La scelta energetica del Partito Sardo d’Azione – Senato della Repubblica – 18 gennaio 1977

Signor Presidente, onorevole rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, il nostro Gruppo voterà a favore del disegno di legge concernente la riattivazione del bacino minerario del Sulcis pur sottolineando la inadeguatezza del provvedimento in relazione alla complessità e rilevanza del problema.
Il voto favorevole vuole significare il consenso ad una scelta politica energetica che il Partito sardo di azione, che rappresento in quest’Aula, ha sempre sostenuto pur nella indifferenza, anzi scontrandosi con l’ostilità del Governo.
Dura e amara è la storia del bacino carbonifero del Sulcis. Durante gli anni della guerra, così come nel lungo arco di tempo della ricostruzione, le sole risorse energetiche disponibili, sulle quali il paese ha potuto fare affidamento, erano costituite appunto dal carbone del Sulcis. L’intero apparato produttivo italiano ha marciato attingendo quasi esclusivamente alle risorse del bacino minerario sardo. Va però ricordato come l’acquisto venisse allora operato a prezzi politici, favorendo da un lato gli operatori economici, ma mortificando nel contempo la gestione e la politica salariale dell’azienda.
I minatori sardi, che hanno contribuito in misura così significativa alla ricostruzione industriale e produttiva del paese devastato dagli eventi bellici, venivano allora compensati con salari di fame, chiusi come erano nelle cosiddette gabbie salariali, per finire, ancora giovani, distrutti dalla silicosi, dalle cardiopatie, dalle artriti deformanti e da altre terribili malattie che si contraggono in ambienti di lavoro così difficili e, per la politica produttiva del tempo, disumani.
Erano allora circa 18.000 gli addetti ai diversi servizi della miniera. Il paese ha nei loro confronti un imperituro debito di riconoscenza, debito che nasce dalla politica di rapina delle risorse materiali ed umane praticata allora senza tenere in alcun conto gli interessi della Sardegna e del suo popolo.
Solo dopo la costituzione del nostro territorio in regione autonoma si è iniziata una politica volta a mettere a frutto anche dei sardi questo enorme potenziale energetico costruendo prima la centrale termoelettrica di Portovesme e, quindi, la super-centrale di Carbonia. È da rilevare che entrambe venivano alimentate dal tout venant e non dal carbone lavato, consentendo così una considerevole economia sui costi di produzione.
È stato in tal modo possibile al Governo regionale incentivare lo sviluppo industriale, artigianale ed agricolo attraverso una politica di agevolazioni tariffarie che mettessero gli operatori economici sardi in condizioni di parità con la concorrenza esterna e in grado di produrre in termini competitivi rispetto a questa. Si determinò così un moltiplicarsi di iniziative, di fervore creativo, che, rallentando i laceranti fenomeni dell’emigrazione di massa, offrivano ai lavoratori sardi prospettive di occupazione per l’innanzi sconosciute.
La stessa struttura sociale e culturale sarda andava rapidamente evolvendosi in un empito di crescita vitale la cui genesi va individuata proprio nelle diversificazioni produttive, nel loro potenziarsi e razionalizzarsi, nel loro arricchirsi di contributi esterni capaci di inserirsi nella realtà isolana senza sovvertirla o alienarla.
Fu però, onorevoli colleghi, una breve stagione: con la nazionalizzazione delle fonti di energia alla Carbonifera sarda subentrò, nella gestione delle centrali termoelettriche, l’Enel e questo al carbone sardo preferì il petrolio. Vennero abolite le agevolazioni tariffarie in materia di energia; considerazioni di tipo aziendalistico prevalsero sulle valutazioni sociali e politiche ed il Governo abbandonò i sardi ed in particolare la vasta area del Sulcis alla logica della disintegrazione sociale e civile.
Si è pertanto perduto un inestimabile patrimonio di preparazione professionale che si è disperso nelle miniere belghe, della Lorena, della Ruhr: ovunque in Europa esistesse un patrimonio carbonifero da valorizzare, ivi erano i minatori sardi, assurdamente abbandonati dalla politica rinunciataria del nostro Governo.
L’accusa che elevammo allora e che ora ripetiamo è di avere valutato il problema con l’ottica corta di aziende volte a realizzare il profitto dell’oggi senza farsi carico dei gravi pericoli insiti in una tale scelta. In un paese come il nostro, privo di altre fonti energetiche, non era accettabile una scelta affidata esclusivamente all’importazione del petrolio.
Eventi internazionali, legati alla instabilità degli equilibri nei rapporti fra gli stati del Medio oriente, consigliavano sin da allora estrema prudenza nella gestione dell’unica fonte di energia disponibile in Italia.
Una visione strategica del problema imponeva quanto meno una gestione di attiva manutenzione degli impianti estrattivi, sì da consentire in qualsiasi momento una ripresa a pieno ritmo delle attività estrattive. Si è invece solidamente abbandonato un enorme patrimonio di impianti rimasti sepolti per anni sotto terra a distruggersi lentamente ma inesorabilmente.
La nuova politica dei paesi produttori di materie prime ha dimostrato in tutta la sua gravità la colpevole insipienza del nostro Governo e la necessità di recuperare il tempo perduto e utilizzare finalmente il potenziale energetico di cui disponiamo, così essenziale per la ripresa economica del nostro paese.
Il disegno di legge non soddisfa certo queste aspettative, ma costituisce pur sempre un significativo atto politico che trova il nostro consenso ed il nostro voto favorevole.