Presentazione del libro “Autonomia Sarda” di Umberto Cardia – Associazione “ Amici del Libro” – Cagliari – 7 febbraio 2000

Dalla lettura dell’opera di Umberto Cardia si rilevano tre elementi dominanti sugli altri.
Addentrandoci nelle avvincenti pagine della sua “Storia di Sardegna” si resta colpiti dalla profondità e compiutezza narrativa delle diverse epoche storiche sì da poterle considerare elaborati l’un dall’altro autonomi, quasi medaglioni nei quali personaggi, linee politiche, sofferenze sociali, subalternità e contrapposizioni, ma soprattutto popolo, escono dalla statica storiografica, distaccata dal semplice succedersi degli eventi, per acquistare palpito di vitalità nell’interpretazione che di questi passionalmente, ma con lealtà e rigore di studioso, Cardia ci propone.
Nondimeno un filo conduttore percorre tutta l’opera, ne rivela la forza unitaria che consente al lettore, attraverso l’analisi delle singole parti, una visione di sintesi dell’intero millennio nel corso del quale si è svolto il dramma di un popolo che, pur dominato, è rimasto indomito, e, pur fra tante contraddizioni, contorsioni, errori ed incoerenze non ha mai cessato di credere in se stesso nella sua soggettività etnica e politica diventando perciò stesso protagonista di storia.
Ed è interessante rilevare, a questo proposito, come Umberto Cardia ne sovverta l’angolo visuale.
Di norma gli storici ignorano le popolazioni assoggettate al dominio di altri popoli, per soffermarsi con tutta la ricchezza del multiforme evolversi degli eventi, sul popolo dominante, sui suoi protagonisti ed eroi.
Il soggetto emergente dalla storiografia del nostro autore è invece il popolo sardo.
Questo rilievo mi consente di sottolineare il terzo elemento che caratterizza e informa di se il travagliato percorso della storia sarda sottolineato da Umberto Cardia: la consapevolezza di costituire popolo unito non solo dall’etnos ma dall’etos, saldamente radicati nel comune patrimonio di esperienze storiche, cultura, comunanza di interessi e di problemi nascenti all’interno della società sarda e, da violenze interne ed esterne all’Isola sino a giungere alla riconquista dell’indipendenza che trova nell’epoca giudicale, il suo momento più alto, il senso di una statualità che lo fa protagonista di storia attraverso alleanze, confronto e scontro con altre statualità.
Cardia si sofferma con particolare rigore analitico su questo aspetto. A differenza di altri studiosi che riportano l’inizio del resistenzialismo sardo alla dominazione cartaginese, o alle devastanti scorrerie dei pastori montanari che, superando gli invalicabili “limes”, – imposti dai magistrati romani – calavano improvvisi nelle ricche pianure per depredarle di risorse materiali e combattere comunque gli odiati occupanti delle loro terra.
Egli ritiene – ed ha ragione – che nell’epoca giudicale fiorisca un compiuto senso dello Stato, della sovranità, così diffusa e radicata da sopravvivere alla sconfitta che matura dopo oltre l50 anni di lotta e più esattamente con la sconfitta di Alagon.
Quindi da Barisone I – incoronato Re di Sardegna da Federico Barbarossa, – (ed ancor prima i “regoli” resisi autonomi da Bisanzio) e per tutta l’epoca giudicale arborense, sino alla fine del Marchesato di Oristano,
si susseguono momenti di sovranità e di attiva resistenza da convincere i dominatori esterni non solo dell’esistenza politica della “Nacion Sardesca”, ma della opportunità di salvaguardarne il Regno quale istituzione autonoma, inserita nella Corona d’Aragona, avente Parlamento, legislazione ed ordinamenti propri che il trattato di Londra del 1718 imporrà ai piemontesi di conservare, rispettare ed applicare nell’amministrazione del popolo sardo .
Altro elemento che ha indubbiamente influito nel radicare nell’animo dei sardi l’appartenenza al Regno Giudicale è stata la capacità dei Giudici di Arborea di abolire gli odiati “limes” imposti dalla dominazione romana e lungamente mantenuti da quella bizantina, che furono all’origine dei drammatici e spesso sanguinosi scontri fra contadini e pastori a causa della fame di terra che li contrapponeva riservando ai contadini le pianure ed agli indocili pastori l’aspro nomadismo delle montagne.
I giudici d’Arborea riuscirono a comporre, o quantomeno a ridurre in limiti fisiologici, questi contrasti favorendo le rotazioni agrarie e quindi una pacifica convivenza fra due componenti essenziali dell’economia agropastorale all’interno di spazi territoriali che per ampiezza consentivano un pacifico alternarsi fra montagna e pianura sia degli uni che degli altri.
Tutto ciò è ignorato, cancellato e sconvolto dall’amministrazione dei viceré stranieri e dalla turba di impiegati e soldati che ne attuavano le disposizioni; lo scontro si riaccese acuto e virulento facendo rimpiangere la serena convivenza garantita dalla saggezza autorevole di chi amministrando non esercitava solo potere ma una sollecitudine tutelare volta alla felice convivenza dei sudditi.
Umberto Cardia si sofferma altresì con particolare rigore d’analisi sull’oppressiva spoliazione subita dai Sardi ad opera di un’aristocrazia feudale iberica tanto ingorda quanto assenteista che esercitava il suo devastante potere attraverso zelanti vassalli, ancor più famelici dei loro padroni.
