Intervento su la Questione Meridionale – anni ’80

1. Riprendere le fila di un discorso sul Mezzogiorno, riprospettando le motivazioni ideali, storiche e politiche che ci consentano di riannodare con nuovo slancio le trame di alleanze necessarie ad imprimere una svolta risolutrice all’azione meridionalista, costituisce oggi un’esigenza quanto mai decisiva per lo sviluppo e la crescita civile dell’intero Paese.
Certamente i tempi attuali sono profondamente diversi da quelli in cui maturò per merito di alcune grandi figure di intellettuali e politici la presa di coscienza di una problematica così vasta e complessa come quella meridionale.
Uomini come Colajanni, Salvemini ed Attilio Deffenu avevano scritto pagine memorabili e combattuto aspre battaglie politiche contro il protezionismo che difendeva gli industriali del Nord, contro il dazio sul grano che garantiva i profitti dei latifondisti del Sud, contro le pratiche trasformistiche che umiliavano il Mezzogiorno e le Isole.
Intellettuali come Dorso e Camillo Bellieni, nel primo dopoguerra, denunziavano ancora con forza il “mostruoso privilegio” del protezionismo, su cui prosperavano le industrie settentrionali con l’avallo dei sindacati operai a maggiorazione socialista.
La questione meridionale e delle isole costituiva in quegli anni la questione centrale sulla quale convergevano, con angolazioni e prospettive diverse, le forze progressiste del Paese, quelle di più antica tradizione, socialista e liberale democratica, e quelle più recenti espresse dal movimento degli ex combattenti.
Tale questione costituiva, infatti, da un lato, il punto di confluenza di una Storia risorgimentale “irrisolta” nelle sue più alte espressioni libertarie ed egalitarie, dall’altro lato, il passaggio obbligato di un reale processo di rigenerazione della vita nazionale.
2. Ma né l’impegno di allora né i risultati, che pur sono stati conseguiti in tempi a noi più vicini, sono valsi a determinare le condizioni per una soluzione adeguata del problema Mezzogiorno.
La crescita della scolarizzazione, il relativo incremento dei redditi, alcune importanti realizzazioni nel campo delle infrastrutture, non colmano gli spazi dell’insuccesso, che restano ampi e profondi. Primo fra tutti il divario socio-economico che contrappone un’Italia, orgogliosamente inserita fra i paesi più industrializzati ad un’altra Italia, che non riesce ad esprimere i processi indispensabili ad uscire dal sottosviluppo.
Se in passato le conseguenze devastanti del dualismo socio-economico italiano sono state pagate dal Mezzogiorno in termini di emigrazione di massa verso regioni italiane, europee ed extra europee, oggi, nel mutato quadro che caratterizza lo sviluppo sulla scena economica mondiale, le conseguenze vengono pagate in termini di disoccupazione di massa.
Un fenomeno che investe non solo il Paese ma l’intera Comunità Economica Europea, acquistando dimensioni e caratteri non più sopportabili proprio in quelle aree più deboli del Mezzogiorno d’Italia e d’Europa in cui si iscrive purtroppo la Sardegna.
3. In questo contesto, in cui le politiche statuali si dimostrano incapaci a fronteggiare il fenomeno della disoccupazione strutturale attraverso l’attivazione di processi di accumulazione endogena, mentre l’emergere prevaricante degli interessi antagonisti dei paesi più forti all’interno della Comunità Europea riversa su quelli più deboli le conseguenze negative della crisi, occorre sviluppare un impegno di vasto respiro che ci consenta non soltanto di comprendere le cause che hanno impedito di risolvere il problema del Mezzogiorno, ma anche di individuare in questa fase storica i soggetti, le linee, i contenuti di un possibile e concretizzabile programma di trasformazione e di sviluppo della società meridionale.
4.    È in questa prospettiva in cui il ricordo di Gramsci deve andare al di là del momento celebrativo. Il suo impegno politico, così come il dispiegarsi del suo pensiero costituisce un valido momento di riflessione per tutte le maggiori forze progressive del Paese; non già perché in Gramsci si ritrovino le risposte ai problemi del nostro tempo, ma perché in questo grande politico ed intellettuale sardo si ritrovano alcuni “luoghi nodali”, che allora come oggi irrisolti, ci impediscono di dare sbocchi risoluti
vi alla questione meridionale.
