1. Il pensiero e l’opera di G.B. Tuveri (1815-1887) si inserisce in quel clima politico e culturale che attorno alla metà dell’ottocento segna un risveglio dell’intellettualità isolana (V. Angius, G. Manno, P. Tola, G. Asproni, Siotto-Pintor, G. Spano).
Sono gli anni in cui mutano alcuni fondamentali pilastri che reggevano in Sardegna gli antichi ordinamenti, sia in campo politico istituzionale (la “fusione” del 1847), sia in campo economico-sociale (abolizione dei diritti feudali e instaurazione del regime fondiario basato sulla proprietà privata, 1836-1858).
Le aspettative, le delusioni e soprattutto le conseguenze negative che ne derivarono furono certamente fattori importanti nel sollecitare nuove energie intellettuali ad impegnarsi concretamente per superare il grave ritardo storico (economico-sociale e culturale) dell’Isola.
Si avvertiva, infatti, l’esigenza di analisi approfondite sulla realtà sarda che andava configurandosi in rapporto ai diversi e più vasti contesti politici, economici e culturali in cui veniva a trovarsi inserita. In pari tempo cresceva l’importanza di individuare i termini in cui la Sardegna potesse vivere in modo partecipe, non subalterno, gli ideali di libertà, di democrazia, di progresso civile che andavano affermandosi – non senza contrasti – sulla scena politica italiana ed europea.
2. Ed è in questo contesto che si svolge l’impegno filosofico, politico e civile di G.B. Tuveri che, teso a formulare una teoria sistematica dei rapporti tra individuo, società e Stato, non cessò mai di misurarsi con i problemi e le esigenze specifiche della società sarda del suo tempo.
Nell’opera di Tuveri “vi è la profonda esigenza di motivare logicamente e difendere politicamente i diritti fondamentali dell’individuo (secondo la concezione liberale) e il diritto del corpo sociale alla giustizia al bene comune (secondo la concezione democratica)” A. Delogu “Etica e politica in G.B. Tuveri – 1984”.
La polemica con G. Siotto-Pintor e la mozione di censura verso Gioberti – che segnarono gli esordi dell’attività politica e parlamentare di Tuveri – mettono in evidenza due aspetti salienti della sua personalità: il rigore morale e la concezione profondamente democratica che lo portarono a misurarsi con schiettezza ed incuria delle conseguenze con alcune delle maggiori figure della vita pubblica del suo tempo e a non identificarsi mai – come egli scrisse – in “alcuna setta e forse nemmeno in alcun partito”.
3. Nel suo primo fondamentale saggio (“Del Diritto dell’uomo alla distruzione dei cattivi governi. Trattato teologico-filosofico”, 1851) egli pone al centro della prassi politica e della stessa etica rivoluzionaria, il principio della sovranità popolare. I diritti naturali individuali – sostiene Tuveri – preesistono e costituiscono gli elementi della Sovranità (che egli chiama Sovranità Impersonale); è perciò compito fondamentale dello Stato difendere i diritti degli individui alla libertà, alla proprietà, alla giustizia, al progresso civile.
Nell’opera di Tuveri sono dunque espressi con grande evidenza concetti e tesi politiche che pongono il suo pensiero tra le formulazioni più avanzate nel dibattito politico italiano nella metà dell’800: sovranità popolare, democrazia, repubblica, federalismo.
Lo sviluppo rigoroso delle prerogative della sovranità popolare e della “delega” dei poteri ai governanti è spinto da Tuveri fino ad affermare la legittimità del tirannicidio, ossia del processo rivoluzionario.
“Perché… sia lecito il rivoltarsi, è necessario che la società non possa regolarmente riparare ai suoi mali; sia perché ciò avvenga per difetto della sua costituzione; sia che sia posta in tale impossibilità dall’opposizione dei suoi governanti” (G.B. Tuveri).
La Rivoluzione è dunque per Tuveri “l’irregolare esercizio della Sovranità popolare”: irregolare, ma legittimo politicamente, ed eticamente giustificato.