Nè il popolo poteva contare sulla solidarietà della Chiesa, popolata da canonici in occhiuta attesa delle decime sui raccolti dei poveri contadini e guidata da vescovi, lontani cento anni luce dai loro fedeli ai quali indirizzavano, nelle ricorrenze rituali, omelie in spagnolo, lasciando all’interprete di turno il compito di tradurle alla folla silente dei fedeli.
Nondimeno Umberto Cardia coglie una sostanziale diversità fra la dominazione iberica e quella ben più gretta ed oppressiva piemontese.
I    primi infatti pur considerando il Regno di Sardegna soggetto alla Corona d’Aragona ne hanno rispettato l’esistenza, le istituzioni che ne articolavano l’esercizio della sovranità (Reale Udienza, Stamenti e Parlamento), la legislazione e gli ordinamenti pur, affidandone l’amministrazione a gerarchie, civili e militari di nazionalità spagnola.
II    regime era evidentemente coloniale con tutte le implicazioni derivanti da tale status.
Nondimeno, osserva Cardia, la Corona di Aragona lasciava aperti spiragli suscettibili di dischiudere ben più ampi orizzonti nei rapporti fra i due regni.
A supporto di tali riflessioni richiama non solo l’istituzione delle università di Sassari e di Cagliari, ma il sostanziale rispetto del Parlamento sardo convocato inizialmente con periodicità decennale successivamente triennale.
È pur vero che l’argomento principale – spesso esclusivo – sul quale era chiamato a pronunziarsi riguardava i donativi, gli spillatici e balzelli vari da conferire alla Corona d’Aragona, ma, era pur sempre possibile ai membri del Parlamento dei diversi stamenti in cui era articolato, proporre e discutere temi e problemi di interesse generale da sottoporre all’esame del viceré e, se del caso, al potere sovrano di Spagna.
Non solo ma al vertice del Regno Sardo operava la Reale Udienza composta prevalentemente da personalità dell’aristocrazia indigena i cui compiti andavano ben oltre quelli istituzionali esplicando larga parte delle funzioni amministrative di cui rispondeva esclusivamente al viceré.
Sottolinea Umberto Cardia come la Corona d’Aragona guardasse ai rapporti coi sudditi della colonia sarda senza preclusioni politiche tanto che quando nel 1710, le opportunità politiche ne hanno consigliato l’investitura, Francesco di Castelvì Aimerich, marchese di Laconi, è stato nominato – primo e unico sardo – vicerè di Sardegna.
È bensì vero che con tale scelta la Corona d’Aragona sperava attrarre a sé l’aristocrazia e la nascente borghesia sarda e – con esse – il popolo nello scontro aperto fra (comune ramo dinastico) Spagnolo e quello Austriaco; ma tale formale e solenne riconoscimento costituisce, di per sé, un rilievo politico che diventa precedente storico.
Maturava infatti nella valutazione di vasti settori della cosiddetta “classe dirigente” di origine o radicamento sardo la speranza che i processi evolutivi della politica avrebbero consentito ai Sardi di governare il proprio regno non più subendo i diktat della Corona d’Aragona, ma utilizzando le opportunità offerte dal farne parte, per inserirsi nelle correnti di traffico economico mediterraneo, ed europeo.
Va da se che tutto ciò si fondava su premesse che, pur sussistendo nel quadro dei rapporti istituzionali fra i due regni, avevano avuto nei fatti ben scarso sviluppo ed erano per tanti versi contraddetti dalla politica dei Viceré.
Umberto Cardia non manca infatti di rilevare come tanto i viceré iberici come quelli piemontesi fomentassero le divisioni interne fra sardi rinfocolando ad esempio le antiche contrapposizioni fra Capo di Sopra e Capo di Sotto, o sull’attribuzione del ruolo di Primate della chiesa sarda all’arcivescovo di Cagliari o a quello di Sassari.
Né fu certamente estraneo il ruolo del Viceré nel favorire per esempio lo scontro fra l’aristocrazia affarista, parassitaria e corrotta e la nascente borghesia impegnata nel combattere il torbido operare dei maggiorenti collusi con le burocrazie sarde ed iberiche.
Cardia coglie infatti con grande efficacia narrativa il malessere sociale derivante dallo scontro fra ceto sociale dominante, inerte e parassitario e ceto emergente, culturalmente sensibilizzato dalle nuove correnti di pensiero diffuse in Europa dall’illuminismo francese, insofferente delle pietrificate concezioni del potere statuale e religioso ed aperte al tumultuoso evolversi delle correnti commerciali che avevano impresso all’economia ritmi ormai incompatibili con l’inerzia redditiera dell’aristocrazia feudale.
Cita a conferma di ciò, quale esempio emblematico della corrutela favorita dai poteri forti, il sacrifico di Sigismondo Arquer, condannato al rogo dalla Santa Inquisizione, con formale accusa di eresia ma, in sostanza, perché quale avvocato fiscale del Regno Sardo, aveva denunciato gravi illeciti dell’aristocrazia iberico- sarda nell’acquisizione e commercio del grano sardo.
In questo clima, che proietta le pensanti ombre dell’oppressione iberica, il Regno di Sardegna passa, dopo un breve parentesi austriaca, sotto il dominio dei principi di Piemonte.
L’oscurantismo provinciale di questi aristocratici, cresciuti in virtù di servizi resi a diverse case regnanti, era limitato dall’esperienza ed organizzazione di governo regionale piemontese e perciò del tutto impreparata a guidare ed amministrare un popolo avente storia, problemi, cultura, economia, tradizioni e lingua del tutto sconosciuti.