Con Gramsci, con quello che egli rappresentò nelle temperie della crisi che percorreva non solo l’Italia ma l’Europa intera nel primo dopoguerra, ha inizio una tradizione diversa all’interno del movimento comunista.
Da Gramsci parte una diversa prospettiva che, pur insistendo nell’orizzonte del marxismo, che estende i confini nell’appassionata ricerca del consenso, nella consapevolezza della complessità dei meccanismi del potere e dello Stato.
5.    Non pochi sono gli aspetti della vasta problematica che il pensiero Gramsciano ha affrontato su cui è opportuno richiamare l’attenzione.
La presa di coscienza, innanzitutto, che la classe operaia al suo interno e da sola non è in grado di imprimere alla società italiana un processo di mutamento e di trasformazione che si concretizzi nello stato socialista. In Gramsci vi è una consapevolezza crescente dei limiti insiti in una cultura politica imperniata su una concezione “monocentrica” della società: un soggetto – la classe operaia – capace di unificare la società costituendo sia il “punto di vista” dal quale è possibile la sua comprensione, sia il punto di riferimento di un’ampia ed efficace politica di alleanze.
Non è qui il luogo di approfondire nello specifico del pensiero Gramsciano i termini in cui gli articolati rapporti tra classe operaia e partito, tra partito e intellettuali, tra società politica e società civile vengono affrontati nello sviluppo del suo pensiero.
Ma è certo e documentabile che ancor prima delle riflessioni maturate nel carcere, l’istanza di un raccordo tra classe operaia e contadini, tra città e campagna, tra forze politiche e culturali non omologabili entro un unico modello, erano elementi fin dagli inizi presenti nel pensiero Gramsciano che acquistano via via spessore col procedere dell’impegno nella politica attiva.
6. Il tema degli intellettuali e della funzione che essi assolvono nel costituirsi di un nuovo blocco di forze per spezzare il “blocco agrario meridionale” sebbene in modo non compiuto compare nel saggio sulla questione meridionale, come momento tutt’altro che secondario nell’analisi dei punti di forza su cui radicare un processo di trasformazione della società meridionale e nazionale. Sarebbe tuttavia riduttivo fermarsi ai pochi riferimenti – se pur significativi – che appaiono nel saggio sulla questione meridionale per avere una visione compiuta dell’importanza che assume in Gramsci la riflessione sul ruolo degli intellettuali. Così come sarebbe decisamente fuorviante tentare di risolvere la complessità del rapporto tra marxismo e intellettuali in termini di mera “conquista” di questi ultimi da parte del partito.
Per contro è sul terreno in cui si svolge il processo di elaborazione dell’“egemonia” che il pensiero di Gramsci si dispiega sul duplice versante dei rapporti tra partito e intellettuali e tra marxismo (come forma di conoscenza) e altre filosofie della storia.
È il tema quest’ultimo, assai vasto e dibattuto dello storicismo Gramsciano che ha dato luogo – e probabilmente darà ancora – ad interpretazioni diverse, come quelle di chi vi ha visto insito il rischio di un nichilismo teorico (es. Colletti e Kolakowski) o quelle invece di chi vi ha visto un tentativo di formulare un’ideologia comunista in termini originali e non già di mero adattamento dello schema leninista (es. Badaloni, Vacca, Pezzi, ecc.). È certo tuttavia che in Gramsci vi è la consapevolezza della impossibilità di poter trasporre nel campo delle scienze storico-sociali il modello proprio delle scienze della natura.
Nelle scienze sociali non si tratta di individuare “nessi causali” tra accadimenti che ci consentono di prevedere i fatti o gli eventi successivi; invece è possibile la conoscenza, in un “sistema sociale determinato”, delle regolarità e delle sue dinamiche attuali che delimitano gli ambiti in cui fini collettivi ben individuati divengono possibili.
7. Se dunque la classe operaia non esaurisce in sé gli interessi reali (materiali e spirituali) in cui si articola la società, mentre era manifestamente impossibile, nelle date condizioni storiche in cui Gramsci viveva, una rivoluzione come “colpo di Stato”, e se inoltre il marxismo non poteva più concepirsi come un rigoroso modello scientifico, tale da poter essere elaborato dal partito indipendentemente dal concreto apporto storico degli intellettuali, l’esigenza di instaurare un rapporto nuovo tra la politica e il sapere veniva ad assumere un ruolo cruciale nel pensiero di Gramsci.
