Discussione delle mozioni 1-00013, dei senatori Ferralasco ed altri, e 1-00021, dei senatori Giovannetti ed altri — con svolgimento di un’interpellanza e di interrogazioni connesse — riguardanti la politica mineraria.
Ritiro delle mozioni e approvazione di ordine del giorno:
Presidente. È iscritto a parlare il senatore Melis. Ne ha facoltà.
Melis. Signor Presidente, onorevole Ministro, onorevoli colleghi, il taglio che io darò al mio intervento risentirà evidentemente della mia origine politica; io sono del Partito sardo di azione e traggo prevalentemente alimento ed ispirazione per la mia battaglia, pur nel contesto dei problemi generali, da quelli più specifici e dolenti della mia terra.
Ebbene, l’articolo 14 della legge 24 giugno 1974, n. 268, dispone che i programmi di ricerca mineraria e di sviluppo delle attività estrattive e di trasformazione dei minerali della Sardegna siano finalizzati, oltre che allo sviluppo organico, sistematico, della ricerca, dell’estrazione, della trasformazione in prodotti intermedi e finali dei minerali locali, alla creazione e sviluppo, mediante le opportune verticalizzazioni e unificazioni, nonché mediante le importazioni di materie prime integrative, di una moderna base di trasformazione minerallurgica, metallurgica, manifatturiera di minerali non ferrosi.
Tali programmi, secondo quanto dispone lo stesso testo di legge ora citato, debbono essere predisposti dall’ente di Stato — allora EGAM — d’intesa con le regioni. La norma di cui ho dato lettura assume un particolare significato politico in considerazione del contesto dal quale trae la sua origine: il piano straordinario di rinascita dell’Isola definito con legge dello Stato, in applicazione del disposto costituzionale espresso dall’articolo 13 dallo statuto speciale della regione sarda.
Ebbene, a quattro anni dalla solenne proclamazione di questo impegno, l’ente di Stato — inizialmente l’EGAM di infausta memoria ed oggi la SAMIN — ha clamorosamente deluso le attese. Vorrei muovere le mie osservazioni, volte non tanto a criticare il poco che si è fatto e soprattutto il molto che non è stato fatto quanto a formulare proposte positive, che scaturiscono da valutazioni rigorosamente oggettive dell’esistente e del determinabile in una prospettiva prossima: la ricerca, coltivazione e trasformazione mineraria nel distretto del Sulcis si lega ìndissolubilmente alla politica energetica seguita nel nostro paese e alle conseguenti scelte.
L’esistenza di un consistente giacimento di carbone, apprezzato in 150 milioni di tonnellate certe ed in 450 milioni probabili, garantiva al nostro paese una disponibilità energetica che si rivelò non solo utile ma essenziale, nel decennio che va dal 1940 al 1950, per garantire, la sopravvivenza dell’intero apparato produttivo industriale italiano. Sulla base di una tale esperienza, la regione autonoma della Sardegna, con una felice intuizione politica, elaborò un programma di valorizzazione del vasto giacimento de] carbone del Sulcis, dando inizialmente l’avvio alla costruzione della centrale termoelettrica di Porto Vesme e quindi della supercentrale di Carbonia, alimentandola con il tout venant estratto dalle miniere di Seruci, Nuraxi Figus e da altri giacimenti presunti nelle zone contermini.
Tale programma si rivelò determinante nello stimolare lo sviluppo economico dell’Isola, favorendo l’insediamento di nuovi impianti industriali nell’area sarda e con essi l’occupazione, il reddito e quindi la crescita economica e civile dei sardi. Lo Stato dimostrò vivo interesse per la coraggiosa iniziativa della regione, favorendo l’insediamento nella zona sulcitana delle modernissime industrie dell’alluminio, ALSAR ed Euroallumina, i cui processi di produzione comportano larghissimo impiego di energia elettrica.