Va per altro rilevato come supporti del governo sabaudo, oltre il potere assoluto del principe, erano costituiti da una forte componente di militarismo aristocratico e, sul piano culturale, dominato dal gesuitismo piemontese del tutto funzionale al potere assoluto del sovrano.
I sardi, che avevano sino ad allora guardato con interesse alla cultura italiana, nelle cui università molti giovani andavano a laurearsi, dovettero ben presto fare i conti col gretto assolutismo dei nuovi dominatori dai quali erano guardati con diffidente e malcelato disprezzo e da questi ricambiati con anti piemontesismo viscerale che persisterà per tutto il periodo della loro dominazione per attenuarsi e confondersi in una italianità che, nonostante tutto, è ancora parzialmente incompiuta.
Particolare pregio ed originalità conferisce all’opera di Cardia l’aver inquadrato la storia del millennio sardo nel contesto internazionale consentendo al lettore una più incisiva e puntuale valutazione degli eventi e sviluppi che hanno determinato decisioni, comportamenti, speranze e delusioni del mondo sardo.
La politica della Corte evidenzia sin da subito l’insoddisfazione d’aver ottenuto (in cambio della rinunzia di Nizza e della Savoia a favore della Francia) anziché un ricco territorio di terraferma quale la Lombardia o la Liguria, un reame povero e semi desertico, difficile da governare e soprattutto da sfruttare.
Cardia infatti non manca di mettere in evidenza le reiterate iniziative tentate dalla Corte di Torino per liberarsi della Sardegna in cambio di più favorevoli opportunità offerte dall’evolversi del processo storico così ricco di fermenti innovatori.
L’eroismo dei miliziani sardi, guidati da Pitzolo e da Sulis, nel resistere al tentativo di occupazione dell’Isola ad opera della flotta guidata dall’ammiraglio Troguet, (assistita dall’artiglieria comandata dal giovane capitano Napoleone Bonaparte) sembrava aver conquistato la stima e la riconoscenza del sovrano, per cui d’accordo col Viceré venne inviata a Torino una delegazione composta da alte personalità dell’aristocrazia e del clero sardo con il compito si sottoporre al sovrano la richiesta della riapertura del Parlamento Sardo (da riconvocare con periodicità quinquennale); l’istituzione di una sorta di Consiglio di Stato per il riesame di possibili illecita amministrative commesse dai pubblici poteri, la riserva ai sardi degli impieghi riguardanti la pubblica amministrazione, fatta eccezione per il Viceré.
Sta di fatto che la delegazione subì un umiliante anticamera perdurata per quasi un anno e la risposta, sostanzialmente negativa, fu notificata direttamente, per iscritto, al viceré ignorando così la delegazione ancora presente a Torino.
Vari e complessi furono gli intrecci e gli interessi politici che si susseguirono in quell’arco di tempo.
Ciò che interessa rilevare, e Cardia lo coglie con grande sensibilità, è che l’aristocrazia indigena sempre più partecipe e protagonista dei processi di sviluppo borghese della società produttiva, culturalmente aperta alle correnti di pensiero maturate in Europa e diffuse dalla rivoluzione francese, pur non contestando la monarchia esterna, reclamava sempre più autonomia di governo e contestava l’anacronistica sopravvivenza del potere feudale.
I circoli più avanzati della società Cagliaritana ed in misura diversa ma non meno intensa, di Sassari e di altre contrade di Sardegna, guardavano con simpatia e solidarietà alle rivolte contadine che in decine di paesi manifestavano contro l’ingordo parassitismo dei signorotti locali.
Con molta sensibilità politica Umberto Cardia coglie in questi eventi non i singoli episodi come fenomeni d’insofferenza contadina, (così come molti storici hanno preteso di presentarli) ma i chiari segni del crescente resistenzialismo sardo contro l’oppressione incompatibile con la dignità di un popolo che aspira all’indipendenza ed all’autogoverno.
A questo proposito Umberto Cardia ricorda come Antonio Gramsci riconoscesse valore resistenziale anche alle violenze poste in essere da un banditismo scatenato dalla fame che decimava le popolazioni isolane.
In questo clima di crescente diffuso fermento maturano i moti angioiani, visti dall’autore come momento alto dello scontro fra il ceto feudale ed il popolo angariato dalla loro intollerabile oppressione.
Angioy è quindi visto come condottiero di una riscossa sociale volta a liberare la Sardegna dai residui di istituzioni ormai morte nella coscienza civile di tutti i popoli europei.
In questo suo operare aveva, non solo il favore della grande massa dei cittadini, degli intellettuali, del basso clero (che viveva a diretto contatto col popolo) ma altresì dell’aristocrazia progressista sensibilizzata dalle drammatiche lotte perla libertà divampate in Europa e nel mondo, favorendo con il fiorire di una moderna borghesia l’indipendenza dei popoli americani dalle dominazioni europee, mentre sulle rovine dei vecchi poteri aristocratici, si andavano formando i moderni Stati nazionali.
Ed è forse in questo contesto, che esaurito lo slancio eroico dei moti Angioini, ed ancora vivi nella memoria i sinistri patiboli sui quali furono sacrificati a migliaia poveri contadini sconosciuti ed illustri figure di patrioti, sul finire del secolo, un gruppo di politici sardi, cui non era estraneo l’alto clero, pensarono che facendo del Regno di Sardegna un’istituzione comune a Sardi e Piemontesi si potesse realizzare la fusione perfetta fra i due popoli.
