Domande ai Presidenti delle regioni a Statuto speciale e delle Province autonome (da pubblicare nel volume predisposto dall’UPI-editoria e servizi). 1984-1989

Domande
1    – Vi sono indubbiamente ragioni non soltanto storiche, ma anche attuali che motivano le specialità nel nostro ordinamento. Sulla base delle esperienze concrete e delle realtà della Sua Regione (Provincia), quali sono i problemi politici, economici, culturali, etnici che sostanziano questa attualità e ne legittimano il rilancio?
2    – A quali condizioni oggi – guardando anche alle esperienze degli ultimi anni e ai rapporti con lo Stato – è possibile garantire un rilancio delle specialità che, esaltando i poteri e il ruolo delle Regioni a Statuto Speciale e delle Province autonome, contribuisca anche ad un rilancio più generale delle Regioni e delle autonomie locali?
Ci si riferisce in particolare agli aspetti concernenti le norme di attuazione degli Statuti, ai rapporti finanziari, alle competenze quali risultano dopo emanazione del D.P.R. 616/77.
3    – La specialità quale autonomia rinforzata in che misura ha giovato concretamente nella Sua Regione (Provincia) alla instaurazione di più stretti e diretti rapporti da un lato tra governo regionale (provinciale) e le popolazioni dall’altro ad un sistema di relazioni meno accentrato tra la regione (Provincia) e le assemblee elettive locali?

Risposte
N. 1
L’elaborazione e l’approvazione degli statuti speciali, tra i quali quello della Sardegna, furono le logiche conseguenze di quanto era accaduto negli anni immediatamente precedenti in Italia ed in Europa: un periodo della nostra storia particolarmente creativo e di emersione di nuovi valori.
Fra le grandi scelte allora fatte, una delle più importanti è certamente quella di uno Stato fortemente decentrato, fondato sull’esaltazione delle autonomie locali, in antitesi alla struttura politico-amministrativa del vecchio Stato unitario.
Fin dalla loro comparsa, le Regioni con speciale autonomia subirono le conseguenze negative del loro isolamento e del carattere ancora accentrato dell’ordinamento costituzionale e amministrativo, entro il quale il ritaglio di alcune “isole” autonomistiche non riuscirà ad assicurare alla loro azione un grado di efficacia e di incisività adeguato al carattere generale e rappresentativo di questi enti.
Al contrario di quanto è avvenuto per le Regioni “speciali”, quelle ordinarie, anche per il concorso di un insieme di più favorevoli condizioni di carattere politico, sono state poste in grado di funzionare con molta più rapidità ed organicità per cui, le prime, paradossalmente, si sono viste costrette a rivendicare allo Stato funzioni amministrative conferite precedentemente alle Regioni di diritto comune.
Queste circostanze di ordine contingente non possono comunque far ritenere che le Regioni a statuto speciale debbano senz’altro imboccare la via dell’abbandono delle “particolari forme di autonomia”, in vista dell’allineamento su un unico fronte di tutte le Regioni. E ciò perché, da un lato non sono certo venute a mancare le ragioni obiettive che a suo tempo consentirono l’introduzione del regionalismo speciale; in ogni caso il suo asserito affievolimento non è comunque tale da giustificare un unico trattamento appiattito sull’attuale regime ordinario. Dall’altro lato, pur vivendo una profonda crisi di identità, le Regioni speciali non hanno esaurito la loro essenziale funzione di enti esponenziali di collettività caratterizzate, nel quadro dell’unità nazionale, da peculiari e specifici legami tra i loro abitanti, rispetto a quelli intercorrenti con gli altri cittadini della Repubblica.
La specialità regionale trova, infatti, la sua fondamentale giustificazione in un complesso di dati di carattere obiettivo ed inconfutabile, desunti da una singolare tradizione storica, giuridica, sociale e politica, nonché dalla sussistenza di presupposti di carattere materiale e territoriale che influenzano e condizionano i comportamenti individuali e collettivi delle popolazioni interessate.