La tematica del tirannicidio lo ricollega al pensiero di una certa tradizione cattolica – quella dei monarcomachi del ‘600 (Suarez, Bellarmina) – e riflette gli interessi teologici della formazione cattolica dello stesso Tuveri. Tuttavia nel pensatore sardo queste tesi sono svolte in senso decisamente laico e democratico ed è ben chiara in Tuveri l’esigenza di distinguere sul piano teorico-pratico il cattolicesimo dalla politica.
4. In riferimento all’idea federalista, il pensiero politico di Tuveri si differenzia nettamente dalle posizioni espresse da Gioberti con il quale fu in aperta polemica. Gioberti propugnava una confederazione risultante dall’accordo di vertice tra i vari Principi d’Italia e quindi non espressione di quella sovranità popolare che costituiva il cardine della prospettiva federalista di Tuveri. Per di più Gioberti mirava ad una confederazione di tipo monarchico, sotto il primato del Pontefice, totalmente diversa dalla concezione di Tuveri, democratica e repubblicana.
“Quando veggiamo un Montesquieu riporre la libertà nei soli governi all’inglese, quando veggiamo un Romagnosi insegnare che la democrazia è governo di parte, quando veggiamo un Gioberti spacciare, in modo cattedratico, che il governo popolare non può sussistere, se non si puntella sulla depressione o sulla schiavitù d’una parte del popolo (…), uopo è conchiudere, che molto resti tuttavia da fare, perché anche le più incontrastabili verità politiche acquistino il debito predominio”. (G.B. Tuveri, “La libertà e le caste”).
In effetti Tuveri fu più vicino alla posizione dei democratici federalistici del risorgimento, che vedevano nelle Regioni-Stati, dotate di poteri sovrani, gli elementi costitutivi dello Stato federale. Rispetto a Cattaneo, con il quale entrò in relazione, Tuveri non condivideva, data la sua formazione, il positivismo liberale che ne improntava la visione politica. Così come non condivideva per analoghe ragioni l’ateismo e l’anticlericalismo di matrice socialista, che permeavano le posizioni di G. Ferrari.
5. L’opera di Tuveri non ebbe nell’ambito isolano quei riconoscimenti e quella diffusione che avrebbe senz’altro meritato. Tuttavia essa ricevette una certa attenzione dalla cultura e dalla stampa nazionale, tra cui “La Ragione” di Ausonio Franchi e “La Civiltà Cattolica”. Quest’ultima non mancò di prendere le distanze dalle posizioni di Tuveri, pur rilevando la profondità, l’estensione della sua analisi e della sua erudizione.
I saggi successivi (“La libertà e le caste” 1871 e “I sofismi politici”), che in qualche modo costituiscono la trilogia tuveriana, non raggiunsero quel respiro teorico che informa la sua prima importante opera.
6. Il Tuveri del periodo 1860-1887 è soprattutto un attento interprete, oltre che caustico polemista, dei mali che affliggono la Sardegna e l’Italia.
La sua intensa attività di pubblicista lo porterà a collaborare con numerosi giornali isolani e del Continente, soprattutto vicini al pensiero di Mazzini, col quale Tuveri ebbe una corrispondenza, purtroppo perdutasi.
I temi da lui trattati furono molteplici, e grandissima fu l’attenzione che egli rivolse alla Sardegna e ai suoi problemi.
Gli scritti in materia economica, soprattutto agricola (“Il frazionamento della terra”; “Le Leggi fondiarie”; “Beni ademprivili”; “Questioni del barracellato”; “Una nuova legge sui Monti di soccorso”; “Per la diffusione della bachicoltura”; “Sulla tutela e cultura dei boschi”; “Sulla caccia e sulla pesca”; “Sul pascolo errante in Sardegna”), in materia fiscale e doganale (“Tasse presenti e future”; “L’imposta sul petrolio”; “Il dazio sul consumo del sale”; “Il caro-viveri”; “La riscossione delle imposte”; “La tassa sul macinato”; “La tassa sull’alcool”), in materia di decentramento e di amministrazione locale (“Il Governo e i Comuni”; “Libertà comunale”; “Il decentramento”; “Imposte comunali e provinciali”; “Comuni ed enti locali”), sono alcuni dei numerosissimi argomenti che furono affrontati da Tuveri in virtù di una competenza che gli derivava anche dalla sua lunga esperienza di amministratore locale, ma soprattutto dalla capacità propria dell’uomo di pensiero che seppe inquadrare i problemi, anche quelli più specifici, in una più vasta visione di rigorosa difesa degli interessi sardi.
