La frana non è l’unica causa del disastro – Senato della Repubblica – 27 aprile 1978 – VII Legislatura

Signor Presidente, signor Ministro, onorevoli colleghi, prima di passare all’esame dei tempi proposti dalla mozione dei colleghi comunisti voglio esprimere la partecipazione del Gruppo della sinistra indipendente alle famiglie delle vittime sacrificate nella terribile catastrofe ferroviaria avvenuta qualche settimana fa sulla linea Firenze-Bologna.
Pur nell’angoscia di questi giorni, così oscuri e difficili per il nostro Paese, riteniamo essenziale ripensare criticamente le cause del disastro onde far emergere una linea di politica ferroviaria che lo renda irripetibile. Non possiamo infatti accettare la fatalità quale momento produttivo dell’evento. È vero che nel suo verificarsi sono intervenute, nel breve volgere di pochi attimi, coincidenze così occasionali e straordinarie, naturali e non, da inquadrarsi nell’ambito dell’Eccezionale. Eccezionale, certo, ma, diciamolo senza infingimenti, prevedibile.
Causa prima e determinante è il degrado del suolo e quindi il dissesto del territorio dal quale ha tratto origine la frana che ha investito, facendolo deragliare, il treno Bari-Milano. Prevedibile, dicevo: infatti il bacino idrografico del Reno, all’interno del quale è avvenuto il tragico smottamento franoso, come ricordava poc’anzi il collega Carri nel suo lucido ed articolato intervento, aveva suscitato non pochi allarmi per cui furono elaborati progetti di sistemazione idraulico-forestale, idraulico-agrario, di regimazione delle acque di superficie per rallentarne lo scorrimento a monte e canalizzarne il deflusso a valle ed in pianura. Investimento previsto, rimasto per gran parte non speso: circa 60 miliardi. Erano quindi conosciuti i pericoli e i possibili rimedi. Di fatto si è rimasti sostanzialmente immobili, mentre con il decorrere del tempo il degrado del territorio è andato drammaticamente aggravandosi. Nessun addebito possiamo muovere all’azienda delle ferrovie dello Stato né al suo personale, al quale va il nostro rispetto e la gratitudine per il diuturno sacrificio profuso nell’esplicazione di un lavoro così difficile, pesante e professionalmente qualificato; responsabilità non di meno esistono e sono di natura politica.
I fatti sono qui, dinanzi a noi, a testimoniarlo. Il nostro Gruppo valuta estremamente positivo il fatto che oggi le Commissioni riunite, agricoltura e lavori pubblici, inizino l’esame del disegno di legge governativo sulla difesa del suolo. Se correttamente attuato e con i necessari emendamenti volti a salvaguardare le competenze regionali e a stimolare la partecipazione attiva delle popolazioni, il provvedimento è suscettibile di infrenare il generale processo di dissesto in atto in tutto il territorio nazionale ed in particolare nelle aree di montagna e di collina. Cause di tale dissesto vanno ricercate oltre che in una colpevole incuria, diciamolo pure, nella gestione speculativa del territorio: disboscamenti generalizzati, da null’altro motivati se non dalla prospettiva di lucrare altissimi profitti della lottizzazione di aree divenute, dopo l’eliminazione del bosco, fabbricabili; pratiche colturali che per la loro ubicazione sono da considerare dissennate e, a lungo andare, antieconomiche; bonifiche irrazionali, sia per il loro carattere episodico (visto spesso nella ristretta ottica aziendale) sia soprattutto per la sconnessione dal contesto territoriale; la mancata attuazione di una seria organizzazione, capace di fronteggiare in modo sistematico e generale il diffondersi dei devastanti incendi estivi; sono il risultato di una politica improvvida e colpevolmente inerte del Governo.
