Crisi di Governo, crisi dei Partiti, crisi dell’economia, crisi dell’occupazione, crisi delle istituzioni, crisi dell’identità.
Sembra di leggere in un testo di storia l’elenco delle cause che hanno determinato la disgregazione di un qualche importante Impero.
E invece no: è storia di questi giorni ed è quella che noi viviamo nella realtà italiana.
A ben guardare però non si tratta di cause ma di conseguenze che hanno origine in ben altra e più importante crisi: quella dello Stato centralista.
Una crisi che ha in se il seme malefico della dissoluzione evidenziatasi in tutta la sua forza eclatante ottant’anni fa, quando Mussolini ha creduto di superarla portando il centralismo statale sino agli estremi limiti della dittatura.
Né migliori risultati ha conseguito il pavido tentativo di ampliare le basi democratiche dello Stato attraverso un regionalismo di facciata; Regioni rachitiche ridotte ad un ruolo di burocrazia periferica dell’Amministrazione Statale.
Un esperimento che ha impedito la partecipazione popolare al Governo della cosa pubblica, ne ha frustrato il ruolo protagonista. Il mancato trasferimento ai poteri locali ha, da un lato, reso elefantiaca, lenta e corrotta l’Amministrazione Centrale e, dall’altro ha impedito il formarsi di un tessuto vivo ed attivo di classi dirigenti locali per cui anche i più generosi tentativi di autonomia sono andati ad arenarsi nelle sabbie mobili di un non potere, ben presente invece in sedi esterne alle istituzioni, operanti in funzione di interessi particolari, di aree territoriali, o di gruppi economici privilegiati.
Crisi dello Stato quindi.
Il disfacimento trova qui la sua genesi. Il verticismo dei partiti, attraverso una lunga e tortuosa successione di scandali, é giunto al disonorevole degrado di tangentopoli e così alla propria dissoluzione; né basta l’affannosa ricerca di nuove sigle per restituire vitalità a strutture organizzative sclerotizzate, incapaci di un vero rinnovamento.
Ma neppure il materiale, fisiologico bisogno di colmare i vuoti creati dalla crisi dei vecchi partiti ha prodotto migliori risultati.
L’irrompere sulla scena politica della Lega da un lato, il Berlusconismo (associato al riaccendersi della vampata missina) dall’altro non rappresentano certo novità attendibili ed affidabili. Nascono entrambi come movimenti di generalizzata protesta contro il potere romano, la sua gestione arrogante, corrotta e, tutto sommato fallimentare.
Una protesta così vasta e molteplice da esprimere tutto ed il suo (contrario). Mentre la lega esprime il malessere delle popolazioni del Nord convinte, ben a ragione, di sopportare il peso più alto del contributo finanziario e fiscale per la sopravvivenza dello Stato e chiama, impropriamente, questa sua battaglia Federalismo, il Berlusconismo, mentre si propone molto più semplicemente il secessionismo fiscale del Nord rispetto al resto del Paese, il Berlusconismo, per il suo promotore si preoccupa soprattutto e sommamente di Berlusconi, dei suoi interessi economico finanziari, che sono vasti e molteplici; per i suoi come dei suoi debiti che sono altrettanto vasti e molteplici; per i suoi sostenitori é il mito dell’uomo forte, vincente, capace di fronteggiare e superare le grandi sfide del tempo e dare risposta alle attese della gente: occupazione alle moltitudini emarginate dalla crisi, forza, modernità e dinamismo all’economia, trasparenza ed efficienza alla burocrazia, moralità della politica.
Su quali basi possa realizzarsi tutto questo Berlusconi non lo ha detto essendosi limitato a parlare genericamente di mercato mentre il primo atto concreto di governo è stato un decreto salvapopolo tangentario.
Quali spazi si aprono per la Sardegna? Il buio più totale – o meglio: di chiaro c’è solo lo smantellamento dell’industria pubblica, la disoccupazione crescente, il crescente disimpegno dello Stato, lo spegnersi di ogni reale potere di Governo dello sviluppo da parte dell’autonomia sarda.
È sempre più chiaro che un tale traguardo nessuno ce lo regala; ce lo dobbiamo costruire lottando duramente, in unità di popolo non contro altri popoli ma contro altri, contrapposti interessi che hanno invaso la nostra economia e ci cacciano di casa come ci ricordano i cinquecentomila emigrati, le industrie sottocapitalizzate, i trasporti archeologici del sistema ferroviario, quelli umilianti, lenti e costosi dei collegamenti marittimi, costosi ed insufficienti quelli aerei; in breve: l’emarginazione dell’azienda Sardegna condannata al sottosviluppo strutturale e costretta ad una vita di sussistenza alimentata da un turismo sempre più colonizzante in una Sardegna sempre più spopolata. Solo la grande unità dei sardi può fronteggiare e vincere questa sfida della storia.
Non propongo la formazione di un nuovo ed unico partito, ma la federazione di tutte le forze e movimenti democratici che si accordano su alcuni obiettivi-cardine e lottino fervidamente, culturalmente, razionalmente, passionalmente insieme per realizzarli.
Fronte Unico quindi per dialogare, collaborare, integrarci, costruire insieme con il mondo esterno, e conservare invece tutta la ricchezza delle diversità nei dibattiti di politica interna.
Crisi dello Stato in Sardegna: creare un Fronte Unico – anni ’90
13 Dicembre 2016 by