È questa concezione è chiaramente espressa nei suoi scritti: gli interessi dell’isola avrebbero potuto essere tutelati efficacemente solo in uno Stato federale e repubblicano. I problemi della Sardegna che avrebbero dovuto essere risolti prima con la fusione del 1847, poi con la concessione dello Statuto, quindi con l’unificazione politica della penisola, restarono irrisolti, e ciò non solo perché l’isola dipendeva da un governo che non voleva essere “col popolo e pel popolo”, ma perché “un’isola qualunque non può prosperare ove no si governi da sé, o non abbia tutta l’indipendenza che può conciliarsi colle prerogative del potere centrale il più limitato. E la Sardegna non raggiunse tutta la prosperità cui e chiamata dalla sua posizione, dai suoi porti, dalla varietà dei suoi prodotti appunto perché non ebbe mai nel suo seno un governo unico e sì organizzato da poter essere emendato radicalmente e costituzionalmente. Raggiungerà essa questa prosperità sotto un governo insofferente d’ogni libertà locale, e che esaurisca tutta la sua affannoneria nell’impigliarci con una rete di leggi barocche e nello studiare tutti i mezzi di trarci soldati e milioni?…”.
“Un governo – continuava il Tuveri – che pone tanta diligenza nello spendere il meno che possa nell’isola quanta ne pone nel ricavarne sempre di più; un governo che, per ciò, non ci lascia che un’ombra di forza pubblica; che macchina tuttodì soppressioni d’uffici e d’istituti pubblici; brontola ad ora ad ora sull’esistenza delle nostre Università e della Corte d’Appello; giunge ad accattare dagli stranieri non poche cose che in Sardegna troverebbe migliori ed a miglior patto; un governo che, nel mentre s’appropria delle rendite comunali, addossa ai comuni ed alle Provincie quasi tutti i suoi carichi e li sottopone a amministrazione dissennata e dispendiosissima; un governo insomma la cui grettezza non può essere pareggiata che dalla sua avidità; un governo siffatto basterebbe ad immiserire non noi, ma il popolo più dovizioso della terra”.
In corrispettivo dei milioni rastrellati con imposte, tasse e vendita di beni demaniali, il governo aveva elargito all’isola “la banca fondiaria più esigente e più usuraria che forse esista in Europa, qualche tratto di strada, ed una ferrovia il cui tracciato fu abbandonato ai più vituperevoli intrighi, e contro cui protestarono da settanta ad ottanta Comuni” .
E proseguiva: “Un’ultima interruzione: Voi, bene o male – mi gridano benevoli e malevoli – ci avete parlato dei nostri mali, ce ne avete indicato la causa; ci avete pur detto che il miglior rimedio sarebbe il lasciarci i tanti milioni che ci si tolgono dal governo. Ma come fare perché quei milioni rimangano nell’isola? Tollererebbe il governo in Sardegna un’agitazione all’O’Connel, quale l’Inghilterra tollerava in Irlanda? O vorreste consigliarci una rivoluzione?
Io non so se il governo tolleri che certe cose si facciano nello stesso modo con cui gradisce che vengano fatte le fusioni e le annessioni, perché l’affare cambia aspetto. Le rivoluzioni poi richiedono, per bene riuscire, dal favore di circostanze, che un posa piano qual io mi sono difficilmente s’induce a consigliarle. Un’insurrezione non farebbe che dare al governo l’occasione di ripetere le calunnie e le stragi onde fu sopraffatta la insurrezione di Palermo”.