I fattori dell’etnia, della lingua, della posizione geografica, unitamente ad un forte tessuto autonomistico consolidato da secoli si ritrovano, con differenti accentuazioni, in tutte le Regioni con speciale autonomia.
Per quanto riguarda la Sardegna, due elementi assumono, tra gli altri, importanza decisiva per giustificare il suo diverso regime istituzionale. Il primo di tali elementi si fonda sulla particolare condizione fisico-territoriale dell’Isola, sulla stessa sua posizione geografica rispetto ai paesi dell’area mediterranea; il secondo elemento attiene alla rilevanza della Sardegna come “popolo”, e cioè come soggetto provvisto di una sua peculiare personalità storico-politica che, necessariamente, deve potersi erigere in ente autonomo e disporre di un’ampia ed irrevocabile sfera di autodeterminazione.
Se è vero che nella coscienza di un popolo il potere politico dev’essere ripartito ed esercitato ispirandosi a taluni fondamentali principi, quali l’autonomia, il pluralismo istituzionale, la diffusione territoriale delle principali funzioni pubbliche, uno Stato delle autonomie deve ricomprendere ed esaltare la diversificazione delle particolari realtà storico-sociali del Paese.
Rimangono pertanto tuttora valide le ragioni per le quali l’ordinamento regionale fu introdotto nella Carta costituzionale, a garanzia che le strutture immediate dentro le quali si svolge la vita politica e amministrativa rimangano a misura d’uomo, tali da non superare con la loro vastità la possibilità di comprensione e di partecipazione attiva i tali da non togliere ai rapporti politici concretezza, personalità ed umanità.
Quella della Sardegna è poi una realtà unica, così diversa dalla realtà nazionale, così non confondibile neppure con le condizioni di sottosviluppo ed arretratezza di altre regioni d’Italia e, addirittura così differenziata nel suo proprio interno, da richiedere necessariamente uno strumento politico-istituzionale che raccolga e razionalizzi in una visione unitaria le istanze che vengono portate allo Stato.
Questo strumento di confronto, di dialogo e finanche di contestazione non può essere che l’Istituto autonomistico il quale, nonostante le sue carenze, è il più vicino alla realtà dell’Isola.
Certamente, come autorevolmente affermato da uno dei miei predecessori, la Regione non può dare una risposta a tutte le istanze, a tutti i fermenti, a tutte le tensioni, ma può senz’altro porsi come interlocutore efficace dello Stato, così che esso si atteggi con un potere diverso da quello che storicamente abbiamo conosciuto e che in qualunque forma si sia presentato nell’Isola attraverso i secoli, mai ha dato una risposta autenticamente solidale alle domande dei sardi, se si esclude l’ultimo quarantennio.
Ecco perché siamo fermamente convinti della validità del’Istituto autonomistico speciale, sede di raccolta e di coagulo anche di ribellioni e fermenti che non possono certamente più misurarsi con le forme chiuse e repressive dello Stato, ma con lo strumento voluto dal Costituente per realizzare in Sardegna un tipo di civiltà più profondamente legato alle matrici della nostra cultura e della nostra storia ed insieme aperto a tutti i grandi valori di ogni cultura e di ogni storia.
La Regione è chiamata a rappresentare un popolo che ha avuto una vicenda di sofferenze e di dolori, di povertà e di miseria dove lo Stato del tempo ha sempre mostrato l’immagine peggiore di sé, sempre attingendo, spesso con la forza, e quasi mai dando nulla.