Siamo chiamati a fronteggiare le conseguenze di guasti così profondi ed estesi proprio nel momento in cui il paese attraversa una delle crisi economiche più difficili della storia. Dobbiamo quindi operare scelte coraggiose, destinando le risorse necessarie alle iniziative che il Parlamento ritiene non solo essenziali ma, rispetto ad altre, prioritarie. La difesa del suolo — e quindi dell’ambiente — è certo preliminare a tutte le altre, posto che qualsivoglia attività produttiva è intrinsecamente precaria se precario è il contesto territoriale nel quale si inserisce. Commetteremmo però un errore ove ritenessimo la frana causa unica del disastro ferroviario nella Firenze-Bologna. Di certo questo sarebbe stato scongiurato se fossero stati disposti sistemi d’allarme automatici, capaci di fermare istantaneamente i treni senza l’intervento umano su tutto il tronco ferroviario interessato dalla frana.
Il collega Carri ricordava poc’anzi la presenza di presidi anticatastrofe che consentono di lanciare allarmi su onde elettriche codificate, attraverso le quali gli operatori dispongono l’arresto rapido del treno. Ma i tempi tecnici spesso non consentono queste reazioni individuali ed umane; la dinamica di catastrofe non offre questi margini alla operatività dell’uomo. Le Commissioni lavori pubblici della Camera e del Senato hanno potuto sperimentare in un recente viaggio, i grandi progressi tecnologici in atto nel sistema ferroviario giapponese: sulla linea Tokio-Kyoto, che personalmente ho percorso, corrono, con un ritmo di 7 minuti di distanza l’uno dall’altro, centinaia di treni, a velocità media di circa 250 chilometri orari: i cosiddetti treni-proiettile. Ebbene, basta il più piccolo smottamento, una scossa tellurica — e il Giappone ne è sede di elezione — ancorché irrilevante ai fini della normale circolazione, un qualunque disservizio che alteri la programmazione centralizzata della complessa movimentazione, per determinare l’immediato, contestuale arresto di tutti i treni sulla linea e scongiurare così danni altrimenti inevitabili, date le alte velocità di percorrenza.
Siamo quindi in grave ritardo anche nella organizzazione tecnologica del sistema ferroviario. È bensì vero che per superare tutto ciò sono necessari notevoli investimenti, ma è altresì vero che la maggiore celerità, quantità e sicurezza del trasporto, in uno con le minori spese di gestione, ripagano largamente il sacrificio iniziale.
D’altra parte questo stato di cose non deriva tanto dal ritardo tecnologico del sistema ferroviario italiano quanto da una scelta politica tesa ad emarginare il trasporto ferroviario di massa per privilegiare quello individuale su strada: una politica che è stata dettata dal prevalere di ben determinati interessi dell’industria automobilistica sia per il trasporto di persone che di merci, a tutto danno dell’azienda pubblica.
L’aggravarsi della crisi economica trova anche in questi errori una delle cause del suo determinarsi. Oggi si pone quindi il problema del rilancio delle ferrovie quale momento essenziale e preminente della politica del trasporto nel suo complesso; politica che condiziona e coinvolge scelte che il Parlamento ha solennemente e ripetutamente affermato ma che restano pure affermazioni: prima fra tutte la scelta meridionalista.
Non è pensabile il riequilibrio territoriale tra il Nord, il Centro
ed il Sud del nostro paese se vengono potenziati i collegamenti ferroviari del Sud, onde consentire alle sue regioni di integrarsi economicamente con quelle del Nord, con l’Europa — lo ricordava poc’anzi il collega Fabbri — e, attraverso i raccordi portuali, con i paesi mediterranei. In questa prospettiva vanno viste la Orte-Falconara e la Pontremolese per le ragioni illustrate dai colleghi Carri e Fabbri e che non voglio ripetere per brevità.
Il rilancio delle ferrovie coinvolge positivamente le industrie fornitrici che da tempo sono travagliate da una grave crisi per mancanza di commesse, mentre consentirebbe un salto qualitativo nell’organizzazione tecnologica di un servizio che, a giusto titolo, è considerato essenziale e prevalente in tutto il mondo.
