Comunicazioni del Governo – Discussione
Presidente. È iscritto a parlare il senatore Melis. Ne ha facoltà.
Melis. Signor Presidente, onorevole Presidente del Consiglio, onorevoli colleghi, il 16 marzo del 1978, nel concludere il mio intervento sulle dichiarazioni programmatiche, affermavo testualmente: «il Partito sardo d’azione respinge con responsabile consapevolezza il tentativo di sconvolgimento dell’ordine democratico e registra come fatto di grande significato storico l’ingresso di 12 milioni di lavoratori nell’area di Governo. Da oggi» — così dicevo in questa stessa Aula — «la democrazia è più forte, il paese più unito». Era quello un giorno angoscioso ed amaro, conseguente al rapimento dell’onorevole Aldo Moro, e pur fervido di speranze e di impegni, per il fecondo, necessario incontro delle grandi componenti democratiche della società italiana, da quella cattolica a quella laica e socialista, ricomprendendo in essa la rappresentanza del maggior partito della classe operaia italiana.
Unanime era il riconoscimento che per uscire dalla profonda crisi che inchiodava ed inchioda il nostro paese sul piano istituzionale, economico, sociale, civile e politico non si potesse più insistere nelle preclusioni assurde ed antistoriche che volevano esclusa dal processo di formazione degli indirizzi programmatici legislativi ed attuativi della politica italiana una forza che raccoglie un terzo del consenso della collettività nazionale, 12 milioni di cittadini, una forza popolare, che con la loro responsabile partecipazione qualificano l’azione dello Stato, le danno certezza e prospettiva di sviluppo.
L’onorevole Aldo Moro ha dato, con il sacrificio della sua stessa vita, consacrazione e suggello a questo grande obiettivo. Ad un anno di distanza ci ritroviamo su sponde opposte, nella constatazione di un fallimento, penso del tutto contingente, la cui responsabilità ricade per intero sulla Democrazia cristiana.
Ritengo del tutto inutile ripercorrere la storia di questi ultimi anni di vita parlamentare con i suoi esasperanti ritardi, con le sistematiche inadempienze delle riforme che attendono soluzione. I colleghi le conoscono; le conosce il Governo e le conosce e le soffre il paese. La vocazione alla gestione esclusiva del potere, ad una prassi di arrogante e sistematica prevaricazione, il ricorso a tattiche di logoramento hanno condotto ad un progressivo deteriorarsi del quadro politico il cui risultato tenacemente voluto — ancorché formalmente negato — è la rottura del patto programmatico di unità nazionale. Una grande conquista, in verità, una conquista minacciata da pericoli che investono la sopravvivenza della nostra democrazia. Forse qualcuno auspica, con lo scioglimento delle Camere, lo scioglimento stesso delle istituzioni; ma non si illudano quanti in quest’Aula e fuori di qui accarezzano il progetto di un impossibile ritorno a forme di Governo condannate e sepolte nella coscienza di tutto il popolo.
Si vogliono le elezioni — questa è la verità — nell’assurda speranza di recuperare un consenso indiscriminato, eterogeneo e generico, di ispirazione moderata, che il popolo ha ormai negato e che non è più disposto a concedere. Tutto questo, onorevoli colleghi, mentre il paese è travagliato da una crisi altamente drammatica che investe l’ordine democratico, martellato dall’aggressione incessante del terrorismo, l’economia minata nelle sue strutture essenziali per flessioni rilevanti sia nel settore produttivo che commerciale, con effetti e riflessi altamente significativi sul tessuto sociale indebolito e reso fragile da vaste aree di disoccupazione. E io che parlo quale rappresentante del Partito sardo d’azione denuncio con forza appassionata il ritualismo con cui l’onorevole Andreotti ha ripetuto qui i consueti impegni assunti dai quattro Governi da lui presieduti a favore de! Mezzogiorno e delle Isole, impegni mai realizzati, mentre la realtà dei fatti testimonia l’ampliarsi del solco che divide le due Italie, quella del centro-Europa e quella del sottosviluppo.
Ma è qui mio preciso compito — e qui mi richiamo alle cose che dicevo allora nel momento della speranza, quando la certezza alimentava questa prospettiva — richiamare l’attenzione del Governo e dei colleghi sugli specifici problemi della Sardegna. E non sembri questo un aspetto particolare e marginale rispetto ai più vasti e complessi problemi italiani, perché si cadrebbe in un grosso errore storico e politico: la Sardegna costituisce nel contesto dello Stato un’entità a sé stante, non assimilabile di certo al Mezzogiorno, come sovente e con troppa approssimazione si sente affermare, perché del Mezzogiorno non ha vissuto le vicende storiche, i problemi, la cultura, l’economia e lo sviluppo. La stessa insularità, tenendola lontana per lunghi secoli dalle esperienze italiane, ha favorito il formarsi di una etnia singolare ed autonoma che conferisce al popolo sardo una identità sua propria che va rispettata, recuperata, valorizzata e finalmente liberata dal viluppo di condizionamenti che ne hanno infrenato il naturale espandersi ed affermarsi nel contesto dei popoli mediterranei ed europei, perché i sardi possano dare all’Italia il contributo creativo e originale di cui sono capaci; debbono esistere come popolo e non essere assorbiti, inglobati, distrutti, sì da spegnerne l’intima spiritualità che ne anima la cultura, il senso etico, la volontà di rinascita economica e civile.