E questo ruolo della Regione è ancor più vivo e necessario oggi per i Sardi i quali, nonostante abbiano notevolmente migliorato la propria qualità di vita sia in termini economici che culturali e sociali, hanno per contro conosciuto un fenomeno migratorio che ha pochi eguali (350.000 emigrati nel solo periodo 1951/1971, circa un quarto della popolazione) ed un tasso di disoccupazione tra i più alti di Italia – circa 160.000 disoccupati – cui si è accompagnata la grave crisi dell’industria tradizionale dell’Isola, quella mineraria. Per non parlare dell’annoso problema dei trasporti, le cui carenze ed eccessivi costi condizionano ogni possibilità di sviluppo e progresso per la Sardegna.
Non posso perciò non concordare con le indicazioni emerse dagli atti della Commissione Cossutta in ordine all’esigenza di accompagnare all’innalzarsi del livello di autonomia delle Regioni a statuto ordinario, un ampliarsi della sfera di competenza di quelle speciali sì da rendere più incisivo il loro operare scongiurando così fenomeni di appiattimento che, lungi dall’offrire maggiore coerenza all’azione dei poteri centrali, creano solo fattori negativi caratterizzati ora da focolai di resistenza duramente contestativa, ora da sacche di rassegnazione passiva nelle quali si spegne ogni empito di democrazia; in tale contesto il dibattito ed il confronto decadono a vuoto ritualismo.
Vorrei concludere, da convinto assertore del regionalismo e nella ferma convinzione del ruolo sempre più preciso che deve svolgere l’Istituto regionale nei rapporti internazionali, che l’Europa è oggi alla ricerca di una nuova, più forte e ricca identità; quella dei popoli che nel loro fervido e creativo rinnovarsi vanno ricercando, attraverso più ampie aggregazioni, frontiere più avanzate di democrazia.
Un forte regionalismo italiano si porrà certo quale punto di civile riferimento e vigoroso contributo al formarsi di quell’unità politica europea che sarà valida e vitale solo se fondata sul consenso delle diversità e non sul conformismo dell’appiattimento imposto da inaccettabili vertici di un centralismo superato dalla storia.

N. 2
Per poter rispondere a questa domanda è preliminarmente necessario fare un breve cenno ai principali motivi che hanno determinato la crisi del regionalismo e soprattutto delle “autonomie speciali”, sui quali mi sono già in parte soffermato nel rispondere alla prima domanda.
Il disegno costituzionale dello Stato delle autonomie è incentrato su tre punti cardine: autonomia, pluralismo istituzionale e diffusione territoriale delle principali funzioni pubbliche.
Nella realtà tali principi sono stati attuati soltanto in parte con il risultato che le Regioni sono di fatto estranee a qualsivoglia forma partecipativa e concorsuale rispetto all’assetto del potere centrale, nei confronti del quale hanno progressivamente assunto un ruolo subalterno che non di rado si evolve in forme duramente contestative e conflittuali.
La storia passata e più recente è costellata di varie forme di attentato all’autonomia regionale: le funzioni amministrative sono state costantemente trasferite dallo Stato in modo disorganico e settoriale; il potere centrale opera continue invasioni delle competenze regionali mediante il surrettizio ricorso a leggi ordinarie aventi il solo “nomen juris” della riforma economico-sociale, ma sostanzialmente indirizzate ad espropriare il potere autonomistico di reale capacità di governo; il ricorso alla creazione di numerosi enti settoriali ha affievolito la capacità complessiva del potere regionale; la stessa giurisprudenza della Corte Costituzionale si è mostrata spesso meno giudice e più articolazione politica del potere centrale che la elegge.
Si è così delineata l’intima contraddizione che caratterizza oggi lo Stato: un sistema di poteri orizzontalmente organizzati su base regionale, inserito nella preesistente struttura rigidamente verticistica e centralizzata.
Da questa evidente incoerenza istituzionale è derivata un’assurda antinomia tra governo centrale e potere autonomistico,
quasi che il primo rappresenti in esclusiva i valori dell’unità ed integrità della Nazione ed il secondo, per contro, un elemento destabilizzante, disgregatore, pericolosamente volto a disarticolare, per le molteplici vie della diversità, la forza creativamente operosa dell’intero Paese.