È però mio compito richiamare l’attenzione del Governo e del Parlamento sull’iniqua emarginazione della Sardegna anche nel campo ferroviario. Già pregiudicata e duramente penalizzata dall’insufficienza ed alto costo dei trasporti marittimi, la Sardegna, che non dispone di un solo chilometro di autostrada, conta su una rete ferroviaria vecchia di un secolo, strutturata su un solo binario, non elettrificata, i cui tempi di percorrenza e capacità di trasporto sono rimasti assurdamente bloccati agli standard del suo impianto, ripeto, vecchio di un secolo. Per non parlare delle folcloristiche linee ferroviarie in concessione che, se ci portano a momenti romantici, però è certo non suggeriscono una immagine di sviluppo che consenta all’isola di inserirsi nel contesto delle regioni italiane con pari dignità e con pari prospettive.
Oggi di quella rete, ormai veneranda e centenaria, si ipotizza l’ammodernamento. Con i colleghi Carri e La Valle, ahimè un po’ amaramente, si scherzava su questo argomento dicendo: ma in fondo gli smottamenti e le frane in Sardegna gran danno non fanno perché non c’è niente da danneggiare; non ci sono le ferrovie. Dicevo che di questa unica rete ferroviaria si pensa all’ammodernamento, ma si resta, nonostante tutto, nel vago, nell’indeterminato. Si parla di elettrificazione della Cagliari-Porto Torres, ma è impensabile procedere a questa elettrificazione se non si prevedono nel contempo sostanziali rettifiche di tracciato nelle zone di montagna del centro della Sardegna. Ben poca rilevanza avrebbe infatti la sostituzione della forza motrice — passare dal diesel all’energia elettrica, monofase o non so quale quantità di volts dovrebbero essere sperimentati per la prima volta in Italia — ove la tortuosità del percorso e la pendenza di questo imponessero di lasciare immutata la velocità e la qualità del tra-
sporto. La Sardegna, ripeto, è stata ingiustamente ed assolutamente trascurata ed emarginata. Oggi che la riflessione critica delle passate esperienze ci induce a rivedere e a superare gli errori del passato abbiamo il dovere di rendere giustizia ad una regione, ad un popolo che da troppo tempo aspetta di essere associato alla comunità nazionale, non con retoriche parole di circostanza, ma con azioni concrete nelle quali si realizza lo sviluppo.
Nell’avviarmi alla conclusione mi limiterò a ricordare l’esigenza di adeguare lo stanziamento di 400 miliardi previsto per il bilancio 1978 dal piano integrativo delle ferrovie, posto che dei 400 miliardi 220, mi pare, sono già impegnati per revisione prezzi e acquisti ordinari. Si rischia di non completare le opere e di non riuscire a spendere neppure le somme residue che sarebbero così destinate a gonfiare il già pesante bilancio dei residui passivi. In verità la somma inizialmente prevista in 2.000 miliardi per l’attuazione del piano integrativo nel suo complesso appare oggi superata, tanto che la stessa azienda ritiene indispensabile adeguare lo stanziamento portandolo ad almeno 4.000 miliardi. Anche in questa ipotesi resterebbero fuori dalla previsione del piano opere di grande importanza che ricadono per la maggior parte nel Mezzogiorno. Ricorderò, a titolo di esempio, la Potenza-Taranto, la Catanzaro-Lamezia, la Napoli-Foggia, la Palermo-Catania, la Palermo-Agrigento, la Messina-Catania, il raccordo Cassino-Campobasso e, come poco fa ricordavo, la elettrificazione della dorsale sarda. Una tale scelta sarebbe di eccezionale gravità perché tradirebbe ancora una volta la scelta meridionalista contribuendo a dilatare il divario economico e civile tra il Nord e il Sud e ad emarginare le popolazioni. Sollecitiamo quindi il Governo all’elaborazione di proposte serie e concrete che il Parlamento verificherà discutendone in una prospettiva volta a dare al nostro Paese quell’unità sostanziale che una corretta politica ferroviaria può contribuire a realizzare. {Applausi dall’estrema sinistra).