Il giorno 26 novembre Nuoro accoglierà le spoglie mortali di uno dei suoi figli più grandi, Francesco Ciusa; l’indomani, dopo la cerimonia religiosa in Cattedrale, un corteo formato dai familiari, dalle Autorità e dal popolo le accompagnerà nell’ultimo viaggio fino alla chiesetta di San Carlo, che per tutta la Sua vita, con Nuoro, è stata uno dei luoghi prediletti della Sua memoria e delle Sue nostalgie.
Francesco Ciusa nasce a Nuoro il l°luglio 1883, nel rione di San Pietro, proprio difronte alla chiesetta di San Carlo; muore a Cagliari nel 1949.
I suoi 66 anni di vita sono stati vissuti durante uno dei più drammatici periodi della storia tanto europea e mondiale – due guerre mondiali, le dittature totalitarie – che sarda (il doloroso ultimo quindicennio del secolo scorso con l’esplosione del banditismo; la contemporanea nascita della “questione sarda”; l’arresto del moto autonomistico col ricorso alla violenza da parte del Fascismo; infine, la ripresa della vita democratica dopo la seconda guerra mondiale).
3. Francesco Ciusa è sempre all’interno di questo complesso e tormentato momento storico; lo è perché e in quanto artista, perché
ha incoscienza di sé nel mondo che lo circonda.
Egli ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Firenze, grazie ad un sussidio annuo di 300 lire, deliberato dal Consiglio Comunale di Nuoro dopo tre anni di insistenze e d’ansia. Nella città toscana ha imparato a costruire la statua; fra gli scultori, più cha ai neoclassici o ai veristi della sua epoca, ha guardato agli scultori del Quattrocento fiorentino e in particolare a Donatello; sopratutto in Donatello ha visto l’opera d’arte come verità, come momento significativo nella storia di una civiltà.
Le Sue opere, a cominciare dalla “Madre dell’ucciso”, esposta a Venezia nel 1907, e poi, via via, il “Pane”, la “Filatrice”, il “Dormiente”, il “Cainita”, il “Nomade”, la “Dolorante anima sarda”, compiute tra il 1907 e il 1914 ed esposte in buona parte sempre a Venezia, alla Biennale che era la Rassegna d’Arte più importante del mondo, esprimono due aspetti dell’anima sarda: quello triste, drammatico e l’altro, equilibrato ed operoso.
Esse sono il più alto atto di coscienza della società nuorese (e sarda),giunta a un momento-limite della propria storia; Egli le modella in forme intense e chiuse, animato dall’anelito e dal desiderio di cogliere e di esprimere lo spirito di quella condizione umana, della sua gente.
È lecito parlare, proprio in virtù di quel modellato tirato verso l’essenziale, di un atto continuo di vera e propria meditazione storica, della coscienza nettissima del crocevia a cui la società sarda, e barbaricina in particolare, è giunta all’alba del nuovo secolo: se essa non vuol perire deve pur cambiare.
4. La “Madre dell’ucciso” gli procura, a soli 24 anni, il trionfo veneziano del 1907, e la conseguente fama non solo nazionale; la notizia scoppiò come una folgore, illuminando l’orizzonte nuorese, che avrebbe visto, nel prodigioso periodo fra il 1890 e il 1914, il fiorire dell’attività di Grazia Deledda, di Sebastiano Satta, dei poeti satirici, accanto a quella di Ciusa.
Quella madre “pietrificata dal dolore, nella quale già i miei concittadini ritrovarono un realismo composto ed espressivo caro agli artisti toscani” (Piero Bargellini); quella “Madre”, scolpendo la quale Ciusa si era liberato, ed aveva nel contempo liberato gli altri, dalla lunga notte sarda, durata secoli, notte fatta di silenzio, di sconfitte, mai di rassegnazione.
Sarà Emilio Lussu, nel celebre saggio che ha per titolo “L’avvenire della Sardegna”, apparso nel 1951 sulla Rivista fiorentina “Il Ponte”, di Piero Calamandrei, a riconoscere a Francesco Ciusa il merito di aver capito ed interpretato, “in quella sua Madre dell’ucciso che non per nulla sembra ispirata al bronzetto dell’epoca nuragica, che Egli ignorava”, il significato ed il valore essenziali dell’anima sarda; del nostro sarcasmo, della nostra ironia apparentemente disarmata; in altre parole della nostra storia scandita dal dolore e dal tormento delle madri, dal sangue fraterno versato dagli innumerevoli Caini.
Le sue sculture sono tanto, la confessione della vita quanto l’epopea della gente fra cui era nato ed era cresciuto.
Egli non abbandonerà mai la Sua gente, vincendo la tentazione del denaro e della vita facile della città, rifiutando un’allettante proposta di lavoro in America, fattagli da un ricco industriale; Sebastiano Satta che gli invia a Venezia questo telegramma: “Se sei debole, parti; se sei forte, ritorna” e la sorella Luisa, che gli scrive: “Torna a lavorare a contatto della tua gente, con il seme della tua terra”, trovano un destinatario ben disposto ad accogliere il loro consiglio.
