Occorre passare da un sistema di incentivi finanziari a un sistema di incentivi reali.
Il successo registrato nel Sud da alcune intraprese industriali capaci di dinamismo, produttività e competitività non inferiore a quelle delle concorrenti del centro-nord ha dimostrato come gli incentivi finanziari no abbiano valore decisivo nel decollo industriale.
Il contributo pubblico può avere funzione nella formazione dello stock iniziale di capitale ma poi tutto si appiattisce e crolla se non si può far conto sulle “economie esterne” quali la consulenza non più limitata alla gestione, amministrazione, giuridico legale, finanziario contabile o alle pratiche di finanziamento concesso dal potere pubblico, ma all’informazione e a quant’altro di nuovo la moderna dinamica industriale propone all’operatore.
Si deve ricercare anche i nuovi settori nei quali operare ad altro sviluppo tecnologico quali l’elettronica, informatica etc.
Fra il 1961 e il 1981 la Sardegna ha registrato un massiccio afflusso di capitali da investimento con i quali si è avviato un rilevante processo di industrializzazione per poli di sviluppo.
Conseguente al dato di cui sopra si è registrato un aumento globale di reddito interessante l’intero sistema economico sardo.
Il fatto però non si è tradotto in termini propulsivi dello sviluppo perché:
A. i capitali d’investimento impiegati erano di provenienza esterna e ciò ha finito con l’incrementare la dipendenza della Sardegna da centri decisionali esterni;
B. non ha innescato meccanismi di accumulazione di capitali nell’ambito regionale;
C. ha incentivato la propensione all’importazione dei beni di consumo;
D. non ha determinato espansione occupati.
Il nuovo sviluppo si è caratterizzato per lo scollamento dalle risorse locali alle quali sono state negate le necessarie risorse capaci di determinarne l’espansione perché destinate ai poli industriali.
In sintesi: gli investimenti esterni nei poli industriali, trasferimenti pubblici e, sia pure in misura minore, le rimesse degli emigrati hanno incrementato il potere di acquisto sardo.
Ciò ha favorito un più elevato livello di consumi ma non lo svilupparsi di nuove attività produttive interne al sistema economico sardo in grado di sostituire, quantomeno in parte, i beni e i servizi importati dall’esterno; in effetti l’aumento dei consumi si è tradotto in aumento delle importazioni e quindi in una più accentuata dipendenza dall’esterno.
Il problema che si pone è dunque il seguente:
Individuare sistemi alternativi che utilizzino il potere d’acquisto sardo, oggi sottratto al mercato finanziario locale dalle impostazioni per innescare l’accumulazione del capitale e quindi avviare processi produttivi e quindi esportazione di beni e servizi.
Gli effetti moltiplicativi delle esportazioni favoriranno nuovi investimenti a minor rischio ed a più stabile occupazione.
Occorre però che la politica del governo sardo si faccia carico di realizzare le condizioni politico-economiche per dare coerenza al rapporto costo del denaro, costo del lavoro e tasso di profitto d’impresa. Se questo non esiste o è negativo la produzione si ferma: È del tutto evidente che l’aumento del costo del denaro e del lavoro, scoordinato dal costo finale del prodotto e della sua competitività nel mercato, uccidono qualunque iniziativa e quindi l’esportazione e con essa l’impiego di mano d’opera.
Dobbiamo a tal fine restituire piena efficienza e adeguata produttività all’imprenditoria sarda adeguando a tal fine gli strumenti promozionali del sistema economico sardo.
Una tale operazione è possibile se riduciamo altresì le diseconomie esterne.
Elementi strutturali dell’Economia italiana:
Lavoro precario Centro Nord 9.3 Mezzogiorno 17.3
Investimenti capitale fisso: 970 = 100
980 =-70%
Incidenza investimenti nel Mezzogiorno rispetto all’Italia:
Italia 100
Mezzogiorno 1970 37%
1980 22%
La struttura dell’industria meridionale è costituita in prevalenza da piccole e medie imprese.
