Commemorazione sui fatti di Buggerru – Buggerru – settembre 1984

Un’osservazione preliminare: la storia della Sardegna è punteggiata da pagine oscure, spesso rimosse dalla storiografia ufficiale per acquiescenza politica o, semplicemente, per difficoltà di reperimento delle fonti. Le lotte proletarie e operaie in particolar modo sono state sempre o distorte o addirittura dimenticate (fu così, per esempio, per l’eccidio di Iglesias dell’11 maggio 1920), ed è perciò di grande rilievo, anche sociale e politico, che il comitato organizzatore abbia voluto accompagnare queste manifezioni celebrative dell’80° dei fatti di Buggerru anche da un convegno storico che illustri, commenti, valuti non soltanto gli avvenimenti, ma anche il loro influsso sulla storia successiva del nostro Paese e in particolare della Sardegna.
Ripercorrere quei fatti e quei tempi può essere politicamente utile anche oggi; in un’epoca cioè in cui la Sardegna versa in una crisi gravissima dopo il fallimento – almeno parziale – di una politica di industrializzazione monoculturale che ha, è vero, provocato quando era in funzione, un notevole aumento del reddito ed ha fatto fare un salto di qualità a tutta l’economia isolana, ma, entrato in crisi, ha dimostrato quanto tutta la nostra economia fosse dipendente dai fattori esterni e quanto labile fosse quel poco di benessere che s’era diffuso in Sardegna. I 130.000 disoccupati di oggi sono la dimostrazione della debolezza di quel progetto di sviluppo. Le situazioni economiche di quei tempi, le motivazioni lontane che portarono quei minatori a ribellarsi a condizioni di vita e di lavoro sub-umane sono attuali anche oggi. Anche oggi, infatti, l’alternativa che si pone ad un modello di sviluppo imposto dall’esterno è quello non soltanto dello sfruttamento delle risorse locali, ma anche quello di creare in Sardegna un sistema di produzione che sia autopropulsivo. Ciò non significa certamente separatezza né autarchia, oggi addirittura impensabili. Tutte le economie, anche le più forti, sono interdipendenti tra di loro e nessuno oggi vuole rinchiudersi in Sardegna in un progetto di pura sopravvivenza con ritorni ad un’economia agro-pastorale? Ma così come in quegli albori del secolo le materie prime venivano estratte dalle miniere della Sardegna e portate fuori per le successive lavorazioni che davano ai prodotti la maggior parte del lavoro aggiunto, ai nostri giorni si fanno le prime lavorazioni del petrolio, o dell’alluminio o si esportano marmi e graniti quasi grezzi.
Scendere a valle nei processi produttivi costituisce anche oggi un obiettivo da raggiungere. Si pensi che all’epoca dei fatti di Buggerru in Sardegna si producevano circa 150 mila tonnellate di minerale per un valore di circa 22 milioni di lire d’allora contro un monte salari di meno di 9 milioni di lire. Allora le paghe dei minatori erano le più basse in assoluto sia in Italia, sia in Europa e negli USA. In media erano di poco superiori alle 2 lire al giorno (ed un chilo di pane alle cantine era a 40 centesimi il chilo, ed era di seconda qualità). Angiolo Cabrini che, per “L’Avanti della domenica” scrisse una serie di servizi che poi furono raccolti in volume ed ebbero larga diffusione tra i socialisti e i democratici sardi, annota che “gli operai del distretto di Iglesias devono acquistare i generi di prima necessità agli stessi prezzi di Milano e di Roma dove i salari salgono a 3, 4, 5 lire al giorno”. Il salario dell’operaio di Iglesias era di 2,22 al giorno.
Per sottolineare quanto fosse di rapina tutta l’economia della Sardegna basti considerare che, sempre nel 1904 le importazioni della provincia di Cagliari era di poco più di 24 milioni e mezzo, mentre l’esportazione (ed erano appunto prodotti grezzi) era di 38 milioni e mezzo.