Un sapere – quello del Moderno Principe – che non può limitarsi ad esprimere una conoscenza astratta universale, valida in ogni tempo e luogo, per ogni qualsivoglia società concreta; ma che per contro deve consentire di prevedere e anticipare le tendenze e gli eventi possibili, innervando in sé la razionalità tecnico-scientifica del mondo per orientare la società in un difficile equilibrio tra antideterminismo e volontarismo, verso un fine rivoluzionario.
È la critica Gramsciana alla funzione cosmopolita degli intellettuali italiani in cui appare esemplare la figura di Benedetto Croce da lui definito come “l’ultimo uomo del Rinascimento che esprime rapporti internazionali o cosmopoliti più che rapporti puramente nazionali” (Gramsci, Quaderni, 7, 17). Più in generale, per ciò che riguarda la storia d’Italia, egli non si limitò alla conclusione, di chiara impronta storicistica, che la funzione degli intellettuali varia secondo le diverse epoche storiche; andò invece oltre, delineando quella distinzione tra intellettuali tradizionali e intellettuali organici, cioè produttori e organizzatori di un sapere che diviene strumento potente, oltre che indispensabile, di trasformazione del reale, capace di offrire alla società quegli strumenti conoscitivi e tecnici necessari ad uno sviluppo non più subalterno.
8 – Da questo punto di vista appaiono sotto una luce diversa le tematiche che informano il saggio gramsciano sulla questione meridionale ed in particolare la specificità che essa assume quale espressione concreta degli interessi del blocco sociale dominante nel Paese.
La territorialità – che è il primo dato emergente di questa specificità – non è dunque un mero elemento geografico, bensì il modo in cui strutturalmente agisce sul territorio il meccanismo di sviluppo di una realtà storico-sociale, le cui conseguenze riversandosi sulla società meridionale in termini di disgregazione (“Il Mezzogiorno -scrive Gramsci – può essere definito una grande disgregazione sociale”) e di sfruttamento sono assimilate da Gramsci a quelle di un paese sotto dominio coloniale:
“La borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento”, scriveva Gramsci riprendendo un brano già apparso sette anni prima sull’Ordine Nuovo, per ricordare — in polemica con i giovani meridionalisti della redazione di Quarto Stato che attribuivano ai comunisti torinesi una presunta “formula magica” con cui risolvere il problema meridionale – che fin d’allora, pur propugnando la divisione del latifondo egli aveva messo in guardia contro le illusioni “miracolistiche”. “Cosa ottiene un contadino povero invadendo una terra incolta o mal coltivata? Senza macchine, senza abitazione sul luogo di lavoro, senza credito per attendere il tempo del raccolto, senza istituzioni cooperative che acquistino il raccolto stesso (se arriva al raccolto prima di essersi impiccato al più forte arbusto delle boscaglie o al meno tisico fico selvatico della terra incolta) e lo salvino dalle grinfie degli usurai, cosa può ottenere un contadino povero dall’invasione?”.
9 – Al di là della metafora il senso della critica gramsciana è chiaro e di stringente attualità. Lo sviluppo economico del Mezzogiorno non può riposare su interventi singolari, per quanto giusti od importanti possano essere reputati. È una critica ante litteram alle tesi di chi confida sulla “straordinarietà” degli interventi per la soluzione del problema meridionale. Se l’asse portante degli interessi del Paese non si sposta, non vi è soluzione percorribile per il Mezzogiorno, né allora né tanto meno oggi in cui l’internazionalizzazione dell’economia, la crescente competitività sui mercati, le tendenze del progresso – tecnologico rendono assai più severi e stretti i sentieri dello sviluppo per le stesse realtà più avanzate del Paese.
La soluzione gramsciana – come è noto – poneva al centro non una generica solidarietà per linee discendenti dello Stato liberal-borghese, ma un’alleanza strategica fondatrice di un nuovo ordine sociale e di un nuovo Stato. La questione meridionale e in particolare la “questione sarda” sarà utilizzata da Gramsci come banco di prova di una grande questione nazionale. In questo quadro, infatti, il ripensamento del modello sovietico nel processo di applicazione alla realtà sociale ed economica italiana, lo porterà a vedere nei Consigli degli operai e dei contadini, prima, e successivamente nella soluzione federalista, lo strumento unificatore dell’alleanza organica fra operai e contadini nella direzione del nuovo Stato.
Ma già in precedenza, come nella lettera a P. Togliatti da Mosca, del 18 maggio 1923,Gramsci aveva indicato nel Partito Sardo d’Azione il soggetto politico privilegiato per studiare il “problema
dei rapporti tra proletariato e classe di campagna”.
