Intervista per ISPROM, anni 1984-1989

1. In molti suoi discorsi, come di recente nella presentazione al Consiglio Regionale del programma della Giunta e nel messaggio di fine anno, il Mediterraneo è evocato non soltanto come lo spazio marino che ci circonda e, in qualche modo, ci isola ma anche, e soprattutto, come tessuto di relazioni con altri popoli e Paesi e come uno dei grandi orizzonti, insieme con l’Europa continentale, entro cui la Sardegna deve misurare le proprie energie e le proprie capacità di confronto, di scambio, di cooperazione economica e culturale. Perché tanta insistenza?

La presa di coscienza della dimensione europea e mediterranea della Sardegna è recente, e costituisce un indubbio salto di qualità non solo della classe dirigente ma di una parte cospicua della collettività isolana.
Ad essa hanno contribuito alcuni attivi gruppi di opinione ed una nuova apertura, delle forze politiche e sociali, che vogliono certamente inserire il dibattito politico e culturale della nostra Isola in un orizzonte più vasto. Del resto è un episodio del contrasto, del dilemma per meglio dire, che nel corso dei secoli ha vissuto la Sardegna, come tante altre comunità isolane, od isolate, fra l’approfondimento dei propri valori autonomi ed il protendersi verso le influenze e le prospettive del mondo esterno.
Certamente questo intreccio di suggestioni presenta degli opposti pericoli, quello di un localismo chiuso e provincialmente sterile, e quello di una imitazione piatta dei modelli dell’esterno dilapidando la propria identità originale. Ma l’attenzione di tanti sardi, dirigenti politici, operatori economici e culturali, al discorso della presenza della Sardegna nell’Europa e nel Mediterraneo parte dalla condizione stessa della nostra Isola, che la pone in una posizione di singolare intermediazione, non solo geografica, fra l’Europa e l’Africa.
La Sardegna fa parte della grande famiglia europea perché inserita nella comunità italiana. Ma di questa entra nel novero, pur con caratteri propri, delle regioni del Mezzogiorno, che dall’Unità patiscono un divario economico e sociale col resto del Paese. Le contraddizioni dell’Italia, paese che nel nord si avvicina al tono delle ricche regioni del Centro-Europa, e che ha al sud zone vicine e a livelli balcanici, suscita così un senso di maggiore partecipazione alla condizione di arretratezza dei paesi della sponda africana del Mediterraneo nei confronti della sponda europea. Si tratta di Stati di nuova indipendenza, che da pochi decenni, a prezzo anche di grandi sacrifici, si sono scrollati le dominazioni coloniali, e ricercano affannosamente uno sviluppo economico per una popolazione sempre più numerosa.
Non è necessario coltivare suggestioni terzomondiste per sentirci vicini come sardi, ed anche come italiani, a questi popoli che spesso hanno problemi di crescita economica e sociale non diversi dai nostri, ma in ogni senso più gravi. Soprattutto perché tutti si affacciano nello stesso mare che ci affratella non solo per l’ambito geografico ma per tre millenni di storia piena di scontri sanguinosi ma anche di fecondi scambi di civiltà.
Nasce da qui il desiderio di vedere la Sardegna inserita in uno sforzo di mediazione fra l’Europa e gli altri paesi mediterranei in funzione del reciproco progresso. Un desiderio che alimenta speranze e prospettive, suscita iniziative di studio e di dibattito e che deve misurarsi con la rigorosa consapevolezza di cosa può e deve fare la Sardegna.

2. Qual’è il suo giudizio sul grado di apertura e di proiezione mediterranee dell’economia sarda, realizzato nei passati quarant’anni di vita autonoma e quali sono, più specificamente, le risorse e i settori che devono essere ulteriormente mobilitati?

