La filosofia è sempre la stessa: cambiare per conservare.
L’amara intuizione di Tommasi di Lampedusa si conferma attuale anche in questa fase convulsa, contraddittoria, conflittualmente lacerante della politica italiana.
I partiti storici si sono dissolti, generando fazioni più rissose che bellicose, disancorate dalle loro genesi ideologiche, per spaziare dagli orizzonti dello spirito a quelli economici, passando attraverso solenni pronunciamenti sui vasti campi del sociale, dell’ambiente, dello sviluppo parolaio e naturalmente delle grandi riforme istituzionali.
Manco a dirlo: quanto più alta, irrevocabile e solenne è la pronunzia, tanto più generico onnicomprensivo, messianicamente irraggiungibile è l’obiettivo.
Ne da queste strategie sembrano discostarsi le nuove falangi politiche tipo “Lega” e “Forza Italia” – impantanata la prima in un federalismo verboso, concretamente proteso a chiudersi nel enclave ricco del nord Italia e, la seconda in una crociata anticomunista per difendersi da un comunismo che non esiste più.
Interessante è la serena sicurezza di Alleanza nazionale, passata, nel breve volgere di un anno, dalla struggente nostalgia del fascismo mussoliniano (ricordate Fini? “Mussolini, il più grande statista…”) al post fascismo per approdare alla democrazia liberista. In breve: all’antifascismo.
Contraddizioni? Cambiamento? Temo proprio di no. A ben guardare tutti puntano a conservare le cose come stanno.
Riforma dello Stato? Federalismo? Quali le proposte? in concreto: nessuna.
Riequilibro fra le regioni sottosviluppate con quelle ad alto indice di sviluppo? proposte? nessuna.
Riforme sociali finalizzate a garantire lavoro, dignità umana, soglie di sicurezza per tutti? zero.
La verità è che tutti mettono la barra al centro sia sul terreno del sociale che dell’istituzionale. Lasciare le cose come stanno, migliorandone il funzionamento, le tecniche, i tempi; in breve: consolidare l’esistente rendendolo più penetrante ed efficiente.
In questo quadro continuo a chiedermi: e la Sardegna? L’esistente la condanna; il futuro?
L’aumento della disoccupazione, non dovuto alla robotizzazione delle tecnologie, ma alla drastica riduzione delle attività produttive impone a tutti un severo ripensamento critico sul che fare.
Al di là delle frasi fatte e dell’autonomismo di maniera, resta nella così detta classe dirigente sarda, la convinzione che siamo deboli; che non c’è speranza di autonomia reale e che sia, quindi, essenziale rassegnarsi e adattarsi alla subalternità, assumendo colori e ruolo funzionali al partito romano vincente.
Importante è non sbagliare alleato; non ci sono limiti ai potenziali successi dei singoli associati al partito vincente. In caso contrario, con le elezioni, si perdono anche potere, appalti, consulenze, incarichi professionali, occupazione. Nella guerra fra poveri, guai ai vinti.
In questo quadro desolante non è difficile capire: la Sardegna non ha classe dirigente.
Non parlo di persone, che individualmente possono meritare il Nobel, o la Presidenza della Repubblica, ma del tessuto sociale che assume nei diversi campi dell’umano operare la responsabilità di decisioni coerenti e mirate a ruoli protagonisti; naturalmente, spontaneamente, istintivamente protagonisti.
Protagonismo in politica, come in economia, in trasfigurazione poetica, o narrativa, nel gioioso stare insieme, nel fare famiglia, gruppo sociale, comunità.
Protagonismo, non isolamento, competizione, non contrapposizione, solidarietà, non avidità.
Riflessioni queste che vado facendo a voce alta da diversi anni e che colgo con speranza e rinnovato entusiasmo quando, nel dibattito politico, ne riscontro consonanze.
Di grande respiro il confronto aperto dalla fondazione “Sardinia” sotto la presidenza di Giovanni Lilliu e Bachisio Bandinu sulla lingua sarda in chiesa e a scuola.
Penetrante e politicamente centrato l’articolo di Mariolino Floris sulla necessità di dar vita ad un forte movimento regionalista che aggreghi quelle componenti politiche che pur ispirate ai valori ideali che sono comuni a gran parte degli italiani dell’area moderata – tradizionalmente legata ai partiti d’ordine rispettosi delle direttive romane – se ne dichiari formalmente e sostanzialmente autonomo per rivendicare alla Sardegna uno status di reale sovranità che, senza attentare all’unità dello Stato, consenta però di realizzarne le potenzialità, prima fra tutte la centralità mediterranea sarda quale fulcro forte di un’economia marittima che ne rompa l’isolamento e la marginalità.
Non capisco come con queste premesse Mariolino Floris pensi che ci si debba chiudere in un moderatismo che rassereni tutti sulle buone intenzioni del movimento. Le sue proposte sono di per sé rivoluzionarie perché attaccano duramente gli interessi incrostatisi attorno alle strutture dello Stato, in larga misura parassitari e comunque antitetici all’affermarsi di una nuova area economicamente forte, moderna e competitiva, aperta, (anche in virtù della zona franca) ai commerci intercontinentali.
L’estremismo di destra o di sinistra ormai, più che rivoluzione, pratica e determina involuzione.
Rivoluzionaria è invece una istanza di giustizia perché tende a sovvertire l’ingiustizia specie se si regge sui poteri dello stato.
La nostra lotta non si esaurisce nel combattere il centralismo politico dei partiti e delle istituzioni statali, ma nel conquistare spazi e poteri operativi che modificano gli equilibri esistenti, aprono ai sardi prospettive che stimolando la competizione, li chiama a responsabilità oggi contrastate da quanti si avvantaggiano della loro assenza.
Vinciamo se siamo uniti, se ci crediamo; se riusciamo a convincercene noi per primi.
Prenderemo così atto che anche in Sardegna è rifiorita la classe dirigente capace di guidare un popolo diventato soggetto della propria storia.
Nuoro, 31 Marzo 1995
La Sardegna non ha classe dirigente – Risposta all’on. Mario Floris – La Nuova Sardegna – 8 Aprile 1995
13 Dicembre 2016 by