Nella frustrazione di un regionalismo incompiuto si è andata sempre più spegnendo la cultura dell’autonomia e con essa i fermenti originali e creativi che sono connaturati alla forza vitale della democrazia di base espressa dagli enti locali. Il rapporto istituzionale è così spesso decaduto a pura conflittualità, a contrapposizione sterile, nella quale le Regioni più deboli hanno subito, com’è ovvio, l’impatto più devastante ed involutivo, restando chiuse in una sorta di centralismo regionale, per lo più declassato ad assistenzialismo clientelare.
Ciò nonostante, lo Stato delle autonomie dimostra la sua vitale forza democratica, costituendo un punto irrevocabile di riferimento, sostegno e guida per le diverse realtà regionali.
L’impegno finora profuso dalla Commissione per le questioni regionali, mi portano ad essere ottimista sulla concreta attuazione del disegno costituzionale oltre che sul suo adeguamento, in base alle esperienze maturate in quarant’anni di storia repubblicana.
Il rilancio delle autonomie regionali ed in particolar modo di quelle speciali, passa innanzitutto attraverso la più importante sede democratica del Paese, per cui la via maestra, che al momento può sembrare di difficile attuazione, appare l’istituzione di una Camera pariteticamente rappresentativa delle Regioni, accompagnata da una modifica della composizione della Corte Costituzionale, integrata con rappresentanti regionali.
Nelle more di una siffatta riforma costituzionale, che richiederà tempi non certamente brevi, occorre potenziare gli istituti che prevedono l’incontro di volontà tra Stato e Regione attraverso chiare leggi di procedura.
Contestualmente si pone l’esigenza di procedere alla soppressione dei Ministeri le cui funzioni sono state trasferite alle Regioni o, quanto meno, alla loro riforma.
L’attuale situazione determina com’è noto, la commistione frequente se non la vera e propria sovrapposizione di competenze ed interventi che vanno a scapito della chiarezza dell’azione amministrativa, con conseguenti sprechi di risorse ed il recupero delle funzioni ministeriali a suo tempo trasferite con i decreti delegati e le norme di attuazione, attraverso leggi organiche di intervento che dispongono la ripartizione di fondi con limiti e vincoli che vanno ben al di là dell’attività di indirizzo e programmazione, specialmente per le Regioni ad autonomia speciale. Ed è molto difficile sottrarsi a questi provvedimenti, pena l’esclusione dalla ripartizione dei cospicui fondi nazionali.
Un altro aspetto attraverso il quale passa il potenziamento dell’autonomia è quello relativo ai rapporti internazionali.
Occorre rivedere la normativa in materia, introducendo disposizioni che consentano alla Regione, senza l’obbligo dell’intesa con il Governo, di intrattenere direttamente rapporti internazionali laddove questi non incidano sulla posizione dello Stato come unità comprensiva. Mi riferisco a quei rapporti che la dottrina non definisce come di “diritto internazionale”, bensì “internazionali”, in quanto alla loro dimensione, ma non per la loro natura. Se le norme vigenti fossero riviste in quest’ottica, la Regione sarebbe tenuta soltanto a comunicare la propria iniziativa preventivamente al Governo che la vieterebbe, successivamente, in caso di palese violazione di rapporti internazionali definiti o in corso.
Vanno poi riconosciuti più ampi poteri di intervento nel campo dell’economia, in modo che le Regioni possano effettivamente governare lo sviluppo economico e sociale consentendo il raccordo tra la programmazione e la finanza regionale e quella degli enti locali, attualmente del tutto disarticolata.
A questo contesto va anche ricondotto un complesso di misure di consolidamento delle potestà legislative in materia di assetto territoriale, di linee e mezzi di trasporto (non solo interno), di tutela e gestione delle risorse fisiche, ambientali ed energetiche.