In questi ultimi 40 anni, ma parlerei piuttosto degli ultimi 25 anni, in quanto il primo piano di sviluppo della nostra Isola risale ai primi anni Sessanta, la Sardegna si è trovata immersa in un insieme di mutamenti economici internazionali del quale si realizza l’apertura e la proiezione mediterranea dell’economia sarda.
La nostra Regione si è trovata a dover rispondere a due esigenze di sviluppo all’interno dell’area mediterranea tra di loro diametralmente opposte. Infatti, la situazione geografica della Sardegna, in posizione baricentrica rispetto ai Paesi ad economia forte ed a quelli ad economia debole, nel passato ispirava una concezione, per la nostra Isola, di un ruolo che consentisse di instaurare relazioni economiche, all’interno del bacino mediterraneo, basate sullo sviluppo di attività orientate alla produzione di beni a tecnologia intermedia.
Il mancato completamento del disegno di industrializzazione ipotizzato in Sardegna alla fine degli anni Sessanta, che si è arrestato all’interno di settori e di stadi di produzione molto limitati, e la successiva, radicale modificazione intervenuta nei sistemi economici per effetto dei processi di divisione internazionale del lavoro, che vedono queste attività andare a localizzarsi nei Paesi non sviluppati, non hanno consentito di realizzare appieno quel grado auspicato di apertura e di proiezione dell’economia sarda verso i Paesi mediterranei e non sembrano rendere più attuale questa impostazione.
I principi e le regole che governano questi processi economici tendono a concentrare lo sviluppo in ambiti sempre più ristretti dei Paesi forti, generando nuove aree di marginalizzazione economica e sociale.
Ciò che si rende necessario, pertanto, fermo restando l’obiettivo dell’integrazione economica sarda con le economie dell’area mediterranea, è concepire in modo diverso questo ruolo, pensando di costruire un sistema di interrelazioni capace di fare emergere come forza regolatrice dello sviluppo economico internazionale una cultura diversa, alternativa alle logiche dell’economia di mercato; una cultura che sia basata sulla comune condizione di regioni periferiche e marginali rispetto ai processi di sviluppo qualificato.
Unicamente all’interno di questa nuova impostazione dei problemi di politica economica internazionale, sarà possibile realizzare una maggiore e più utile integrazione fra i sistemi economici dell’area mediterranea, valorizzando le rispettive caratteristiche ai fattori di sviluppo umani e materiali che si ritrovano nelle diverse Regioni del Mediterraneo.
Questo con riferimento non solo alle risorse tradizionalmente presenti, che per la Sardegna significano agro-pastorizia, sughero, granito, artigianato e turismo, ma anche per quelle che dovranno scaturire da un processo di modernizzazione dell’apparato produttivo che fa perno sulla ricerca e sull’innovazione tecnologica dei processi produttivi e dei prodotti.

3. In quale ambito, ed entro quali limiti, derivanti sia dallo Statuto che dalla legislazione statale e comunitaria la Regione, come tale, può svolgere attività all’estero, nell’ambito delle materie ad essa riservate e quali rapporti esistono tra la Regione e gli organi centrali dello Stato, specie la Presidenza del Consiglio, il Ministero degli Esteri e quello del Commercio Estero? Ritiene che vi siano, in questo campo, norme, istituti, prassi da riformare?

Le norme costituzionali che dispongono la riserva dello Stato per le materie relative ai rapporti internazionali appaiono in parte superate dai nuovi rapporti che si sono instaurati successivamente all’emanazione della stessa Carta costituzionale.
Intanto anche la disposizione per la quale la Regione deve essere consultata al momento della stipula di accordi commerciali con l’estero non sempre è stata applicata con la dovuta tempestività. Inoltre tutto il settore è in movimento, non solo per l’accentuarsi dei rapporti internazionali ma per il consolidarsi della Comunità Economica Europea.
È certo infatti che le relazioni sempre più frequenti a livello triangolare fra CEE, Stato e Regione, per l’applicazione delle Direttive Comunitarie e, particolarmente, per l’erogazione dei finanziamenti che con riferimento a vari fondi comunitari vengono concessi alle Regioni, non sempre procedono con la dovuta speditezza. È noto del resto che il nostro Paese presenta al riguardo, nell’ambito CEE, un primato negativo per i ritardi che la nostra macchina legislativa ed amministrativa frappone all’estensione ed applicazione della normativa comunitaria nell’ordinamento interno.
Opportuna è pertanto apparsa la legge 16 aprile 1987, n. 188, che è rivolta al “Coordinamento delle politiche riguardanti l’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee” e che appunto fissa i ruoli dei vari organi dello Stato e degli enti locali sull’adeguamento dell’ordinamento interno agli atti normativi comunitari. La sua applicazione è troppo recente per darne un giudizio motivato, ma già si può dire che il coinvolgimento delle regioni, previsto dall’art. 9, non è realizzato ancora con la necessaria speditezza. Le regioni sono infatti chiamate ad esprimere le loro osservazioni sui progetti di norme comunitarie che il Governo nazionale dovrà discutere nel Consiglio dei Ministri della CEE, ma è già avvenuto che tali progetti siano pervenuti alle Regioni quando ormai erano diventate direttive o regolamenti comunitari!
Ma il problema di fondo, che ormai deve essere acquisito, è che le relazioni con la CEE non sono più relazioni internazionali.
La costruzione comunitaria è certamente incompleta, ma ha ormai un quadro istituzionale definito, che presenta fra l’altro un Parlamento eletto a suffragio universale e si presenta certamente come un’entità che si avvicina ben più ad uno Stato plurinazionale che ad una delle tante organizzazioni internazionali. Quindi non è sostenibile che i rapporti delle Regioni con la CEE debbano passare attraverso le griglie del Ministero degli Esteri. È assurdo che, come è capitato due anni fa, il Presidente della Regione Sarda, dopo una visita effettuata a Bruxelles presso le Autorità Comunitarie a difesa degli interessi sardi, abbia ricevuto delle rimostranze da parte del Governo nazionale.

