Testo su Antonio Gramsci, anni ’90

Al centro degli orizzonti politici intuiti da Antonio Gramsci esiste, quale momento generatore essenziale, la cultura. Non solo la cultura dotta quella delle Accademie, delle Istituzioni e del potere visto in tutte le sue componenti: politiche, economiche e sociali, ma altresì quella del popolo. La lingua comunemente nota come dialetto e che certa politica tende a soffocare e direi a estirpare dal cuore della società, con il passo della mediocrità intellettuale quale espressione di ignoranza e in genere di arretratezza.
Per Gramsci è invece momento forte di una capacità resistenziale del popolo escluso dai circuiti decisionali e semplice oggetto di quelli altrui. Ma Gramsci va oltre cogliendo l’esigenza vitale che ogni realtà umana territorialmente definita abbia non solo diritto ma necessità, non già di chiudersi, ma di crescere e di affermarsi attraverso i valori della propria cultura, di quella che attraverso i secoli ogni popolo ha saputo e potuto elaborare, lingua, tradizioni, ispirazione morale, costumi.
Ogni popolo deve conservare quindi nella cultura una sua preziosa identità acquisendo così la concreta capacità di poter meglio dialogare e magari integrarsi con altre realtà socio-territoriali.
Ebbene in questa luminosa intuizione (se si preferisce analisi) gramsciana passa la scriminante fra concezione federalista, o più semplicemente regionale-autonomista dello Stato e la concezione centralista di questo.
E Gramsci aveva ben chiari gli esempi comparativi cui fare riferimento: il Partito Sardo da un lato, il Partito nazionale fascista dall’altro.
I grandi traguardi della concezione sardista dello Stato hanno costituito riferimento costante nella testimonianza democratica di Antonio Gramsci. Ne scrive a Togliatti, ispira il messaggio dell’Internazionale contadina moscovita al Congresso Sardista del 192…, ne scrive a Lussu ma soprattutto ne trasfonde i valori nel suo operare quotidiano ipotizzando un’estensione del verbo sardista in tutto il mondo contadino italiano per realizzare l’unica possibile base di dialogo fra le due grandi componenti del lavoro, quella rurale e quella operaia.
E del Partito Sardo riconosce la giustizia delle battaglie concretamente attivate condividendone la denunzia di una vera e propria colonizzazione della Sardegna da parte dell’apparato economico industriale del nord, l’esigenza di dar vita ad un governo dei Sardi in piena responsabilità ed autonomia, non necessariamente in contrasto e specifici in grado cioè di meglio rispondere alle peculiarità spesso uniche ed irripetibili della Sardegna.
Le diversità ambientali territorialmente individuate e riconosciute non vanno mistificate nel pensiero di Gramsci in termini di banale localismo e, come tali, soppresse, ma tutelate ed esaltate quale momento di arricchimento del pluralismo globale dal cui rispetto scaturisce la reale unità dello Stato.
Mentre per Emanuel Kant il Federalismo si colloca in un empireo filosofico generatore e garante di pace universale, per Gramsci è solo una forma di democrazia cui fare ricorso in presenza di situazioni non altrimenti riconducibili ad unità.
La differenza non è da poco. Nell’universalismo kantiano passa il cosmopolitismo culturale che porta di necessità al conformismo, all’annullamento delle diversità e quindi all’isterilirsi e all’impoverimento creativo dei popoli; in Gramsci prevale l’esigenza di dare in concreto risposte politiche a situazioni complesse per meglio realizzare qui valori universali di libertà, di democrazia e di pace che sono pure il traguardo ideale kantiano.
Ma in queste sue intuizioni Gramsci ha certo un forte ed irriducibile avversario: il fascismo che lo ucciderà fisicamente esaltandone così il pensiero e l’insegnamento.
Ma non è solo: Lussu, Bellieni e, prima ancora, Tuveri per certi versi, Asproni, Salvemini ma, soprattutto, Gobetti convergono in questo grande filone ideale politico e culturale.
Lasciatelo dire ad un sardista: l’insegnamento di Gramsci è un patrimonio dell’umanità ma è anche una delle più alte testimonianze di Sardismo.