Cittadini dello stesso Stato con pari diritti e doveri.
Così dopo 800 anni finì il Regno di Sardegna nell’illusione di dare ai cittadini sardi le stesse opportunità di crescita e di sviluppo dei piemontesi.
Non tardarono però ad accorgersi gli stessi proponenti del tragico errore; sarà proprio Siotto Pintor a dire amaramente a questo proposito: “Errammo tutti”.
Vennero infatti, estesi per effetto della infausta fusione, alla Sardegna gli ordinamenti giuridici ed istituzionali piemontesi: dal catasto al sistema fiscale, dagli uffici del registro, ai poteri diretti e coattivi che anche i modesti funzionari di periferia potevano esercitare sulla pelle dei Sardi.
Le conseguenze furono catastrofiche; in meno di 10 anni in Sardegna si praticarono oltre 14.000 espropriazioni coattive per debito d’imposta, mentre nello stesso periodo in Piemonte non si raggiunse la cinquantina dì casi.
Tornarono così al demanio vastissime terre che il governo concesse ai boscaioli piemontesi assestando la prima e più forte ferita ecologica all’equilibrio naturalistico del patrimonio forestale sardo.
Centinaia di migliaia di ettari di boschi di leccio, quercia, rovere, sughera e vaste contrade di terre olivastrate che facevano della Sardegna la mitica “Isola verde”, furono ridotte a pietraie desolate innescando un processo di desertificazione dal quale l’ambiente naturale sardo non si è più ripreso.
D’altra parte, ben prima della cosiddetta fusione perfetta, il Parlamento era stato soppresso e degli Stamenti era autorizzata a parlare solo la “Voce” che peraltro doveva limitarsi a confermare le cifre che a titolo di donativo venivano fissate e richieste dalla Corte alla comunità dei Sardi.
Cancellati così anche i simboli del diritto di parola ed imbavagliato il regno dei coloni sardi, il governo piemontese individuava le personalità emergenti isolane e per scongiurare il pericolo che facessero causa comune con il popolo guidandolo alla rivolta, le onoravano chiamandole a Corte e investendole di autorità e poteri funzionali al consolidamento dell’oppressione coloniale.
Colonizzazione che non si limitava allo sfruttamento economico delle disastrate risorse, ma mirava ad annientare sul nascere l’insofferente resistenza popolare uccidendone l’anima, la cultura, la lingua, l’identità e favorendo nel contempo la piemontesizzazione dei sardi.
Piemontesizzazione limitata a ruolo subalterno che, per tanti versi, pur in assenza di specifica volontà politica di successivi governi, si protrae ancor oggi in ragione dei pesanti ritardi accumulati in oltre un secolo di emarginazione economica e, per tanti versi, anche politica.
Né la condizione della Sardegna migliorò con la costituzione del Regno d’Italia; questo infatti venne visto dai politici di Corte, in termini di annessione e piemontesizzazione dei nuovi territori.
Non meraviglia quindi come sin da subito si ebbero nel Sud Italia, (per tanti profili sia culturali che di sviluppo economico, più avanti del Piemonte contadino), fenomeni di violenta reazione subito qualificati banditismo e come tali, repressi con spedizioni militari cui seguivano i lugubri spettacolari patiboli utilizzati per esemplari esecuzioni capitali cui far assistere le popolazioni stremate dall’impari lotta e terrorizzate dalla violenza di stato.
Emersero in questo contesto nobili figure di patrioti sardi; non contestavano l’appartenenza della Sardegna allo Stato italiano, ma si batterono in sede parlamentare per la sua riforma in senso federale.
Si stagliano sull’orizzonte politico di fine ottocento le figure del repubblicano Giorgio Asproni, dell’indipendente Musio e del federalista, duramente antimonarchico, Giovanni Battista Tuveri.
Sorda a queste istanze la classe dirigente piemontese non tardò a stringere alleanza con la ricca borghesia del Nord Italia e coi notabili latifondisti del Sud, saldando così nuovi e più potenti interessi che assicurando certezza di governo, sostituivano le tramontate gerarchie dell’aristocrazia feudale.
Dietro queste alleanze si intrecciavano infatti potenti interessi che non tardarono a trasformarsi in legislazione volta a favorirli con devastante danno degli esclusi chiamati solo a sostenere o più semplicemente a pagarne il costo economico e politico.
A protezione della nascente industria insediatasi in tutta l’area padana vennero disposte barriere doganali che praticamente rendevano antieconomico importare dall’estero, macchine e prodotti dall’industria italiana.
Si è così dato vita ad una forma iniqua e devastante di parassitismo economico che, mentre arricchiva le regioni del Centro Nord, trasformava il Sud contadino in mercato di consumo costretto a pagare il sovrapprezzo dei maggiori costi delle produzioni italiane rispetto a quelle della concorrenza internazionale. In breve, l’Italia del sud e le isole sono state trasformate in colonie interne destinate a sostenere con il loro sottosviluppo, lo sviluppo del Nord.
Cento e più anni di questa politica hanno consolidato uno squilibrio strutturale accentuato dal realizzarsi in tutto il Nord Italia di moderne opere pubbliche e grandi infrastrutture civili ed industriali; edifici scolastici, ospedali, acquedotti, strade, opere di bonifica gigantesche quali il “Canale Cavour”, che costò all’atto della sua realizzazione ben più del valore delle terre che doveva bonificare.
