Riproporsi la figura di Camillo Bellieni per coglierne l’insegnamento significa vivere la suggestione di orizzonti nei quali rigore razionale e spiritualità si fondono nella luce di una forte intelligenza creativa.
Dagli scritti politici emerge la poetica di uno spirito che ama la vita, la sua umanità, le aspettative come le debolezze, generosità e valori da lui avvertiti quale travaglio sociale nel cui dinamico evolversi vede definirsi le grandi linee del futuro.
Il messaggio federalista, pietra angolare del suo credo politico, non si esaurisce nell’elaborazione del progetto istituzionale, ma si propone in termini di compiuta ideologia; una visione del mondo liberato dagli egoismi delle grandi potenze – costantemente impegnate nell’acquisire nuovi mercati da conquistare, se necessario, con la violenza degli eserciti preparati ed armati a tale esclusivo fine -.
Ebbene, Camillo Bellieni, eroe mite della Grande Guerra, vede con lucida analisi l’assurdo tragico dell’umanità divisa, separata – meglio sarebbe dire -compartimentata da invalicabili frontiere militari dalle quali scatenare, in qualsiasi momento, guerre di sterminio finalizzate a spogliare intere nazioni di beni e libertà per ingigantire all’interno dei singoli stati il potenziale egemonico di ristrette elites di potere.
Sarà proprio l’immane tragedia della guerra a far fiorire nell’animo di Camillo Bellieni un’irresistibile bisogno di umana solidarietà; di dialogo e confronto fra popoli diversi per scavare e far emergere dal profondo di antiche oscure, inesistenti rivalità, le ragioni dell’incontro.
Incontro fra popoli portatori di cultura, esperienze storiche, tradizioni, genialità, energie materiali e morali, che pur confermando l’inconfondibile identità di ciascuno, diventano forza e patrimonio della nuova comunità.
Si supera concettualmente così la natura pregiuridica dei rapporti internazionali e si propongono, con la pace, le condizioni per il sereno sviluppo ed il benessere dell’umanità.
Vi è in questa proposizione la luce della filosofia Kantiana ed i contributi di pensatori quali Proudhon, Frantz, e dei federalisti americani sino a giungere alle posizioni di Mazzini e Cattaneo.
Cultura, partecipazione ed intuizione fanno di Camillo Bellieni un pensatore politico che si staglia solitario nell’arco del trentennio che va dagli anni venti ai cinquanta.
Coglie con lucida intuizione i grandi traguardi che, contro ogni apparente evidenza, gli Stati Europei, saranno chiamati a realizzare: “l’unione federale” che, dovrà salvaguardare i popoli dalle guerre di sterminio per aprire un’era di pace e di comune progresso.
Contro ogni apparenza dicevo, perché quando Bellieni diffondeva profeticamente questo messaggio gran parte degli stati europei volgeva verso involuzioni dittatoriali, freneticamente nazionaliste, chiuse ed ostilmente armate in vista di sicuri, preannunziati scontri militari.
Di ciò Bellieni era ben consapevole essendo egli stesso vittima delle persecuzioni già attivate dalla nascente dittatura fascista.
Ma lui aveva il dono divino di leggere nel futuro ed – unico, fra i politici europei – intuì che il punto di forza della nuova Europa non avrebbe dovuto incardinarsi negli antichi centri di potere incrostati intorno alle istituzioni centrali degli stati, ma si sarebbe legittimato nel consenso attivo dei popoli, insediati in realtà territoriali che egli chiama Regioni e che trovano riscontro nei Lànder tedeschi, nei Cantoni svizzeri, negli States americani.
Definisce così uno scenario politico che negli anni venti appariva utopia: l’Europa delle regioni, l’Europa dei popoli, che trova invece puntuale riscontro – quanto meno quale affermazione di principio – nel trattato firmato a Maastricht il 7.2.1992 dai dodici stati componenti, allora, la Comunità Europea.
Nel Preambolo del Trattato infatti gli Stati si dichiarano: “decisi a portare avanti il processo di creazione di un ‘unione sempre più stretta fra i popoli dell’Europa, in cui le decisioni siano prese il più vicino possibile ai cittadini”.