La localizzazione nel Mezzogiorno di grandi imprese, la loro vocazione espansiva, l’esigenza di aggiornamento tecnologico comporta investimenti ad alta intensità di capitale che viene sottratto alla disponibilità delle industrie piccole e medie; in particolare si sottrae l’offerta di credito determinando al tempo stesso una mancata azione destinata ad elevare il livello dei salari.
In Italia, per ovviare alla crescente rigidità dei costi, conseguente alla struttura dormente verticalizzata delle imprese industriali, si è favorito il formarsi di imprese di trasformazione non verticalizzate, flessibili ancorché difficilmente integrabili.
Nel Mezzogiorno questo fatto si è rivelato negativo perché ha dato vita ad un apparato di piccole e medie aziende (prevalentemente piccole) non integrate con gli altri sistemi esistenti in Italia e quindi da questi scollegate.
In effetti però nelle aree contigue ad altre già sviluppate ha favorito il decollo delle prime (basso Lazio, Puglie, coste Abruzzesi) dando vita ad uno sviluppo cosiddetto a domino.
Essenziale a questo fine la presenza di “sevizi” coerenti alle produzioni capaci ben più delle stesse agevolazioni finanziarie, di favorire il decollo delle attività industriali.
Tendenza all’aumento del divario fra Sardegna e le tre Regioni Centro-meridionali:
1973 1980
Abruzzo -30 -29+1
Molise -42 -33+9
Basilicata -37 -33+7
E Meridionali
Campania -36 -40-4
Puglia -34 -36-2
Calabria -45 -45-3
Sicilia -34 -36-5
Sardegna -31 -36-5
Per la Sardegna gli obiettivi mancati sono: l’avvio del processo di accumulazione, capace di innescare sviluppo autopropulsivo, e l’incremento dell’occupazione.
L’apparato industriale sardo è caratterizzato, come per altro tutto il sistema industriale meridionale, da un dualismo costituito. da un lato, da imprese di rilevanza locale e regionale e, dall’altro da grandi imprese che danno vita ad industrie di base: chimica, petrolchimica, fibre sintetiche, metallurgia, insuscettibili di integrarsi con le attività tradizionali a bassa intensità di capitale, rivolte al mercato locale e con dimensioni e processi produttivi, molto spesso, semi-artigianali.
Contributi regionali dal 1960 al 1980: Grande Industria (con più di 20 addetti) 75%
Piccola Media Industria e Artigianato 25%
Scarso inserimento dell’imprenditoria sarda nella chimica di base e nelle attività estrattive e di trasformazione dei prodotti minerari.
Vi è una diversa genesi nel mancato attivarsi dell’imprenditoria locale nei vasti spazi vuoti interessanti i consumi sardi.
Gli ostacoli sono: la bassa produttività dovuta a diseconomie esterne, assenza totale di servizi e incentivi reali, mancata integrazione con industrie complementari. Inoltre bisogna considerare gli alti costi di produzione dovuti all’insularità, ai trasporti, alla mancanza di un continuum di mercato.
L’aumentata capacità di acquisto registrata nel mercato sardo consente alle industrie esterne, ivi comprese quelle regionali presenti in Italia, di inserirsi nel mercato sardo per soddisfare le esigenze con un flusso di esportazione la cui enumerazione, anche se inferiore a quanto realizzato nel territorio metropolitano, resta pur sempre possibile proprio perché ha un supporto di mercato metropolitano che copre tutte le spese generali.
L’ipotetico industriale sardo, per affrontare l’esportazione non ha che il supporto del mercato locale (intrinsecamente limitato e fortemente disperso con alti costi di distribuzione) ed è costretto dalla discontinuità territoriale alle maggiori spese di trasporto (per il maggior volume di vendite esterne) a non disporre in loco di industrie complementari, a stoccaggi maggiori o a incertezze sulle forniture, sui costi etc.
(Art. 4 Esenzione IVA a favore dell’utilizzazione di merci prodotte in Sardegna)
Per conseguire tali obiettivi si deve disporre di contiguità con strutture scientifiche, avere quadri e mano d’opera specializzata, un apparato informativo di consulenza imprenditoriale e di gestione molto avanzato.