto ad imporre direttive e soluzioni al cui definirsi è rimasta estranea la partecipazione popolare.
Lo Stato Nazionale ha bensì consentito l’articolazione di un regionalismo rimasto però permanentemente sotto tutela, diretto, controllato, svuotato e represso con gli strumenti giuridici più’ capziosi per cui gran parte delle potenzialità sono rimaste frustrate ed inespresse.
Solo le Regioni che per contingenze storiche diverse dispongono di maggiori risorse materiali ed umane hanno potuto reggere e progredire, mentre le altre, pur in presenza di un certo progresso materiale, si constata il crescente ritardo rispetto alle Regioni più progredite.
Evidentemente non bastano alcune cattedrali per popolare il deserto.
Non si è favorito cioè (sarebbe meglio dire non si è permesso) il formarsi dell’ambiente delle sviluppo.
Non tanto e non solo perché non sono state realizzate le infrastrutture a rete che, a spese dello Stato, già esistono nelle Regioni più progredite, ma si è impedito quella autonomia reale che investendo di responsabilità piena le popolazioni ed i loro rappresentanti le avrebbe chiamate ad un ruolo protagonista del proprio sviluppo.
Questo sembra essere il punto fondamentale. Non si spiegano diversamente le violente e diffuse contestazioni di Regioni che pure hanno ottenuto, con loro merito, i maggiori benefici dello Stato.
La ribellione contro Roma, cioè contro lo Stato nazionale, scatenatasi con una forza irrefrenabile nelle Regioni del Nord Italia, esprime la frustrazione di popolazioni che pur avvertendo il proprio ruolo protagonista si sentono escluse dai processi decisionali delle grandi scelte che poi saranno chiamate a realizzare.
Evidentemente lo Stato Nazionale è giunto al suo capolinea e deve rinnovarsi in forme aperte ad una moderna democrazia che si realizza nella partecipazione attiva e responsabile delle Comunità.
Il sistema verticistico tanto caro alle burocrazie centrali ha finito col coinvolgere i partiti che nella loro struttura gerarchizzata hanno espropriato le istituzioni dei loro poteri costituzionali.
In effetti è stata addirittura abolita la divisione dei poteri e lo stato di diritto tanto che il Parlamento si limita a ratificare leggi e scelte politiche elaborate e decise nelle Segreterie dei Partiti mentre al Governo non resta altro spazio.
L’esistenza di grandi riforme unitamente affermata resta ancor oggi confinata nel rito dei molti inutili convegni mentre continua sempre più nefasta la forza disgregante dei poteri burocratici sia statali che partitici.
Ineluttabile ormai è il superamento dell’intima contraddizione che domina la vita dello Stato: poteri organizzati orizzontalmente su base regionale inseriti però nella preesistente struttura rigidamente verticistica e centralizzata.
La medesima dottrina della sussidiarietà in una con quella del partenariato collocano i poteri nelle sedi istituzionali che siano diretta espressione dei cittadini: Enti Locali e Regioni.
Ciò che non può definirsi in tali sedi per l’ampiezza, la rilevanza o l’impegno organizzativo che ne deriva va attribuito alla competenza superiore dello Stato sino a giungere al livello Comunitario.
Questo principio va associato a quello della partecipazione di tutti i livelli istituzionali alle decisioni dei livelli superiori. Di qui la necessità di trasformare il Senato della Repubblica in una Camera pariteticamente rappresentativa delle Regioni e Provincie autonome.
La stessa Corte Costituzionale nel decidere conflitti di competenza fra Stato e Regioni dovrà nella sua composizione esprimere in modo paritetico un ugual numero di rappresentanti delle parti contendenti. Solo così Le Regioni italiane potranno dare un contributo vivo, immediato e creativo al definirsi della Patria Europa.
Tra queste e le comunità regionali dovrà stabilirsi un rapporto diretto, operoso ed intenso che i rispettivi Stati potranno correggere ove non ritenuti coerenti agli indirizzi e scelte decise dai suoi organi costituzionali.
Nell’epoca della telematica non è più compatibile il rallentamento disincentivante delle intermediazioni burocratiche ridotte ormai a centri di potere incapaci di programmazione e di efficiente gestione.