Le battaglie dei politici sardi già citati e, più avanti, dell’on. Francesco Cocco Ortu, non sortirono risultati sostanziali suscettibili di modificare in alcun modo il progressivo distacco economico e civile fra le due Italie : quella privilegiata del Nord e quella emarginata del Sud.
Si ottennero, infatti provvedimenti adottati sotto l’urgere di drammatici moti popolari che sfidavano le pur dure repressioni attuate con imponente dispiegamento di truppe. Provvedimenti tampone di cui riusciva a beneficiare una piccola, irrilevante minoranza di operatori agricoli.
Vincendo l’isolamento politico ben più pesante di quello geografico, nei ristretti circoli della borghesia intellettuale sarda si viveva un fervore culturale di respiro internazionale.
Già negli ultimi anni del secolo, oltre i due quotidiani “L’Unione Sarda” e “La Nuova Sardegna” si pubblicavano in Sardegna periodici nell’ordine di alcune centinaia.
I lettori, dato il generale analfabetismo, non erano moltissimi ma diffusamente presenti in tutta l’Isola.
L’antico resistenzialismo aveva così modo di diffondersi ben oltre i circoli culturali per diventare fatto di popolo capace di dar vita a veri e propri fatti insurrezionali che il governo si sforzava di reprimere con ferocia e violenza militaresca.
Nel primo decennio di questo secolo si segnalano , per fervido attivismo politico-culturale i circoli radical-repubblicani di Sassari cui non erano estranei giovani nuoresi che ivi frequentavano gli studi; anche a Cagliari si sviluppava un appassionante dibattito fra i cui animatori emergevano Umberto Cao e Egidio Pilia, assertori tenaci del diritto dei sardi all’autogoverno in virtù di soggettività politica che affondava le sue radici nella storia dei secoli.
Fu indubbiamente la guerra del 1915-18 a far maturare sul piano politico una classe dirigente che seppe guardare oltre gli orizzonti del loro tempo comprendendo che la politica non è solo gestione e difesa dell’oggi ma progetto di futuro ed incombe sui politici intuirne le linee di tendenza per guidare i popoli sulle vie maestre attraverso le quali realizzare progresso e civiltà.
L’immane carneficina scatenata dalla prima guerra mondiale vide emergere l’eroismo dei sardi come valore assoluto cui tutto il Paese guardava con commozione e gratitudine, ma vide altresì un profondo processo di italianizzazione, mai per l’innanzi così intenso, proprio in quelle masse popolari che avendo vissuto la guerra erano sopravvissute allo sterminio.
I Sardi non si sentirono cioè truppe coloniali soggette al comando degli italiani, ma italiani che avevano contribuito all’onore e alla grandezza del Paese e ponevano, con grande fermezza, il problema della riforma dello Stato per sanarne l’iniquo squilibrio esistente nord – sud e riunire finalmente in una solidarietà operante e fattiva le due Italie.
Tutto questo era possibile nel loro progetto solo restituendo ad ogni realtà territoriale ed umana il diritto di esprimersi attraverso istituzioni di governo secondo la propria genialità creativa in virtù di esperienze storiche, cultura, tradizioni e valori suoi propri, diversi e, per certo verso, unici nel contesto nazionale.
Tradotto in termini istituzionali questo era federalismo. E in Sardegna fu proprio il movimento degli ex combattenti a proporre questa concezione innovativa e moderna dello Stato capace di trasformare i sudditi in cittadini finalmente responsabili delle proprie scelte in un confronto democratico che per sua natura si sviluppa primariamente fra i cittadini della piccola comunità estendendosi per cerchi concentrici, dal paese alla Regione, allo Stato ed all’Europa in un rapporto duro, costante ma fecondo con i diversi livelli istituzionali investiti di responsabilità.
I sardi rivendicarono in particolare la libertà dei commerci internazionali, strangolati a suo tempo dal governo italiano con l’istituzione delle barriere doganali.
Appare del tutto evidente l’intento che con tale rivendicazione si proponessero i combattenti: riconquistare ai sardi il diritto a considerarsi non appendice periferica d’Italia ma cuore pulsante del Mediterraneo, centro e snodo di commerci che per un’Isola, costituisce la sola possibilità di sviluppo.
Questo programma si trasfuse poi, con gli arricchimenti che la vecchia e nuova militanza vi hanno profuso, nel Partito Sardo d’Azione che si costituì nel 1921.
Ciò che dimostra quanta sensibilità ed intuizione politica vi fosse nei padri fondatori di questo nuovo movimento è l’aver capito che lo Stato regionalista era una soluzione parziale del problema posto che i rapporti internazionali, appena conclusi con una guerra vittoriosa, potevano nel tempo deteriorarsi e riprecipitare i popoli in una nuova e più devastante carneficina.
Proposero quindi il regionalismo come permessa necessaria ad un più vasto ed articolato internazionalismo da definirsi con la costituzione federale degli Stati Uniti d’Europa.
Questo concetto emerge, con inconfondibile chiarezza, nella parte conclusiva di una polemica lettera aperta indirizzata da Camillo Bellieni al separatista Riccardo Farris: “Essere Sardi non significa negare l’Italia come non significa negare l’Italia sentirsi Europei. Vi è una coscienza europea che si è venuta costituendo attraverso il macello degli scorsi anni e che si estrinseca attraverso l’autonomismo regionalista che pervade tutto il vecchio continente. Regione, nazione, internazionalismo europeo sono realtà concreta del nostro spirito maturato attraverso la passione”.