Nella realtà italiana del primo dopo guerra infatti – come acutamente rilevava P. Gobetti “la base della nuova vita italiana doveva trovarsi nella formazione di due partiti intransigenti d’opposizione ai programmi riformisti, rivoluzionari nella loro coerenza: il partito operaio e il partito dei contadini. I nuclei iniziali di queste due tendenze sono il partito comunista e le prime organizzazioni agricole del Sud sostenute dal Partito Sardo d’Azione, che si va estendendo ad altre regioni mature ad accoglierlo. Queste sole forze si scorgono oggi capaci di accettare l’eredità della piccola borghesia ormai burocratizzata in tutte le sue manifestazioni” .(P. Gobetti, Manifesto).
10 – L’intuizione gramsciana, che la soluzione del problema del Mezzogiorno e delle Isole poneva al centro la questione dello Stato e della sua articolazione in senso federalista, è tutt’oggi il “nodo irrisolto” sul quale le forze progressista del Paese devono misurarsi.
Il problema non è certo risolvibile sul piano della buona volontà o delle solidarietà personali ma si inscrive e trova la sua genesi nella configurazione dello Stato, sostanzialmente accentratore e autoritario sia nel regime monarchico che dopo l’avvento della Repubblica regionalista, subito aggredita dai difensori di una Patria minacciata nella sua unità e quindi da governare in coerenza ai cosiddetti supremi interessi della collettività nazionale. Accade così che le istanze che muovono dalla coscienza storica di popolazioni vissute nell’emarginazione e nel sottosviluppo e che tendono a denunziare l’ingiustizia per promuovere finalmente una politica capace di definire nuovi assetti di civiltà in uno Stato finalmente restituito ai suoi valori di democrazia, vengano sprezzantemente liquidate come “localistiche”, mentre quelle così spesso realmente locali delle aree del Centro-Nord diventano “interessi nazionali”.
In coerenza con questi presupposti larga parte dell’intervento nel Mezzogiorno è stato pensato non in funzione o nell’interesse di questo ma in vista di una più robusta incentivazione dello sviluppo del centro-nord. Gli investimenti nella petrolchimica e metallurgia di base allontanati dalle grandi concentrazioni urbane del Centro-Nord non appaiono certo finalizzati a stimolare il preesistente tessuto produttivo locale, né a collegarlo con le risorse materiali ed umane disponibili. L’intervento straordinario, con quella carica di suggestione messianica di un possibile incombente miracolo,si è in effetti tradotto in un fatto sostitutivo degli interventi ordinari dello Stato.
11 – Di fronte ad un nuovo atteggiarsi del capitalismo su base planetaria con l’emergere di nuovi rapporti tra aree centrali e periferiche che accentuano i tradizionali squilibri,con l’affermarsi di un nuovo cosmopolitismo culturale e intellettuale, si impone l’esigenza di un’attenta riflessione sull’articolazione e diffusione del potere statuale, e sulle conseguenti nuove forme istituzionali che lo Stato deve assumere.
Da quelle forze, che si rifanno al pensiero del grande politico ed intellettuale sardo ritrovando in esso motivazioni ideali e prospettive cementanti il loro impegno politico per il cambiamento, si attendono risposte coerenti “con le idee, le categorie, le proposte metodologiche di Gramsci che sono in gran parte ancora utili per capire la realtà d’oggi” (Natta, intervista su Gramsci, l’Unità 18 gennaio 1987).
Gramsci non possedeva gli strumenti interpretativi che si affermarono poi nelle analisi condotte sullo sviluppo-sottosviluppo, su rapporti tra centro e periferia.
Nella nuova consapevolezza dell’attuale fase storica del capitalismo occorre interrogarsi sulle conseguenze che discendono dalla forma liberal-ottocentesca dello Stato, non soltanto in termini di emarginazione delle realtà periferiche, ma di impedimento all’affermarsi compiuto di una reale democrazia nel Paese.
