Convegno “Diritto di vivere, diritto di morire” – Università di Cagliari – Servizio di Assistenza religiosa – Clinica Medica generale – Cagliari 1986

Partecipando a questo Convegno mi riproponevo in verità di non prendere la parola ma di limitarmi ad ascoltare, convinto che un’assise così qualificata, impegnata ad affrontare questioni di così alto valore umano e civile, mi avrebbe consentito di ripercorrere i grandi temi del nostro tempo, cogliendo alcuni dei fermenti incontenibili ormai diffusi nella nostra società, che pongono nuovi interrogativi sul vivere insieme e, quindi, sui modelli che tradizionalmente siamo abituati a considerare come emblematici di una certa condotta morale.
Ma la vita cambia, cambiano i problemi, cambia anche la morale. Naturalmente non si tratta dei principi che, in quanto universali, restano validi in tutti i contesti territoriali e in ogni tempo, bensì di aspetti significativi dei principi etici che governano la vita sociale e che devono tener conto di nuove mutate imprescindibili esigenze, di nuove domande che la società si pone e alle quali occorre dare risposta.
La morale – come afferma il Reverendo Armand ohe in Australia segue i principi della bioetica – quella che per tradizione consideriamo come pietra angolare di guida per la nostra esistenza, è in gran parte superata, obsoleta rispetto ai problemi che attualmente si pongono, mentre davanti a noi si distende il grande deserto della nuova morale che ancora dobbiamo costruire.
Ancor prima della buona morte postulata dall’eutanasia, c’è il diritto di trasmettere la vita per chi, impedito di procreare naturalmente, sente irresistibile il bisogno dei figli, di proiettare sé stesso oltre la propria vita, perpetuando la propria testimonianza al di là delle barriere naturali e fisiche del proprio esistere.
In base a quali principi etici la scienza si è incaricata di superare, laddove esistono, i limiti fisiologici che impediscono di realizzare questo desiderio di un figlio?
La fecondazione in vitro, questo vivere nella tecnologia, nei freezer di una laboratorio solleva non pochi inquietanti interrogativi sul vivere al di là della vita del procreatore, sul nascere quando questi si è estinto già da molto tempo e si è ancora in attesa di trovare una madre.
Il pensare che due coniugi possano “affittare” il corpo di un’altra donna per depositarvi l’embrione, frutto del loro amore, dopo che il seme maschile e l’ovulo femminile sono stati raccolti e fecondati in vitro, spinge ad interrogarsi sulla natura dei rapporti tra questa donna e l’essere che porta in seno, e tra quest’ultimo e la donna che lo ha soltanto ospitato, mentre i veri genitori potevano attendere ad altro quando questa nuova vita cominciava i suoi palpiti.
Si avverte dunque l’esigenza di una morale che sappia offrire valide risposte ai problemi della vita originati dalle nuove frontiere della scienza e della tecnologia.
Io non possiedo formule né soluzioni al riguardo e credo che tutta l’umanità avverta il travaglio profondo di una crisi di transizione derivante dall’ingegneria della vita. È la biologia che in un certo senso assume i connotati propri dell’innovazione tecnologica. Ma fino a che punto è etico il forzare i processi naturali, fino a che punto è giusto trasmettere come in questi casi la vita, sono domande che pongono in discussione tutta la filosofia e l’etica della medicina.
Pur continuando ad invocare dalla scienza medica tutti i soccorsi possibili, anche i più eroici – come si è soliti dire quando il medico deve ricorrere ad un uso drastico del bisturi – non possiamo tuttavia non chiederci dove e quali siano le frontiere invalicabili dell’azione medica, allorché questa da azione curativa diviene momento creativo di vita.
È qui che sentiamo la mancanza di quelle barriere etiche, proprie di una morale che è ancora da costruire e di cui si avverte fortemente il bisogno.
Nell’affrontare tali problematiche – in presenza di quel deserto cui alludeva il Reverendo Armand – sembra di percepire una sorta di partito conservatore che si oppone a queste innovazioni, pur guardando ad esse con estremo interesse perché investono problemi cruciali della vita, persino quando questa è ricercata attraverso la selezione di un soggetto geneticamente perfetto perché da esso possano nascere altri individui perfetti.
Un tema quest’ultimo che richiama per contrasto quello dei bambini han handicappati, che nascono con menomazioni cerebrali così gravi da renderli incapaci di elaborare un concetto, di sentire il dolore, di amare, di vivere come esseri umani. Questi bambini possiedono una loro personalità o sono soltanto organismi che vegetano e basta? Quale è il significato del prolungare una vita di questo genere?
Non è mio compito dare risposte a queste angosciose domande; né penserei mai di rivendicare questa materia alle competenze dell’Amministrazione regionale che ho l’onore di presiedere. Ma ove fossi chiamato ad assumere decisioni di governo in un ambito così delicato, mi porrei il problema di sentire tutti e di mettere a confronto le diverse opinioni. Ho colto perciò con particolare entusiasmo anche questa occasione proprio perché costituisce un momento prezioso di arricchimento di cui tutti avvertiamo il bisogno. Il continuo emergere di situazioni originate dal progresso scientifico propone infatti alla nostra coscienza nuovi interrogativi sui temi fondamentali di una morale che pur conserva intatti i suoi valori perenni.
Ecco perché sul problema del vivere e del morire – cioè sul diritto alla buona morte – è in corso un vasto dibattito, che investe non solo il diritto alla vita ma anche la libertà di scelta della sua interruzione. L’orientamento, mi pare di capire, è quello di negare il diritto alla buona morte ove non vi possa essere il consenso del soggetto, in presenza cioè di quegli stati di coma irreversibile che non consentono di appurare l’espressa volontà dell’interessato di interrompere o meno una sofferenza priva di ogni speranza e fine a se stessa.
Tale orientamento esclude tutte le considerazioni di tipo utilitaristico, come quelle che suggerirebbero di non destinare ad un soggetto, ormai irrecuperabile, prestazioni e cure sanitarie che potrebbero invece essere impiegate per salvare altre vite.
I costi sociali che in tali circostanze risultano particolarmente gravosi per la famiglia e la stessa società, non possono costituire gli elementi determinanti di una scelta. Sono i principi etici ad escludere ogni calcolo di convenienza, e lo escludono soprattutto perché manca la volontà del soggetto.
Viviamo in una regione che conosce la drammatica realtà dei bambini talassemici, che solo alcune decine di anni fa non venivano curati. Si riteneva, infatti, che il curarli significasse nient’altro che prolungare una sofferenza inutile, essendo comunque destinati ad una morte precoce. Ma quale errore drammatico vi fosse in quella filosofia è ora a tutti noto, poiché oggi la scienza consente a quei ragazzi di diventare medici essi stessi e di aspirare, comunque, ad una vita da protagonisti. Si pone così un altro grande interrogativo: la scienza, là dove oggi risulta impotente, potrà domani dischiudere nuovi spiragli e nuove opportunità per il recupero pieno della vita?
Altrettanto importanti sono i problemi della libertà, cioè degli spazi che attengono alle libere scelte di ciascun individuo. Dove si ferma questa libertà? Nell’usare violenza a sé stessi? Nel suicidio assistito?
Io non ho risposte. Ne è compito del Presidente della Giunta tracciare soluzioni o pronunciare sentenze su questioni che vanno al di là non solo della sua sfera di governo, ma anche delle competenze della stessa persona che vi parla e che è venuta qui in tutta umiltà per riempire il proprio spirito di quei messaggi che certamente saranno illuminanti e che credo gioveranno a noi tutti.