Vanno inoltre rafforzate tutte le potestà legislative che in qualche modo attengono al profilo socio-culturale della collettività regionale: cultura, istruzione, tutela della lingua e del patrimonio storico, artistico ed ambientale.
Non di meno va riconosciuta la possibilità di promuovere rapporti di collaborazione e di cooperazione economica, culturale e tecnologica con i paesi esteri.
Altro punto nodale del rilancio dell’autonomia è quello della finanza regionale. I più recenti provvedimenti legislativi dello Stato hanno indubbiamente consentito alle Regioni speciali di poter contare su un quadro più certo e stabile di risorse. Non può, tuttavia, non sottolinearsi la sussistente permanenza di una rilevante massa di trasferimenti con precisi vincoli di destinazione, determinando un’ulteriore pesante limitazione delle possibilità di manovra effettiva in un disegno regionale di autonoma programmazione delle risorse.
Appare dunque indispensabile procedere ad una rielaborazione del quadro finanziario, mirato a conseguire quell’autonomia che la Costituzione e gli statuti speciali riconoscono, perché solo attraverso una reale autonomia finanziaria potrà essere salvaguardata l’autonomia politica e quindi la reale capacità di autogoverno.
Da qui anche la necessità di riconoscere alle Regioni speciali un più incisivo potere sul controllo del credito e del risparmio, non solo al fine di garantire il governo globale dell’economia, ma anche perché sia interrotta la logica in virtù della quale il capitale viene drenato dalle Regioni povere in quelle ricche, a causa del più elevato indice di rischio, innescando così il meccanismo perverso che all’ulteriore sviluppo delle Regioni più avanzate corrisponde l’aggravarsi del sottosviluppo in quelle più arretrate. A ciò deve accompagnarsi anche un sistema di procedure e di collegamenti tra programmazione regionale e nazionale, soprattutto in relazione all’attività degli enti ed aziende finanziati dal pubblico erario, onde evitare l’attuale scoordinamento che spesso rende incoerente e talvolta conflittuale l’azione del Governo nel territorio regionale.

N. 3
L’autonomia speciale ha senz’altro contribuito ad instaurare rapporti molto più stretti e diretti tra popolazione e governo regionale. Intanto per un fatto meramente geografico (Roma, nonostante tutto, appare ancora lontana alla gran parte dei Sardi); in secondo luogo perché qualsiasi cittadino o amministratore locale può accedere agli uffici della Regione in qualsiasi ora del giorno, sia per affrontare questioni di carattere locale, sia per proporre istanze o sottoporre problematiche da portare all’esame dei competenti organi dello Stato.
Ma anche la Regione è più vicina alla periferia, sia con i propri uffici distaccati, sia con i propri rappresentanti. Non c’è praticamente giorno dell’anno che un amministratore o un Consigliere regionale non si rechi in una città o in un piccolo centro dell’Isola per affrontare e discutere problemi locali, di categoria o di interesse generale per la collettività isolana.
Per quanto attiene invece al sistema delle relazioni tra Regione ed Enti locali la risposta è meno positiva, nel senso che il decentramento delle funzioni non è stato del tutto soddisfacente in quasi quarant’anni di autonomia: in parte per fattori intrinseci alla Regione ed in parte, o meglio per la gran parte, per fattori esterni all’Istituto autonomistico e per i quali le possibilità di intervento della Regione trovano limiti invalicabili nelle rigide competenze statutarie.
Lo Statuto speciale per la Sardegna contiene diverse norme che concernono l’ordinamento del governo locale.
Esse vanno dal potere di istituire nuovi comuni, alla facoltà di modificare le circoscrizioni e le funzioni delle province, al controllo sugli atti degli enti locali.