Ed ancora nella relazione del secondo congresso di Oristano del 1922: “Come altrove abbiamo già detto il nostro autonomismo è preparazione  all’internazionalismo, non inteso però come semplicistico abbattimento di frontiere ma come accordo di interessi perla creazione di una forma statale che superi le attuali divisioni nazionali. Il Mediterraneo occidentale è tutto pervaso da questi fremiti di vita nuova. Per gli Stati Uniti d’Europa noi abbiamo risollevato in faccia all’impetuoso Mediterraneo il vessillo dei Quattro mori”.
Certo i sardisti non erano soli nel combattere per l’autonomia, ma pare in questo momento non particolarmente significativo vedere quale apporto al primo fiorire della battaglia autonomistica abbiano dato le altre formazioni di sinistra, socialisti e comunisti. Soprattutto questi ultimi costituivano allora minoranza così esigua da non presentarsi neppure alle elezioni.
È bensì vero, come sottolinea Cardia, che al di la del sardo-mondiale Antonio Gramsci, figure nobilissime di militanti comunisti sardi sfidarono allora la prepotenza fascista subendo persecuzioni, carceri ed esilio; personalità che fanno onore alla storia stessa del comunismo sardo ed alla Sardegna.
Ma il rapporto produttivo di effetti che incidono nella storia di oggi fra sardisti e comunisti s’è sviluppato con alterne vicende dopo la caduta del fascismo e soprattutto nella elaborazione del progetto autonomia.
Consentitimi a questo punto di dare atto con commosso affetto a Umberto Cardia della lealtà con la quale ha affrontato questo ultimo cinquantennio di storia vincendo se non totalmente, certo in larga misura, la passione che lo ha sempre generosamente animato nella sua militanza di comunista.
Discostandomi dal suo convincimento ritengo che Gramsci non guardasse al Partito Sardo come soggetto politico col quale stringere alleanze; infatti, prendendo atto del suo radicamento nel consenso popolare, tentò di dividerne le forze accusando un’ipotetica destra di rallentare e vanificare l’impegno di lotta della cosiddetta sinistra lussiana.
A documento di questo indirizzo, resta la lettera ispirata da Gramsci che l’on. Grieco, a nome dell’internazionale contadina moscovita avrebbe dovuto recapitare ed illustrare, se non gli fosse stato impedito dalla polizia, al IV congresso del Partito Sardo riunito in Oristano.
Fu lo stesso Lussu, scrivendo a Grieco, a respingere le accuse, ricordando come fu quella cosiddetta destra ad opporsi con grande determinazione e passione politica al confluire del Partito Sardo nel Partito fascista.
Fu merito infatti dell’impegno unitario della dirigenza sardista, di cui Lussu guidava la minoranza, se in quella circostanza al fascismo passarono solo singole persone.
Umberto Cardia condivide il pensiero di Gramsci sulle due anime sardiste divise e lacerate dal contrasto fra sinistra e destra.
Mentre – così penso – il problema che travagliava il Partito Sardo, come per altro tutti i partiti democratici, era costituito allora dalla necessità di organizzarsi per resistere alla violenza fascista.
Cardia ha invece ragione quando accusa i sardisti d’aver lasciato cadere le proposte federaliste del Partito Comunista d’Italia di cui al congresso comunista di Lione fu proprio Gramsci il più fervido e lucido sostenitore, ma lo stesso Cardia non manca di dare atto che quel federalismo ben difficilmente poteva essere accettato dai sardisti perché presupponeva la sovietizzazione socialista dell’Isola, inaccettabile prima di ogni altro dallo stesso Lussu.
Umberto Cardia non è uno studioso che concepisce la storia come arida narrazione dei fatti nel loro succedersi cronologico ma ricerca, con passionale partecipazione, di ogni evento cause ed effetti, proponendoli alla riflessione del lettore con estrema lealtà che nasce dal suo rispetto della verità.
Nella lettura delle pagine nelle quali si rivive l’istituzione e l’operare della Consulta e quindi della Costituente si coglie il tormento del fervido autonomista Umberto Cardia, costretto a dare atto del profondo mutamento, rispetto al congresso di Lione, della dirigenza comunista sul tema dell’istituzione statale.
Congresso di Colonia o meno Velio Spano, Renzo Laconi ed Antonio Dorè in Sardegna opposero all’autonomismo sardista un netto rifiuto accedendo solo all’ipotesi di un alleggerimento burocratico attraverso, il decentramento amministrativo.
Fu, come ricorda Umberto Cardia, Palmiro Togliatti a richiamare i compagni sardi ad una più coraggiosa apertura autonomistica sollecitando a tal fine un rapporto di collaborazione ed alleanza fra Partito Comunista e Partito Sardo d’Azione.
È però sempre Umberto Cardia a ricordare come Togliatti e Renzo Laconi, opponessero, in sede costituente un netto rifiuto a qualsivoglia riferimento al federalismo e quindi alla larga autonomia proposta dai sardisti.
Ma lo Statuto, mutilato ed asfittico quanto si vuole, venne nondimeno approvato e trovò in Sardegna attuazione con le prime elezioni regionali del 1949.
Mi sia consentito a questo punto, con tutto l’affetto e la grata amicizia che mi lega ad Umberto Cardia, dissentire da alcuni rilievi politicamente significativi riferiti al comportamento dei sardisti durante il fascismo e nel difficile avvio dell’istituto regionale.