Il complesso di poteri e di strumenti in funzione degli obiettivi di sviluppo economico e civile di un popolo, non può essere la risultante di una delega e tanto meno di un decentramento di compiti e funzioni statuali. Né può essere il portato di una cultura chiusa in sé stessa, incapace di aprirsi all’apporto di altre realtà e culture diverse con le quali stabilire un dialogo costruttivo per obiettivi comuni, nella consapevolezza della propria identità, dei propri bisogni e dei propri destini. Nella storia e nel pensiero del Partito Sardo d’Azione per la prima volta il popolo sardo acquista la sua soggettività politica, in un disegno di riscatto dalla sua subalternità che accomuna e non divide le componenti sociali sulla base di un’aprioristica distinzione per classi, nella ricerca di una unità più alta, unificatrice di tutte le forze in campo.
Una linea di movimento alimentato da un pensiero che raccogliendo tutta l’eredità di un diffuso sentimento di reale autonomia sempre presente nella storia del popolo sardo, lo esprimeva in modo “rigoroso e coerente” in una concezione politica che salvaguardando e valorizzando la specificità delle condizioni economiche, sociali e culturali della realtà sarda, riconosceva nel contempo analoga dignità a quella degli altri popoli, come elemento cardine di una comune crescita proiettata sulle scene nazionali e internazionale.
Ed in questa prospettiva gli sforzi che il Partito Sardo andava compiendo per alimentare la crescita di nuove soggettività politiche in altre regioni, non soltanto d’Italia, si esprimeva nella ricerca di rapporti su basi d’egualità, cioè federative, come incontro tra forze politiche diverse, al di fuori di ogni logica di strumentalizzazione egemonica, ma convergenti sull’obiettivo di un comune diritto alla crescita e allo sviluppo.
13 – Il    nuovo assetto istituzionale da dare all’organizzazione
statuale è quindi il nodo centrale che occorre sciogliere perchè il sottosviluppo del Mezzogiorno e delle Isole possa trovare risposte risolutive.
Oggi dobbiamo muovere i nostri passi partendo dall’attuale livello scientifico e tecnologico e dall’internazionalizzazione dell’economia come dalla progressiva liberalizzazione degli scambi e dall’integrazione europea.
Promanano da questi processi vincoli, condizionamenti ed opportunità affatto neutrali rispetto ai diversi tipi di intervento a favore del Mezzogiorno.
Il Paese deve convincersi che il superamento degli squilibri non giova solo al Sud Italia, ma costituisce un interesse oggettivo dell’intera comunità nazionale e della stessa comunità economica europea.
Finirebbero così gli interventi e gli esborsi a favore delle popolazioni nelle aree sottosviluppate eliminando il progressivo depauperamento e degrado di queste in uno al congestionamento di quelle più sviluppate.
L’economia italiana ne risulterebbe rafforzata e più competitiva.
In questo processo non va coinvolto solo lo Stato ma la stessa CEE i cui poteri sovranazionali devono essere potenziati se vogliamo che cessino i piccoli egoismi territoriali e si dia alla solidarietà tra i popoli un respiro internazionale di una più vasta e civile aggregazione democratica.
In questo contesto le Regioni verrebbero ad assumere un ruolo sempre più determinante e protagonista in ragione della loro dimensione che le rende più adeguate di qualsiasi altra istituzione per l’apprezzamento delle specifiche esigenze di sviluppo del territorio.
La Regione appare peraltro l’ente ideale per esercitare il necessario coordinamento delle iniziative nei suoi rapporti da un lato con lo Stato e la stessa CEE e, dall’altro verso gli Enti Locali.
Regioni viste quindi quali strutture di base capaci di esercitare,con la necessaria forza ed autonomia, la politica dello sviluppo.
14 – Libertà democratiche e giustizia sociale sono conquiste che il popolo realizza attraverso le sue Istituzioni. Se queste non funzionano alla democrazia si sostituisce il clientelismo meschino e parassitario, alla giustizia sociale il favore discriminante e prevaricatore. La società viene risospinta nelle strettoie della subalternità, nell’emarginazione del sottosviluppo.
E noi siamo qui per denunciare e contrastare le forme ora eclatanti, ora subdole e surrettizie, che alimentano l’involuzione della vita civile del Paese.
Siamo qui non per postulare elargizioni di sovrana memoria, ma per realizzare con l’affermazione politica delle nostre Istituzioni, con l’impegno civile fermo e coerente delle forze politiche e sociali, degli intellettuali e dei cittadini tutti, uno Stato che, superando il dualismo, e soprattutto le ipocrisie dei localismi, si elevi a Patria fervida e solidale di tutti. Perché le diversità distinguono le varie aree territoriali non in virtù di parametri economici ma di tradizioni, di cultura, valori etnici che nella loro sintesi esprimono un empito di reale unità.