5 Nel primo dopoguerra riprende con il “Pastore morto”, esposto sempre alla Biennale del 1922. L’opera, certo una delle più belle dello scultore, andò in frantumi in uno dei bombardamenti subiti da Cagliari nel 1943. Rappresentava un giovane morto, steso come un crocefisso sul dorso delle pecore. Nasceva l’opera da un fatto reale, che nella sua mente aveva assunto lo stupendo sapore di un mito, come di un racconto che perdurava triste e affascinante nella memoria.
Il vecchio poeta estemporaneo, di cui parla nel Diario, scritto alla metà degli anni Trenta, aveva raccontato, nei gradini della chiesetta di S.Carlo, di un giovane ucciso trovato dalle pecore, che se lo erano caricato sul dorso e riportato all’ovile.
Nei primi anni Venti si dedica alla ceramica; le committenze erano rare; ma Francesco Ciusa, per temperamento e scelta morale, ignora il committente, sia pubblico che privato; il Suo committente è stato la vita del popolo sardo.
Nel campo della ceramica, la prima vera industria del genere in Sardegna, compie piccole opere di rara bellezza. Fra cui: la “Sposa di Nuoro”, il “Sacco d’orbace”, “Fremiti di violino2, il “Bacio” la “Famiglia”. La più bella e significata va di questo gruppo di piccole opere è certamente “La campana”. Un pastore tiene sotto la sua protezione la famiglia e il gregge; il mantello protettivo è a forma di campana.
6. Nel 1925 fonda, con la collaborazione di Carmelo Floris, un altro grande dell’arte, non solo sarda, di questo secolo, ad Oristano la “Scuola d’Arte Applicata” con l’intento di dare dimensione poetica ed artistica all’artigianato sardo.
In altri termini, si proponeva di istituire una scuola nuova, da cui dovesse uscire intensificata sul piano produttivo e qualitativo ogni manifestazione che ogni artigiano poteva creare. Il programma, in questo senso era di una modernità straordinaria.
Nel 1927, proprio ad Oristano crea “L’Anfora sarda”. Fu la Sua ultima presenza a Venezia. Ormai, in nome dell’unità nazionale, si era dato bando alle espressioni regionali; queste, anzi, furono definite folclore e , come espressioni di folclore, messe da parte. Francesco Ciusa passò gli anni più duri. Si dedicò perfino all’edilizia; progettò e compì un palazzo a Cagliari in cui è evidente un certo gusto liberty calato in un ambiente particolare.
Alla metà degli anni Trenta scrisse il diario, opera altamente poetica, in cui rivive l’ambiente e le premesse storiche e “sentimentali” di tutte le Sue opere.
Alla fine degli anni Trenta si reca ad Orgosolo. Voleva ritrovare un ambiente che lo riportasse alle problematiche originali della “questione sarda”. Compì una grande scultura: “Il Fromboliere”, il piccolo David vuole essere come un atto di ribellione e di ripresa di coscienza intorno ai problemi più vivi della Sua terra. Un ragazzo è visto tutto teso nel lanciare con la fionda il sasso che dovrà colpire ciò che è vecchio affinché dalla fine del vecchio, del quotidiano, nasca il rinnovamento dell’Isola. Comincia la sua opera con un grande messaggio e la conclude ugualmente con un messaggio: la prima, una “Madre” tutta chiusa nella tragedia; l’ultima, tutta aperta e tesa verso una meta.
8. Francesco Ciusa possiede la rara caratteristica, propria dei grandi artisti, dell’unità totale tra l’uomo e l’arte, tra vita vissuta e frutti del proprio talento.
Egli è stato un uomo coerente, che non ha mai mutato indirizzo rispetto alla strada prescelta; un artista che ha maturato il Suo ideale vivendo fino in fondo le passioni e i sentimenti della Sua gente; la parabola della Sua arte si è svolta senza incertezza per quanto riguarda i contenuti e con piena e sovrana sicurezza nelle sue forme.
La manifestazione odierna non dev’essere formale e retorica celebrazione fine a se stessa, ma l’occasione per tutti noi, amministratori e cittadini sensibili alle sorti della cultura, di stringere un pubblico impegno per fare quanto prima – in una sede, in un momento e nel modo che saranno più opportuni – un pubblico e rigoroso bilancio della cultura sarda oggi; per verificarne limiti e carenze, ma
anche potenzialità e valori; per fare di essa, senza vincoli di parte e preconcetti ideologici, uno dei campi nei quali le giovani generazioni possano ritrovarsi e contribuire a far nascere quella, “aurora sui nostri graniti” che è ancora una delle nostre speranze.