Fu Tuveri – proprio in questo stesso articolo – che per primo introdusse il termine “questione sarda” per designare quel complesso di condizioni politico-istituzionali, economiche, sociali e culturali del ritardo storico della Sardegna.
“I nostri mali saranno adunque senza riparo?… L’avvenire sta nelle mani di Dio, e Dio aiuta chi si aiuta, dice il proverbio… Il molto che mi resta a dire sull’argomento di quest’articolo, io lo dirò, quando che sia, in apposito libro, che mi riservo di pubblicare, dove mi sia lecito di scrivere quel che sento, ed abbia speranza di suscitare una nuova questione: la questione sarda”. (G. B. Tuveri, “Initium Sapientiae”, in “La Cronaca”, n. 4, 1867).
La lezione di Tuveri conserva ancora un significato profondo nel perdurare delle condizioni di sottosviluppo della Sardegna, alle quali il centralismo statuale non può offrire allora come oggi, valide linee risolutive.
Ad un popolo che si trovava nell’oggettiva impossibilità di perseguire i propri fini di progresso economico e civile – per il cui conseguimento aveva delegato quella Sovranità Impersonale che solo ad esso appartiene – G. B. Tuveri seppe dare una prospettiva di risposta di penetrante chiarezza: riconoscersi innanzitutto come popolo – quale “grande famiglia del genere umano” come egli diceva – e quindi “ripetere” dai governanti, con mezzi non necessariamente violenti, quei poteri sovrani esercitati in modo evasivo e frustrante i legittimi traguardi di crescita economica e civile.
In Tuveri vi è dunque una visione forte dell’autonomia, che non discende dall’alto dello Stato per delega di poteri, ma emana dal basso, espressione di una sovranità popolare e di un patto federativo di popoli liberi.
Si ritrovano qui le radici storiche di quella prospettiva sarda al federalismo, che sarà successivamente ripresa.articolata ed arricchita da altre grandi figure tra le quali primeggiano in tempi a noi più vicini quelle di C. Bellieni, F. Fancello, E. Lussu e dello stesso Gramsci, che riconobbe nella prospettiva federalista una concezione insita nelle aspirazioni popolari e progressiste dei sardi.
8. Tuveri fu pienamente consapevole dell’esigenza di difendere e valorizzare a pieno le autonomie regionali nella fase in cui si costruiva lo Stato unitario in Italia.
Da qui il suo insistere non solo sul primato politico, ideale e morale dello Stato federalista, ma anche sulla fattibilità storica di questo modello, mostrata nella sua concretezza dall’esempio fornito dalla Confederazione Elvetica e dagli Stati Uniti d’America .
Così oggi che si tenta di realizzare un’Europa politicamente unita dobbiamo avvertire tutti l’esigenza di puntare verso un modello in qui le Regioni, espressioni di identità e di culture originali dei popoli trovino il più ampio riconoscimento istituzionale.
L’esperienza maturata durante e dopo la formazione dello Stato unitario in Italia ci ha fatto conoscere le gravi conseguenze economiche, sociali, culturali e politiche che il centralismo statuale ha prodotto non soltanto per le singole realtà regionali, soprattutto meridionali, ma anche per l’intera comunità italiana.
È compito impegnativo per la classe dirigente isolana in primo luogo, ma anche per tutti i sardi prendere coscienza della lezione della storia, affinché il processo di costruzione dell’Europa non crei ed amplifichi su scala più vasta una “questione meridionale Europea”. Questo significa anche ripensare alla luce dei tempi e dei problemi della Sardegna di oggi il pensiero di G. B. Tuveri perché il suo insegnamento non resti consegnato soltanto agli eruditi, ma diventi motivo di riflessione sulle radici e sull’immenso valore che ha la prospettiva federalista per un domani migliore della Sardegna, dell’Italia, e dell’Europa.
Convegno per Giovanni Battista Tuveri – Collinas – 6 dicembre 1984
19 Dicembre 2016 by