4. La nuova legge sulla cooperazione con i Paesi in via di sviluppo ha assegnato un ruolo nell’attività di cooperazione alle Regioni ed anche alle Province ed ai Comuni. La Regione sarda sta predisponendo strumenti nuovi per operare in questo campo? Intende costituire, come hanno già fatto altre Regioni ordinarie e speciali, un Ufficio o Dipartimento per le relazioni internazionali?

Le Comunità regionali, soprattutto quelle che come la nostra godono di autonomia speciale, svolgendo una rappresentanza globale delle loro popolazioni, sentono anche i problemi dei paesi in via di sviluppo. Lo sforzo di andare incontro all’esigenza di aiutarli con specifiche iniziative trova nella nuova legge n. 49 del 26 febbraio 1987 sulla nuova disciplina della cooperazione dell’Italia ai Paesi in via di sviluppo un quadro di riferimento ed un coordinamento fin troppo preciso. Ma certo essa rappresenta uno stimolo anche per la nostra Regione che per la verità non può esibire i precedenti di sue iniziative per i paesi del terzo Mondo. Un campo d’azione nuovo che produrrà effetti anche per la maturazione della nostra classe dirigente, offrendo anche occasioni di lavoro a tecnici e studiosi sardi.
La Regione deve quindi attrezzarsi per questo nuovo settore, dell’aiuto ai paesi in via di sviluppo, che deve diventare normale nella sua attività. È possibile pensare alla costituzione di un apposito servizio, nell’ambito del suo assetto amministrativo al quale affidare le attività internazionali. Quanto alla sfera degli interventi, senza dar luogo a limitazioni geografiche, si può ritenere che essi si indirizzeranno in particolar modo verso l’area mediterranea.

5. Con una recente delibera, la sua Giunta ha onorato l’impegno programmatico assunto di fronte al Consiglio, di promuovere una larga Conferenza delle Regioni, Isole e Città mediterranee per la cooperazione pacifica e lo sviluppo, da tenersi in Sardegna entro il 1988. Quali sono i fini più specifici di questa Conferenza, quali le linee programmatiche, quale ampiezza e carattere avranno le partecipazioni?

L’iniziativa della Conferenza delle Regioni, Isole e Città del Mediterraneo rappresenta una tappa importante di quella strategia dell’attenzione che il Governo regionale, interpretando interessi e disponibilità della collettività isolana, persegue nei confronti delle realtà politiche ed umane che come la Sardegna vivono in questo grande mare interno.
La Conferenza ha infatti un duplice scopo.
Il primo è appunto quello di assecondare il clima di distensione che si sta sviluppando fra le grandi potenze per favorire rapporti più favorevoli fra i paesi del Mediterraneo. Essi soffrono non solo per i riflessi del conflitto palestinese e di quello del Golfo Persico, ma per la presenza militare, spesso prevaricatrice delle stesse grandi potenze. Negli sforzi per attutire ed eliminare queste incresciose situazioni conflittuali si vuole inserire la nostra iniziativa, per rilanciare gli antichi legami culturali fra i paesi rivieraschi e promuovere processi di integrazione e di sviluppo economico. L’altro obiettivo è quello di contribuire alla crescita culturale e politica della classe dirigente sarda, nelle sue diverse espressioni delle rappresentanze istituzionali, degli operatori economici e sociali e del mondo della scuola, avvicinandola con rigore e consapevolezza ai problemi di paesi che ci sono vicini non solo geograficamente. La Regione sarda si aspetta infatti come risultato della Conferenza indicazioni utili per le iniziative che vorrà apprestare per i paesi in via di sviluppo, in applicazione della richiamata legge 49/87. I dibattiti della Conferenza si concentreranno nei tre temi della cooperazione scientifica e tecnologica, della tutela dell’ambiente e della cooperazione economica. Temi tutti di estrema attualità per i paesi mediterranei, che saranno presenti, lo speriamo, con partecipazioni capaci di esprimere la ricchezza delle loro esperienze sul piano politico e su quello culturale. Infatti non saranno ridotte agli esponenti politici, ma anche ai talenti tecnici e scientifici. Non saranno limitate alle autorità governative, ma alla rappresentanza di più piccole comunità, città ed isole, che meglio presentano analogie di problemi e situazioni con la nostra Sardegna.