Cardia distingue fra il coraggio mitico di Emilio Lussu che combatté il fascismo in Sardegna ma soprattutto in esilio, mentre i sardisti rimasti nell’Isola si sarebbero chiusi in un inerte silenzio rinuciatario ed attendista; è certo vero quanto giustamente si afferma nell’esaltare la figura di Emilio Lussu così come è altrettanto vero che al suo fianco e a sua difesa, quando fu arrestato per i fatti di Piazza Martiri, nonostante le minacce delle squadracce fasciste, vi era Pietro Mastino, che non ebbe paura d’accusare i fascisti di aggressione dimostrando come Lussu dovette difendersene, ottenendo così l’assoluzione per aver agito per legittima difesa.
Né fu inerte l’antifascismo dei sardisti che decisero di restare in Sardegna a testimoniare attivamente il loro dissenso dal regime.
Certo il loro operare non suscitava clamore anche perché i giornali non ne parlavano ma le perquisizioni, improvvise e sconvolgenti, che investivano le case dei sardisti erano non solo sopraffazioni e violenze gratuite, ma soprattutto minacce implicite di persecuzioni ben più gravi. Potrei fare nomi di giovani ai quali fu negata la tessera del partito e quindi il lavoro solo perché legati da parentela con sardisti militanti.
Di alto significato politico fu la sospensione dall’albo forense, la degradazione militare e la revoca delle medaglie al valore guadagnate in guerra, subite da Luigi Oggiano e Gonario Pinna per essersi rifiutati, in una pubblica udienza del Tribunale di Nuoro, di esprimere alcun cordoglio per la morte del Duca d’Aosta, notoriamente fascista e comunque complice, come il Re, del Regime Fascista.
Lo stesso Antonio Dore, comunista, arrestato e mandato al confino durante la guerra d’Etiopia, frequentava allora, direi quotidianamente, le case dei sardisti nuoresi, che lo accoglievano, lo proteggevano e l’aiutavano in un momento per lui assai difficile.
No, i sardisti, per tutto il ventennio fascista furono punti di riferimento e testimoni di un’altra verità che il popolo non aveva dimenticato e che leggeva nel loro antifascismo militante.
Nell’immaginario popolare Lussu restava l’eroe mitico che con il ritorno avrebbe guidato i sardi a liberarsi dagli oppressori esterni e dai loro cortigiani locali per riproporre con gran forza, da sardo, l’interrotto discorso della riforma dello Stato. La caduta del fascismo riaccese infatti in tutta l’Isola speranze e fervore di iniziative per riconquistare quella soggettività che avrebbe restituito ai Sardi ruolo protagonista nel processo politico in tumultuosa  evoluzione. Si viveva un sardismo diffuso che attendeva soltanto il mitico capo per la grande mobilitazione.
Ma Lussu non era più sardista.
Tornò come capo di un partito italiano nel quale tentò di fare confluire il Partito Sardo. Poiché l’operazione non riuscì conservò per alcuni anni la doppia tessera sino a che dissolto, per mancanza di elettori, il Partito Italiano d’Azione, Lussu tentò la confluenza nel Partito Socialista Italiano.
Poiché la maggioranza del Partito Sardo volle conservare la propria identità ed indipendenza politica, Lussu ed una parte di militanti uscì dal partito per dar vita, inizialmente a un Partito Sardo Socialista che confluito però, meno di un anno dopo, nel Partito Socialista Italiano.
Lo scontro non fu quindi, come pensa e afferma Cardia, fra una cosiddetta ala di sinistra contrapposta alla destra, ma tra Lussu che voleva la liquidazione del P.S.d’Az. e la maggioranza degli altri che ne hanno conservato ruolo ed impegno politico.
L’uscita di Lussu fu naturalmente un trauma lacerante sul piano affettivo ma soprattutto politico. L’empito autonomistico perse slancio e credibilità. La delusione dei militanti si trasformò in disgregazione che indebolì sia i secessionisti Lussiani che il partito divenuto ingenerosamente bersaglio delle peggiori accuse mosse dalle sinistre in genere ed ovviamente anche dalle destre. Sembrava dissolversi la forza resistenziale che aveva dato palpito e speranza alla sofferenza plurisecolare dei sardi.
Lussu lasciò con dolore il Partito Sardo senza peraltro rinunziare mai, ogni volta che ne ebbe la possibilità, di fare sardismo fervido sincero ed appassionato.
Ma la militanza nel partito nazionale da lui scelto e nel quale ricopriva ruolo di alta responsabilità lo costrinse a subire tali e tanti condizionamenti per cui, di delusione in delusione, visse il dramma di una solitudine ben più amara dell’esilio e dello stesso carcere fascista.
In sintesi: fu un’occasione perduta per la Sardegna. Sarebbe però ripeto grave errore storico attribuirne la causa allo scontro fra sinistra e destra del Partito anche perché va dato merito alla componente sardista delle prime Giunte Regionali, l’avvio di una politica di alto significato autonomistico, anticonservatrice di forte contenuto progressista. Qualche esempio: la sfida al più grosso monopolio industrial-finanziario della produzione e distribuzione dell’energia elettrica.
Gli assessori sardisti dell’industria diedero vita all’Ente Sardo di Elettricità, costruendo inizialmente la Centrale di Porto Vesme e quindi la Super Centrale di Carbonia creando una disponibilità energetica per cui poterono essere allacciati ben 160 paesi per l’innanzi immersi ancora nel buio dei millenni.