Noi sardisti, fin dal lontano 1921, siamo stati gli assertori convinti di un moderno federalismo che, mobilitando dal profondo l’energia delle popolazioni, ritrovi nello Stato quella forza di coesione, liberamente scelta, che dia al nostro paese quell’unità reale ancor oggi auspicata ma ben lontana dal l’essere realizzata: oggi l’Isola vive giorni angosciosi ma non disperati; a noi sono pressoché sconosciuti gli atti di gratuita violenza che scuotono nel profondo la vita della società italiana, ma sarebbe grave errore confondere la responsabile misura dei sardi con la rassegnata accettazione dell’ingiustizia, quasi fatalità ineluttabile derivante da un destino avverso ed invincibile.
Nel confronto politico ricerchiamo le vie democratiche non di una rivendicazione querula e protestataria ma di soluzioni creative e creativamente valide, che, componendo gli interessi generali del paese con quelli dell’Isola, aprano a questa concrete opportunità di inserirsi con pari dignità tra le altre regioni italiane: in questa prospettiva si colloca il richiamo alla gravissima crisi produttiva e occupazionale che ha investito la Sardegna; oltre il 60 per cento degli addetti alle attività industriali è stato espulso dal processo produttivo: mi riferisco alle industrie petrolchimiche, chimiche, a quelle delle fibre, al settore minero-metallurgico sia del piombo, dello zinco che del rame e del carbone; mi riferisco altresì alle modernissime industrie metalmeccaniche presenti in Sardegna oltre a quelle delle seconde lavorazioni, quale quella dell’alluminio prodotto a Porto Vesme. I contingenti produttivi fissati per l’Italia dalla CEE sono inferiori di circa il 50 per cento alla capacità industriale in atto: di qui la necessità di operare scelte rigorose che privilegino la Sardegna e le aree meridionali dove in questi ultimi anni sono state localizzate industrie di settore che, per l’alta tecnologia di cui sono dotate e per la rilevanza degli investimenti che hanno comportato, sono di gran lunga più capaci di reggere il confronto e la concorrenza straniera, rispetto ad altre che avrebbero bisogno invece di radicali ristrutturazioni per essere riportate a ritmi produttivi accettabili anche sul piano economico.
La scelta dei sindacati peraltro si muove nello stesso senso. Ebbene, in questi giorni si va affermando che Ottana deve restare nell’ambito del 40 per cento della sua capacità produttiva, mentre a Porto Marghera si deve produrre al 100 per cento della capacità produttiva: quindi ancora cassa integrazione, riduzione degli organici, disoccupazione, emarginazione per la nostra gente.
Se questo è il meridionalismo del suo Governo, onorevole Presidente, mi consenta di dire che l’annunzio del mio voto contrario si legittima nella lotta dei lavoratori e noi sardisti siamo con loro.
Per l’industria dello zinco, per la quale sembrava che l’ENI, modificando il suo iniziale orientamento, avesse maturato il proposito di realizzare a Porto Vesme, pressoché a bocca di miniera, l’impianto elettrolitico per l’industrializzazione del minerale ricavabile dalle calamine sarde, oggi sembra che tutto si fermi. Era una scelta non solo opportuna ma necessaria, l’unica possibile. Localizzare altrove una tale industria, come si pretende, significherebbe decretare la chiusura delle miniere zinchifere sarde, essendo antieconomico il trasporto del minerale estraibile in conseguenza dei suoi bassi tenori, mentre, con la realizzazione dei predetti impianti metallurgici, si valorizza una riserva locale, si riduce il passivo della bilancia commerciale, si garantisce occupazione in una zona depressa e si adotta una politica industriale di approvvigionamento delle materie prime che non sia totalmente dipendente e condizionata dal commercio estero.
E le stesse considerazioni valgono per il rilancio delle miniere del bacino carbonifero ove si voglia realmente perseguire una politica energetica che assicuri all’Italia una riserva autonoma di materie prime che la ponga quanto meno in parte al riparo dalle ricorrenti crisi (l’annunzio degli ultimi aumenti dei petrolio è di questi giorni) e che la ponga al riparo dalle decisioni politiche di paesi stranieri.
