Intervento sull’istituzione del Parco del Gennargentu – maggio 1998

A leggere i giornali si ha la sensazione di una mobilitazione rivoltosa delle popolazioni sarde minacciate dal precipitare sulle loro teste di provvedimenti governativi imperiosi e sconvolgenti, illegittimi, prevaricanti ed offensivi.
Il Ministro Ronchi ha emanato un provvedimento sul costituendo Parco del Gennargentu che ha sortito l’effetto di armare gli animi alla resistenza in difesa dei più elementari valori di libertà ed autonomia dei comuni territorialmente interessati.
A parte l’assoluta inefficacia del Decreto ministeriale e l’inopportunità politica di questo, al vociare di tanti politici sdegnati, vien voglia di ricordare che il provvedimento consegue a tutta una serie di intese scritte e sottoscritte fra Stato e Regione per cui l’impazienza del Ministro altro non è che coerente risposta a precedente consenso formalmente espresso.
È pur vero che da allora ad ora è clamorosamente esploso il dissenso delle popolazioni di immersosi comuni e che di tale dissenso sarebbe stato bene interpretare il significato per assumere le decisioni politiche e di governo meglio rispondenti alle reali attese dei cittadini e quindi all’interesse generale.
La ripulsa all’istituzione del Parco del Gennargentu ha infatti motivazioni diverse. La più rilevante – che condivido e della quale mi sono fatto interprete da Presidente della Regione (in occasione della legge Melandri che riproponeva un’iniziativa del compianto Marcora), è costituito dall’ovvia considerazione che tanto le Amministrazioni Comunali che la Regione non hanno diritto di rinunziare – in tutto od in parte – alla responsabilità del governo del territorio per delegarlo ad un organo di gestione nel quale sono minoranza e che risponde del suo operato non ai cittadini ma al governo romano dal quale deriva la sua legittimazione.
Poco rileva che la gestione provvisoria sia affidata ai sindaci. Nella prospettiva la legge da potere decisorio prevalente al Governo.
La grave colpa che faccio alla politica sarda è quella di aver rinunziato al Parco Regionale preferendo delegarne l’istituzione al Governo romano. La motivazione è inaccettabile perché politicamente rinunziataria: il parco nazionale lo paga il Governo centrale; quello Regionale la Regione.
A parte il fatto che siamo l’unica regione a statuto speciale ad accettare nuovi parchi nazionali mentre vengono istituiti quelli regionali – va considerato che l’autonomia non è solo libertà, ma anche responsabilità e a che questi valori – di per sé inscindibili – non si può rinunziare per lucrare pochi o molti soldi.
Sono certo che al Parco Regionale spettano comunque erogati i cospicui contributi della comunità Europea e ne giungeranno dalla moltitudine di Enti, Istituti e fondazioni operanti in Europa e nel Mondo. I valori ambientali, naturalistici ed archeologici sono infatti ogni giorno di più coscienza e patrimonio irrinunziabile dell’umanità.
Al dovere di solidarietà non potrebbe né vorrebbe sottrarsi neppure lo Stato italiano dato che la Regione ne è parte integrante e non corpo staccato ed antagonista.
Ecco perché la Giunta che ho avuto l’onore di presiedere ha proposto ed il Consiglio Regionale approvato la legge 7 giugno 1989, n. 31 con la quale parchi, riserve e monumenti naturali sono d’istituzione regionale e di gestione locale.
L’idea guida che ispira la legge regionale non si esaurisce in una molteplicità di divieti ma costituisce un vigoroso razionale impulso ad un più corretto rapporto con il territorio sì da favorire la migliore produttività delle risorse in un rapporto di compatibilità con la salvaguardia dei valori naturalistici e paesaggistici del più bel compendio ambientale della Sardegna. Fra giogaie possenti si vive l’incanto dei grandi silenzi, si dischiude la vastità di orizzonti luminosi sino al lontano mare per immergersi nel verde gioioso e protettivo di prati e boscaglie, picchi, rocciaie e recessi che costituiscono scenario d’incompatibile bellezza.
Al centro di questo mondo fervido e fascinoso è l’uomo, con la sua creatività, il lavoro, il progresso. Non un museo che esprime l’incantesimo del passato ma la forza vitale di un rinnovato rapporto fra sardi della montagna e la loro terra. Certo ogni progresso si avvale di tecniche, strumenti, comportamenti e cultura che si rinnovano per adeguarsi e migliorare l’esistente.
È una sfida esaltante, bella che esprime giovinezza. Un succedersi di generazioni, orgogliose del passato ed impegnate a costruire futuro. Un continuo divenire che non inaridisce ma rifiorisce con la forza innovativa dell’alleanza uomo-natura.
Non possiamo restare fermi, statici in un immobilismo che ancor prima che fisico è politico. Questa sarebbe conservazione sterile che invecchia con noi. Il Parco, gestito dalle popolazioni che lo amano e lo predispongono ad accogliere i figli che crescono non si esaurisce in un empito affettivo e sentimentale ma diventa fattore di sviluppo e civile progresso.
Detto questo riprendiamo dunque il cammino. Discutiamo. Sono certo che anche il Governo guarderà con attenzione e solidarietà all’iniziativa delle popolazioni sarde.
Fra le motivazioni del no al parco ve n’è una sostenuta con tale enfasi e virulenza.
Secondo questa tesi ogni Comune, chiuso nella solitudine dei suoi confini, è unico legittimo arbitro di progetto, gestione, esecuzione nel territorio municipale.
Un’ipotesi che ci risospinge verso il municipalismo più retrogrado, disintegrante, feudale ed ignora l’avvento dell’autonomia quale nuova frontiera civile dell’unità dei sardi.
Lo squallore dei pocos, locos y male unidos lo possiamo superare solo cogliendo tutte le opportunità dello stare e lavorare insieme.
Il parco, liberato dai poteri esterni ed affidato alle responsabilità dell’assemblea dei sindaci è un momento alto di civiltà che da fatto culturale ed ambientale diventa politico.
Come poi sarebbe possibile disarticolare il Gennargentu in tanti territori che nelle loro diversità costituiscono suggestiva bellezza di paesaggi ed orizzonti nei quali leggere la storia del primigenio formarsi del grande massiccio e del travagliato succedersi delle generazioni che lo hanno abitato ed amato lasciandovi i segni inconfondibili del plurisecolare lavoro.
Saranno le popolazioni e non altri a progettare l’alveo nel quale fluirà il fiume della vita, fissandone le regole perché, nel rispetto di valori unici ed irripetibili, si possano sviluppare le attività economiche tradizionali e, sono certo, le innovazioni che turismo culturale, scienza e ricerca sono in grado di offrire alle generazioni future.
Chiudersi nei propri confini significa chiudere la porta al futuro e spalancarla a povertà, disoccupazione, ignoranza.
I nostri boschi non servono più quale sfondo per i leggendari banditi del passato. La leggenda è solo nelle parole. Era un passato di dolore, di miseria e di violenza che nessuno rimpiange.
Un passato fosco e truculento che parla il linguaggio del muflone ucciso, squartato ed impiccato. Gesto isolato che esprime un mondo criminale superato dalla coscienza civile e si affida al potere intimidatorio dei pochi isolati.