Né meno duro fu lo scontro con la Fiat, chiamata allora Satas, per rompere il monopolio dei trasporti sardi, passando in meno di un anno, da 7.000 Km. giornalmente percorsi dai servizi di linea ai quasi 20.000 con i quali fu possibile raggiungere gran numero di paesi dapprima esclusi dai collegamenti.
Che dire poi della lotta contro lo sfruttamento esercitato sulla massa dei produttori agropastorali sardi dagli industriali caseari, (sostanzialmente Galbani e Locatelli) e quelli gravanti sull’oliviticoltura.
In pochi anni fiorirono in Sardegna decine e decine di caseifici e cantine ed oleifici sociali che riprendendo la politica del movimento dei combattenti fatta propria dal P.s.d’Az. offriva ai pastori e contadini riuniti in cooperativa la possibilità di affrancarsi dai loro sfruttatori trasformando ed industrializzando in proprio le rispettive produzioni agro pastorali.
Gli scontri della Giunta Regionale con i governi furono numerosi e serrati tanto che Lussu stesso ebbe a lodare la fermezza della Giunta Regionale e della componente sardista in occasione del finanziamento del r Piano di Rinascita.
L’analisi di Umberto Cardia dura, severa quanto leale è in questo senso influenzata dalla sua passione di militante non già distorcendo i fatti ma interpretandoli in un’ottica nella quale cultura e passione militante aprono, com’è ovvio, spazio al dialettico confronto delle diverse opinioni.
Il tanto criticato liberismo sardista ad esempio non è che il tenace impegno di aprire la Sardegna ai mercati internazionali; la zona franca, caposaldo della lotta sardista, ne è lo strumento d’elezione, unico possibile per vincere le diseconomie dell’insularità ed attrarre dall’esterno capitali d’investimento, inesistenti nell’economia sarda.
Per anni il Partito Comunista ha contrastato questa nostra rivendicazione di cui oggi stanno beneficiando città ed economie regionali italiane che rispetto alla Sardegna si sono mosse con decenni di ritardo. I benefici per loro sono già operanti mentre per noi è ancora speranza e promessa.
Ha ragione comunque Umberto Cardia quando afferma che, nonostante gli errori, le tensioni ed i contrasti fra i partiti progressisti che credono nell’autonomia, i sardi hanno oggi parlamento e governo regionale divenuti roccaforte attorno alla quale stringersi per la aprire alle nuove generazioni le vie del futuro.
Dopo l’epoca giudicale è questa sicuramente, con tutti i suoi limiti, la più grande conquista del popolo sardo.
Oggi esistono due istituzioni: la Regione e l’Europa, nate dopo il secondo conflitto mondiale ma politicamente intuite e proposte sin dal suo costituirsi dal Partito Sardo. Oggi sono realtà operanti ancorché impegnate in un cammino difficile, contrastato, ma limpidamente tracciato dalla lungimirante sensibilità e passione politica dei padri fondatori.
Il libro si ferma qui ponendoci più che un interrogativo un ammonimento propositivo. Che fare? La risposta è quella della fiducia e del coraggio.
Non possiamo lasciarci distrarre da un contingente, o se si preferisce, da una congiuntura politica difficile, travagliata, nella quale la seduzione delle immancabile promesse che ci vengono dall’esterno distraggono ed abbagliano troppi sardi.
Chi vive nel proprio cuore il palpito di quell’antico resistenzialismo sa che libertà e progresso non sono mai dono del principe ma conquista di popolo.
Noi sardi dobbiamo trovare in noi stessi la capacità e la forza di progetto per dischiudere alle nuove generazioni le vie del futuro. Non è un impegno di breve periodo nè di facile conquista.
A contrastarne la prospettiva non sono più gli eserciti né le carceri ma l’intreccio di potenti interessi che puntando sulla globalizzazione, esercitano ogni possibile azione economica e politica verso la cancellazione delle diversità ed il generale appiattimento.
Ma è proprio contro questo pericolo che con una vitalità prorompente stanno emergendo nel mondo, con la ricchezza culturale e la genialità creativa di cui sono protagoniste, le minoranze diffusamente presenti in ogni statualità. Locale ed universale si affermano come valori complementari, inscindibili.
Fare sardismo oggi, nel significato alto che ricorre così frequente nel libro di Umberto Cardia, significa esprimere i valori universali della sardità ed aprire le nostre frontiere al mondo.
Solo il progressismo unitario di una nuova, moderna sinistra dinamica ed autonomista può vincere il conservatorismo di chi concepisce lo Stato non come sovranità popolare ma gerarchia sovraordinata sulla massa subalterna.
Libertà è sinonimo di responsabilità ed insieme forza creativa e feconda di solidarietà, in Sardegna in Italia, nell’Europa, nel Mondo.
Il libro di Umberto Cardia è un atto d’amore verso una sardità sacrificata, angariata ed emarginata nella notte dei secoli, riemersa alla luce della democrazia in virtù di un resistenzialismo che ancora ci fa protagonisti, ma è altresì la testimonianza trepida ed appassionata di un combattente generoso che ha creduto nei valori ideali della giustizia sociale e della democrazia libertaria.
Il suo libro non è solo passionale appello all’unità ma severo ammonimento che viene dall’esperienza di una lunga travagliata storia di umanità sarda di cui Umberto Cardia ha trasfuso nelle belle pagine del suo libro palpiti e speranze.
Uniti si vince.