E non si insista nel voler imporre a noi sardi centrali termonucleari nella regione in cui si dispone dell’unica riserva energetica, la carbonifera, presente nel bacino del Mediterraneo; mentre l’Italia importa dalla Polonia carbone che in verità non ha qualità commerciali e industriali superiori a quelle di cui l’Italia, in Sardegna, dispone.
Ma nessuna industria, per quanto valida, potrebbe dare respiro allo sviluppo sostanziale dell’economia sarda ove non si privilegi e si potenzi adeguatamente l’agricoltura realizzando integralmente — e al più presto — il piano speciale delle acque ancora oggi all’esame della Cassa per il Mezzogiorno. Oltre cento chilometri di vasta pianura da Oristano a Cagliari, metà della Sardegna, onorevole Presidente, potrebbe passare, nel breve volgere di pochi anni, dalle attuali colture estensive.ad una produzione intensiva altamente specializzata di rilevanza internazionale e contribuire in termini significativi al riequilibrio della bilancia commerciale nel settore agro-alimentare.
E solo un esempio che riguarda le province di Cagliari e di Oristano, ma la Valle del Coghinas, la Piana della Nurra in provincia di Sassari, le Baronie, alcune zone dell’Ogliastra in provincia di Nuoro attendono solo la realizzazione di queste essenziali infrastrutture per mobilitare le energie umane ansiose di ritornare al lavoro dei campi, dal quale sono state espulse per l’abbandono cui sono state condannate le campagne dalla politica, dello Stato e della stessa regione.
Ma queste aspettative sarebbero inesorabilmente condannate alla più cocente delusione se non si affronta definitivamente il problema dei collegamenti interni ed esterni della Sardegna. Disponiamo ancora di una sola linea ferroviaria statale vecchia di oltre un secolo che ha bisogno di essere ammodernata. Si parla nel piano ferroviario della elettrificazione, ma non si prevedono rettifiche di tracciato, opere di ingegneria civile, non si prevedono ponti, viadotti, gallerie per cui i tempi e le velocità commerciali resteranno quelli di un secolo fa e si assisterà allo spettacolo folcloristico e invero abbastanza interessante di una linea elettrificata che camminerà con la velocità dei tempi del carro-buoi. Mentre il mondo cammina noi saremo ancora una volta in ritardo non perdendo il treno, ma con un treno che non serve.
Per quanto riguarda i trasporti esterni reclamiamo il diritto di essere trattati alla stessa stregua degli altri italiani, raccordando le nostre tariffe marittime a quelle ferroviarie e autostradali in vigore in tutto il territorio nazionale. Il maggior costò pagato dall’economia sarda per i suoi collegamenti esterni ne frena le potenzialità espansive e rende i suoi commerci non competitivi rispetto alle produzioni concorrenti.
Per completare, sia pure molto approssimativamente e sinteticamente, questo quadro ricordo che per l’economia italiana, in relazione ai traffici marittimi del Mediterraneo, tornato ad essere un mare di rilevanza mondiale dopo la riapertura del canale di Suez ed il rapido emergere dei popoli ex-coloniali — attivamente presenti nell’Africa settentrionale e nello stesso Medio Oriente — deve essere recuperata, come momento di incontro e di propulsione, la Sardegna, potenziandone i porti; e in particolare il porto-canale di Cagliari, quelli di Porto Torres, di Oristano, di Arbatax, di Olbia. Si realizzerebbe nell’isola il naturale terminal mediterraneo della navigazione atlantica, facendone un punto di forza e — come dicevo — di raccordo e di smistamento dei traffici marittimi sempre più intensi tra i popoli del Mediterraneo. Questo consentirebbe l’insediamento in Sardegna di numerose industrie di trasformazione che arricchirebbero non solo i sardi ma l’economia italiana, dando però ai sardi l’opportunità di meglio rispondere alla loro vocazione europea e mediterranea, cui sono chiamati in virtù della loro collocazione geografica e della loro storia. Più che di avere i sardi chiedono di poter dare; non queruli postulanti di sussidi, ma artefici vitali e determinanti di progresso.
Amiamo pensare alla nostra terra non quale oggi essa è: una polveriera atomica, signor Presidente (ed ella con il suo primo Governo ci ha fatto omaggio della base atomica della Maddalena), un bastione militare avanzato, minacciosamente vigile nel Mediterraneo. Noi amiamo pensare alla nostra terra come a un’isola di lavoro e di progresso, momento di pace e di incontro tra i popoli, di commerci, di cultura, di civiltà diverse.
Queste cose un anno fa erano una speranza; oggi constatiamo l’abbandono, la rinuncia. Non vorrei parlare di fallimento, perché questo ha un significato definitivo e, nonostante tutto, vogliamo credere nella capacità del nostro popolo di recuperare quei valori di cui la Sardegna è elemento.