Sarebbe però un errore – oggi anche politico – separare i fatti di Buggerru da tutti gli episodi di lotta sociale che li hanno preceduti e che li hanno seguiti. Di solito si ricorda che, oltre all’eccidio di Buggeru, causò il primo sciopero generale della storia sindacale italiano la serie di repressioni violente nelle campagne meridionali (i fatti di Cerignola e Castelluzzo, per esempio) e tutto ciò è giusto, ma per la crescita del movimento politico e democratico della Sardegna bisogna ricordare gli scioperi che in Sardegna cominciarono fin dagli ultimi anni dell’800 e si ripeterono fino ai fatti, successivi a quelli di Buggerru, di Gonnesa e poi, nel 1906 di gran parte della Sardegna fino ai gravi disordini di Cagliari a denunciare una situazione economica e sociale insostenibile. A ben guardare i prodromi di questi movimenti possono ritrovarsi fin dall’anno successivo alla cosiddetta rinuncia dei “diritti di autonomia” per arrivare all’unione perfetta con gli stati di Terraferma. La delusione di quell’unione perfetta fu immediata e fin dai primi anni cinquanta del secolo scorso i gruppi democratici – di derivazione illuministica e, in Sardegna, di derivazione angioyna – cominciarono a contestare – fin da prima dell’unificazione italiana – il modello di stato che si andava costruendo, rivendicando maggiore autonomia sia per i Comuni sia per le Provincie.
La particolarità della condizione della Sardegna poi veniva rivendicata almeno a riparazione del malgoverno del secolo precedente. Non a caso infatti le esecuzioni giudiziali erano in Sardegna superiori per numero a quelle di tutto il resto del Regno. Fu poco dopo che lo storico Ignazio Esperson , sassarese, tentò di dare un’interpretazione della storia sarda vista, direbbe qualcuno oggi, dalla parte dei vinti. Ciò gli consentiva di riprendere i temi angioyni della Repubblica Sarda divisa nelle province storiche sarde secondo il progetto che l’Angioy, esule, aveva pubblicato in Francia. In questa temperie politica e culturale avvennero, sul finire degli anni ’80, le vicende delle guerre tariffarie che penalizzarono tutta l’agricoltura meridionale per consentire l’industrializzazione delle regioni settentrionali, ma penalizzarono soprattutto la Sardegna che, dopo un decennio di buoni raccolti cominciava ad esportare numerosi prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento soprattutto in Francia. Nacque allora in Sardegna quel movimento antiprotezionista che fece sentire il suo influsso fino ai primi decenni di questo secolo. Nel 1895 l’economista sardo Giuseppe Todde propose di “istituire per la Sardegna un regime speciale che le consentisse di essere amministrata per un ventennio in modo diverso dal resto del paese. La sua proposta era di “trasformare la Sardegna in porto franco con la soppressione dei monopoli, la abolizione dei dazi interni, la diminuzione dei noli marittimi, diminuzioni fiscali, nuova regolamentazione della proprietà terriera, esclusione dei parlamentari dagli enti locali, esonero per venti anni da ogni imposta, istituzione di nuovi istituti di credito, creazione di una legislazione speciale in materia economica e sociale”.
E pensare che oggi c’è chi si scandalizza perché proponiamo un “progetto di fattibilità” della zona franca!
Le agitazioni sindacali, le rivolte popolari, la crescita del movimento socialista (crescita che non trova rispondenza nei voti perché, appunto nel 1904, su circa 15.000 minatori, per esempio, soltanto 350-400 avevano diritto al voto poiché circa il 92% di loro era analfabeta) portarono nel 1914 a quel congresso del popolo sardo che Attilio Deffenu e la sua rivista “Sardegna” convocarono a Castel Sant’Angelo. Furono poste le premesse per un movimento politico più vasto che però lo scoppio della guerra paralizzò. Lo stesso Attilio Deffenu morì in una delle prime azioni della Brigata Sassari. Ma fu proprio nelle trincee dove, in una terribile esperienza comune si trovarono insieme gli intellettuali, come ufficiali di complemento, e pastori e contadini e operai e pescatori che maturò quel movimento che prima fu dei combattenti e poi divenne il Partito Sardo d’Azione che portò tutti quei fermenti verso il progetto di autonomia e di autogoverno.
Non è la forzatura storica d’un sardista e, per giunta, presidente di una giunta che trova la sua maggioranza nel PCI nel P. S. d’Az e nel PSI ma è una lettura della nostra storia sarda senza i pregiudizi di tanti commentatori di comodo, quegli stessi che sostengono che in duecento cinquant’anni l’Italia ha dato alla Sardegna ferrovie, autostrade, dighe e non so quant’altro. Dimenticando che la Sardegna è la sola regione italiana a non avere nemmeno un’autostrada; Nuoro è l’unico capoluogo di provincia a non avere ferrovia statale; la Sardegna sarà l’unica regione italiana a non avere l’energia del gas naturale.
Come si vede la strada da percorrere è ancora lunga e l’inaugurazione di questo monumento al minatore, simbolo del lavoro e del sacrificio di tutti i sardi e delle loro lotte, potrà essere ancora per molto il simbolo di una Sardegna che lotta per un suo avvenire migliore.