Particolare rilevanza assume poi l’articolo dello Statuto per il quale la Regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative delegandole agli enti locali o valendosi dei loro uffici; disposizione peraltro riscontrabile nell’art. 118 della Costituzione. Da ciò discende che la Regione deve disporre di un apparato burocratico-amministrativo estremamente ridotto; che le materie di competenza regionale da delegare comportano un’attività amministrativa di tipo operativo; che l’esercizio di tali funzioni da parte degli enti locali è la regola, mentre la conservazione di funzioni amministrative da parte della Regione è l’eccezione; la Regione cioè deve operare quale ente di legislazione, programmazione, governo e controllo.
A questo quadro delineato dallo Statuto non ha però corrisposto nella realtà l’azione della Regione che, di fatto, si è organizzata sullo stesso modello dello Stato centralistico, non favorendo la piena partecipazione delle popolazioni dell’Isola all’esercizio della loro sovranità.
Nel quadro di queste norme e di questi principi sono state, infatti, poche le leggi emanate dalla Regione in materia di delega di funzioni agli enti locali e comunque hanno avuto un carattere spesso episodico e frammentario, anche se negli ultimi dieci anni è stato compiuto un notevole sforzo in questo senso con la legislazione in materia di programmazione economica, di lavori pubblici, di urbanistica, di espropriazioni, di assistenza sociale etc.
Questa situazione è però soltanto in piccola parte riconducibile – come ho già osservato – ad una precisa scelta politica della Regione, in quanto trova principalmente le sue ragioni storiche ed istituzionali nel più vasto contesto di riassetto delle attribuzioni dei poteri degli enti locali;
I poteri ordinamentali della Regione in materia di enti sub-regionali non consentono alla stessa di influire positivamente nel senso voluto dal Costituente, nella quarantennale inerzia dei poteri centrali dello Stato di fronte alla riforma dei poteri locali.
In mancanza di questa riforma, nell’attuale confusione dei diversi ruoli degli enti locali (si pensi alla questione relativa
all’individuazione dell’ente intermedio), qualsiasi attività legislativa generale di delega o di trasferimento di funzioni da parte della Regione sarebbe velleitaria e comunque non produrrebbe effetti positivi, se non una vera e propria paralisi dell’azione amministrativa.
Si pensi che mentre la Regione può modificare le funzioni delle Province, non può definire il loro numero e il loro ambito territoriale oppure, all’inesitente raccordo tra programmazione nazionale e regionale e tra finanza regionale e locale, per cui al trasferimento di funzioni agli enti locali dell’Isola con il D.P.R. n. 348/1979, adottato in riferimento al D.P.R. n. 616/1977, non ha fatto seguito il corrispondente finanziamento da parte dello Stato, discriminando in tal modo ancor più le autonomie locali sarde rispetto a quelle della penisola, storicamente penalizzate sia in termini di organici che di risorse finanziarie.
Ciò nonostante, il potere politico in Sardegna si identifica ormai, nel bene e nel male, con la Regione autonoma e pur se ad essa si addebita ogni ritardo ed incapacità del potere pubblico (a volte giustamente, per carenze proprie di questo Istituto, ma più spesso ingiustamente perché si chiede la soluzione di problemi per i quali soltanto i poteri dello Stato possono efficacemente intervenire) è pur sempre il principale interlocutore ed il filtro delle insofferenze e delle proteste della società sarda e delle quali comunque si fa pieno carico nei confronti di un potere centrale lontano e spesso tutt’altro che sensibile.
Una cosa comunque è certa: compito fondamentale dell’azione regionale deve essere quello della realizzazione di un pieno e reale autogoverno della comunità sarda, sia attraverso una diversa ripartizione di poteri fra Stato e Regione, sia attraverso la redistribuzione delle funzioni dell’Amministrazione regionale agli enti locali. Senza questo reale processo di democratizzazione all’interno del proprio ordinamento, che vede come protagonisti della politica regionale le autonomie locali di base, non è possibile la rifondazione ed il rilancio della specialità dell’autonomia regionale sarda.