Certo, Bellieni lo avrebbe scritto sicuramente meglio ma il pensiero è sulla linea della sua intuizione che, pur marcatamente politica, ha l’afflato poetico di un sognatore solidamente ancorato alla realtà.
Nella prefigurazione della riforma dello Stato, vede le autonomie regionali, fra loro collegate da rapporto di solidarietà federale.
Va però sottolineato come al concetto di autonomia, al di la del significato istituzionale, egli attribuisce un ruolo formativo capace di restituire al popolo coscienza di se, delle proprie responsabilità, doveri e diritti, sacrifici e traguardi che, facendone emergere il protagonismo, trasforma la comunità regionale da oggetto in soggetto politico capace di fare e non subire la storia.
Il realismo di Camillo Bellieni non si lascia tentare da passioni e fughe emotive sterilmente separatiste, ma individua nel federalismo la forza che consente a quanti, gelosi custodi della propria identità, ritrovano nella partecipazione la forza dei rispettivi popoli.
“Noi sardi” così afferma in una lettera inviata allo scrittore Farris “abbiamo bisogno di luce e la luce non potrà venirci dalla prigione di un gretto separatismo, ma dalla ricerca dell’originalità del nostro spirito, che deve sentirsi, gioioso strumento dello spirito universale”.
Consapevole del fatto che con il protezionismo doganale si era venuta a creare una tacita alleanza fra sindacalismo operaio ed apparato industriale (diffusamente insediato nelle regioni del nord Italia) si fa promotore di un costituendo Partito Italiano d’Azione, articolato nella federazione di altrettanti partiti regionali.
Obiettivo primario: salvaguardia del mezzogiorno dalla devastante politica del governo che lo condanna a subire l’antieconomico monopolio delle industrie parassitarie del Nord diventandone mercato di consumo delle sue produzioni.
Una forma, neppure mascherata, di colonizzazione interna.
In uno splendido documento rivolto ai giovani raccolti attorno al giornale “Volontà” ed a Gaetano Salvemini, protagonista di generose battaglie meridionaliste, non amalgamate però da sintesi politica, così scrive: “sfera d’azione del nuovo partito dovrà essere necessariamente il Mezzogiorno d’Italia”.
Diffida dei partiti italiani, segnatamente del Cattolico (P.P.), del Socialista e del Liberale, a motivo del loro asservimento agli interessi costituiti ed ormai dominanti nella società italiana.
Nel suo ammonire non c’è spazio per ambiguità: “Essendo in prevalenza costituiti dalle masse organizzate dell’Alta Italia, a colpi di retorica, metteranno a tacere tutte le questioni di vitale importanza per il mezzogiorno”.
Non meno preoccupato si dimostra dell’elettoralismo clientelare meridionale che vede costituito da una pletora di “paglietta”, dai “galantuomini grandi ufficiali”, da “arruffapopoli vestiti da democratici e radicali”, impegnati “solo nel rendere onore gloria al Ministero in carica”.
Incalza quindi gli amici con un perentorio: “Ora si tratta di realizzare; costituiamo un ‘organizzazione che sia tale da imporre il rispetto del Sud alle altre Regioni d’Italia; forgiamo lo strumento contro un Governo che voglia fare due pesi e due misure. Tutto ciò non è utopia”.
Passando dalle parole ai fatti dà vita ad un primo concreto strumento di lotta interregionale: il patto d’alleanza fra i Partiti d’Azione Sardo e Molisano (testo pubblicato nel “Solco” del 27 novembre 1921). Quando già la persecuzione fascista lo allontana dalla Sardegna trasferendolo dall’Università di Sassari a quella di Napoli e, successivamente, a quella di Bologna , di qui, nel gennaio 1925 scrive a Ferruccio Parri: “Penso con nostalgia al Mezzogiorno dove ho lasciato interrotto il mio lavoro”.
Ma la nostalgia cede rapidamente il passo al fervido progettare del futuro; dopo aver ricordato le “comuni fatiche molisane” parla del fiorire dei movimenti ispirati all’azionismo meridionalista e fra questi l’irpino ed il lucano che ritiene costituire il nucleo forte della rivoluzione contadina meridionale, in grado di “dilagare in Puglia, Calabria e Campania”.