6. Il Mediterraneo potrebbe essere un mare di pace e di intense relazioni di scambi e cooperazionali tra l’Europa, l’Africa, il Medio-Oriente. Oggi esso è, invece, un’area di conflitti, di tensioni, di violenza, che hanno il loro fulcro principale nel conflitto arabo-israeliano, nella lotta per l’autodeterminazione nazionale del popolo arabo-palestinese e nel conflitto Iran-Irak. La Sardegna è, essa stessa, una base militare missilistica e per sommergibili atomici. Cosa può fare, cosa fa e intende fare il governo regionale per favorire una soluzione pacifica dei conflitti, per ridurre il peso delle servitù militari, per promuovere la denuclearizzazione del Mediterraneo, per trasformare questo mare in un mare di pace e di cooperazione tra i popoli?

È certo che, come è stato richiamato, la situazione politica e militare del Mediterraneo desta da decenni una crescente preoccupazione.
Una volta estinti gli strascichi della decolonizzazione della sponda sud, la tensione fra arabi ed ebrei, carica di tanto dolore umano e di crescenti fanatismi religiosi non accenna a diminuire dopo aver distrutto un paese un tempo prospero e pacifico come il Libano. L’Europa, davanti a questa situazione, si è impegnata più in uno sforzo di sostegno economico ai paesi sottosviluppati che nel dispiegamento di forze militari, che invece contraddistingue la presenza delle grandi potenze. Ma l’Europa, divisa e priva di una coerente e coordinata politica estera, non è in grado di assicurare nel Mediterraneo il cammino della pace. Così questo nostro mare è diventato una delle polveriere del mondo. Basi navali ed aeree, rampe di missili e volteggiare di flotte avverse riempiono i suoi bacini interni e ne costellano isole e penisole. Si è sempre sull’orlo del conflitto, che sembrava esplodere alcuni anni fa proprio sulle coste italiane dopo il bombardamento americano su Tripoli.
Il governo regionale non può restare indifferente dinanzi a questa situazione, perché la nostra Isola, per la sua posizione geografica, è, si può dire, tutta una base militare, e quindi più esposta di altre terre meridionali alle conseguenze di improvvise tensioni internazionali. Quindi è fortemente interessata al discorso della distensione e si adopererà, in tutte le sedi opportune, perché esso possa approfondirsi e per intanto deve condurre ad una sosta nella costituzione e potenziamento di ogni insediamento militare esistente.
È certo che il cammino della distensione è la condizione primaria per la riduzione di ogni presenza militare, con l’inevitabile disagio che l’accompagna, che è dato particolarmente in tante zone della nostra Isola, dalle servitù militari che sono, oltre che pericolose, pregiudiziali per lo sviluppo economico e sociale.
Per quanto aperto e serrato sia il confronto avviato con il Governo per la loro riduzione, non c’è da illudersi! Solo un nuovo clima di pace fra le grandi potenze può essere decisivo su questo problema, particolarmente sentito dall’opinione pubblica isolana.
Ma altre iniziative la Regione può assumere intensificando scambi e contatti con altri paesi, che da sempre sono stati i mezzi migliori per attenuare e demolire pregiudizi razziali – culturali e religiosi che sono stati il miglior terreno di cultura dei conflitti tra i popoli.
In questa linea va vista la richiamata iniziativa della Conferenza delle Regioni, delle Città e delle Isole del Mediterraneo; un contributo a fare di questo mare, nel quale si affacciano tre continenti e che da millenni è un laboratorio della civiltà del pianeta, un mare di pace ed un’area di scambi fecondi fra i popoli che si affacciano sulle sue coste.