Il pluralismo istituzionale deve trasformarsi in forza dinamica dello sviluppo e non nel moltiplicarsi delle procedure. In effetti la politica comunitaria è funzionalmente ma, soprattutto istituzionalmente, volta a promuovere l’iniziativa regionale.
L’obiettivo della convergenza delle economie negli Stati membri passa attraverso una politica regionale che assume importanza crescente nella costrizione di un’Europa equilibrata e moderna.
L’Atto Unico al Titolo V pone la coesione economica e sociale quale obiettivo primario inserendo così la politica regionale quale traguardo essenziale di una moderna democratica Europa.
In questo spirito vanno letti gli articoli 130-A e 130-E insieme all’articolo 32, III comma, che nel loro combinato disposto definiscono un sistema sufficientemente organico di politica regionale nell’ordinamento comunitario.
Le Regioni quindi diventano protagoniste, come organi di Governo delle popolazioni nei rispettivi territori in un rapporto che le fa interlocutori politici primari della comunità.
Diversi provvedimenti sono stati elaborati per rendere più efficiente una tale prospettiva e fra questi il raddoppio dei fondi strutturali.
Si deve però a questo proposito osservare il mancato conseguimento di obiettivi così ambiziosi, tanto che ad avvantaggiarsi delle risorse comunitarie da quelle destinate all’agricoltura, allo sviluppo industriale, alla difesa dell’ambiente come alla ricerca sono le aree più ricche del nostro Continente che continuano ad aumentare il loro distacco da quelle ancora immerse nel sottosviluppo. Inutile citare i dati della vasta documentazione che esiste in proposito.
La verità è che le Regioni povere, immerse come sono nel sottosviluppo, non dispongono né dell’organizzazione né della cultura né delle informazioni di origine nazionale e comunitaria e, in ultima analisi, dell’ambiente volto a promuovere lo sviluppo.
In mancanza di imprenditoria e managerialità, in modo di assumere adeguate iniziative, lungi dall’ottenere supporti tecnici e di consulenza degli organi subirne l’invadente direttiva che, proprio perché tale, oltreché intrinsecamente inefficiente non sempre risponde a reali interessi locali.
Le Regioni debbono crescere sulle proprie gambe in virtù di poteri e responsabilità loro proprie, originarie e non derivate e delegate.
Il loro ingresso in Europa non dovrà perciò esaurirsi in un rapporto istituzionale diretto con i poteri comunitari, ma realizzarsi in un coinvolgimento più profondo e penetrante attraverso l’elezione del Parlamento Europeo su base regionale.
Né appare accettabile l’istituzione di un Comitato Consultivo delle Regioni inserito all’interno del Comitato Economico-Sociale, visto che quest’ultimo esprime interessi economici di categoria e di corporazione, i cui rappresentanti sono designati dalle rispettive organizzazioni, mentre il Comitato Regionale è organo politico eletto dal popolo e come tale espressione diretta del suo potere sovrano.
La Comunità quindi è anch’essa chiamata ad innovarsi profondamente nelle sue istituzioni perché sia espressione reale di tutti i valori, interessi e problemi di cui la Comunità è ricca e nei quali si articola.
L’organo legislativo dovrà quindi esprimersi nel concorso delle deliberazioni assunte rispettivamente dal Consiglio e dal Parlamento mentre l’Esecutivo dovrà essere espressione diretta di questo ed a questo dovrà formulare le sue proposte e rispondere della corretta esecuzione.
La Corte di Giustizia integrerà infine il potere Giudiziario.
Le Regioni dovranno poter accedere alle diverse istanze istituzionali comunitarie sia in sede di consultazione da parte di queste ultime sia di propria iniziativa quando siano in discussione problemi che coinvolgono interessi vitali di una o più Regioni.
In un quadro di così ampio respiro che consenta e faciliti il dialogo permanente fra tutti i soggetti istituzionali, potrà svilupparsi un processo di integrazione arricchito e costantemente rinnovato dai contributi originali, puntuali e precisi delle diversità assurte a valore di universalità.
Le Regioni italiane – Il Progetto per l’Europa – Convegno FEA – Trento – 15 Novembre 1992
10 Marzo 2013 by