Nel mondo contadino vede la forza in grado di sconfiggere il nascente regime fascista “…credo non potrà essere scalzato sino a che avrà forza presso i rurali”.
Ebbene questo fervido apostolato, che si colloca nella sfera politica, trasfigura in umana partecipazione alla sofferenza dei miseri – emarginati dalla politica – e costituisce ancor oggi insegnamento di palpitante attualità.
Il “suo” Partito Italiano d’Azione non è mai nato e la retorica parolaia è diventata la palude dei “massimi sistemi” nella quale si è arenato lo sviluppo meridionale.
“Le questioni di vitale importanza del mezzogiorno” sono ancora irrisolte ed il distacco economico dalle regioni più sviluppate del nord è andato ulteriormente crescendo.
Ma mentre Bellieni vedeva nel riscatto meridionale le necessarie premesse per la soluzione di un problema nazionale sì da consentire il compiersi della reale unità italiana, oggi proprio a causa della sua mancata soluzione, una forte corrente di opinione pubblica settentrionale, politicamente organizzata, non volendo pagare al sud il debito storico di oltre un secolo di sfruttamento coloniale, minaccia il secessionismo, pretendendo comunque, attraverso l’ipocrisia del federalismo fiscale, di tenersi la ricchezza acquisita (meglio: il mal tolto) negando anche sul piano formale qualsivoglia forma di solidarietà.
Volgendo gli occhi all’amata Sardegna ne coglie con sensibilità di statista problemi, valori, potenzialità, esigenze.
Prima fra tutte l’autonomia concepita quale “completo trionfo dello spirito. Uccisione della mentalità provinciale, fiducia nel nostro operare, conquista del volere creativo”.
“Autonomia”, così afferma, “ è arte, è sapienza, è religione.”
Ma, avverte, attenti all’autonomia di facciata, “paravento dipinto di vari colori, dietro cui si nasconde la pesante macchina statale, quella che ci soffoca e contro la quale si è levata la nostra ribellione. Resterebbero immutate la circoscrizione con a capo il Prefetto, l’ordinamento finanziario che accentra i tributi nelle casse dello Stato.
Resterebbero i Ministeri del lavoro, dell’industria, dell’agricoltura, dei lavori pubblici, con le migliaia d’impiegati a coordinare le regioni, a distribuire fondi speciali alla regione più potente e a quella più pericolosa, continuando l’attuale politica dei favori.
La regione dovrebbe subire il controllo contabile del governo.
In definitiva tutti i mali che adesso affliggono l’attuale sistema resterebbero aggravati dalla creazione di una nuova burocrazia regionale, aggiunta a quella romana, prefettizia, provinciale e comunale.
La confusione delle competenze, delle funzioni, dei controllo, nelle forme e modi attuali, sarebbe aggravata dall’Ente Regione.
Esattamente ciò che è avvenuto! No! non è stato scritto oggi ma nel “Solco” del 1 febbraio 1922!
Rompendo lo statico silenzio dei millenni, parla con lucida visione dei problemi economici sardi ponendo quale precondizione per lo sviluppo il fiorire di un’economia marittima che rompa finalmente l’equazione insularità uguale isolamento.
Nel rapporto dei sardi con il mare coglie le potenzialità di una loro internazionalizzazione in grado di rispondere alla mai sopita vocazione mediterranea.
Consapevole che l’economia marittima presuppone la cultura del mare ritiene necessario attrarre alle attività del mare le popolazioni litoranee, allestire una flotta mercantile sarda, organizzare le coste con bacini di carenaggio e moderni porti destinati a fare della Sardegna punto di snodo dei traffici commerciali nazionali ed internazionali (di cabotaggio) aprendo così le porte di casa ad una umanità dalla quale ricevere ed alla quale dare tutta la ricchezza di conoscenze ed esperienze che hanno contrassegnato ed illuminato la nostra ed altrui storia.
Non vi è in Bellieni lamentazione, né implorazione, ma forte consapevolezza che libertà e progresso non sono mai dono del principe ma conquiste di popolo.
“L’intuizione politica di Camillo Bellieni” – Convegno “Camillo Bellieni – Il pensiero e l’azione tra storia e attualità nel ventennale della morte” – Sassari – Teatro Ferroviario – 24-25 novembre 1995
21 Febbraio 2017 by