Una tale scelta da parte del Governo si legava strettamente alla disponibilità energetica garantita dalla supercentrale di Carbonia ed alla sicura disponibilità di materia prima per alimentarla. Tale scelta fu resa possibile dal fatto che la regione, titolare esclusiva, attraverso l’Ente sardo di elettricità, dell’energia prodotta, la forniva alle industrie consumatrici a prezzi differenziati o politici, come suol dirsi, onde consentire la concorrenzialità sui mercati di consumo delle rispettive produzioni.
In termini operativi, tutto ciò realizzava nel concreto il piano di rinascita, sviluppando un tessuto imprenditoriale diffuso nel territorio, capace di promuovere, senza traumi e sconvolgimenti urbanistici, sociali e civili, lo sviluppo economico, sottraendolo alla secolare emarginazione ed arretratezza.
Con la nazionalizzazione delle fonti di energia, l’Enel ha violentemente interrotto quo. sta linea di tendenza; del tutto incurante degli interessi reali dell’Isola, ha sostituito l’olio combustibile al carbone nell’alimentazione della supercentrale termica di Carbonia e di quella minore di Porto Vesme, abolendo nel contempo la politica, di tariffe differenziate seguita per l’innanzi dalla regione sarda.
Si sostenne, a giustificazione di tale decisione, rivelatasi nefasta per la nostra economia, che considerazioni di convenienza aziendale consigliavano la preferenza dell’olio combustibile rispetto al carbone e che, essendo l’Enel un ente nazionale, occorreva adottare tariffe uguali su tutto il territorio dello Stato; considerazione, quest’ultima, farisaicamente equitativa, uguali non essendo i presupposti economici ed oggettivi delle possibili utilizzazioni dell’energia erogata.
In mancanza di infrastrutture civili, industriali, di trasporto e commerciali, da una scelta quale quella operata dall’Enel venivano palesemente favorite le regioni più forti ed a più alto indice di sviluppo, mentre venivano condannate all’emarginazione quelle più arretrate. E così è stato: la Sardegna ha pagato duramente tutto questo, che è siate una causa non certo irrilevante del fallimento del primo piano di rinascita.
L’amara esperienza del decennio 1940-1950 e la crisi scatenata dalla chiusura del canale di Suez avevano insegnato che un paese amante della propria indipendenza, che non voglia farsi condizionare totalmente dall’esterno, deve avere una sua politica energetica che — ove possibile — fondi la propria strategia sulla valorizzazione delle fonti di cui dispone.
Rinunziare al carbone, certo per ragioni aziendalistiche, ma ancor più per l’onnipotente forza di pressione di gruppi petroliferi operanti a livello mondiale, ha significato ben più rilevante di quello strettamente economico. Queste considerazioni sono ben presenti nelle scelte che nella politica energetica tutti i paesi del inondo ranno maturando ormai da molti anni. Il costo del petrolio va progressivamente aumentando ed è previsione comune che le difficoltà energetiche nei prossimi 15-20 anni andranno sempre più aggravandosi, sia por il costo per unità di termia prodotta che per le disponibilità, in relazione alla stima delle riserve oggi accertate ed agli usi diversi da quelli termici, cui il petrolio sembra destinato.
Coerentemente con tali considerazioni, gli Stati Uniti d’America hanno elaborato programmi che prevedono di incrementare la produzione carbonifera, triplicandola, nella previsione, entro il 1985.
La Francia, accanto ad una politica di rilancio delle produzioni minerarie nei giacimenti noti, ha avviato una intensa ed organica attività di ricerca in zone nuove, suscettibili di evidenziare possibili nuovi giacimenti; così l’Inghilterra, il Canada, il Sud Africa, i paesi dell’Est, particolarmente la Russia e la Polonia, che non hanno mai cessato la coltivazione dei giacimenti noti e la ricerca di quelli indiziati. Solo l’Italia sembra perdersi ancora nelle nebbie dell’incertezza, ove si consideri che anche a livello di economia aziendale l’utilizzazione del carbone del Sulcis è ormai largamente più conveniente del petrolio, in considerazione del fatto che per unità di termia si arriva ad un costo pari a lire 1,50, massimo 2 lire, mentre per produrre la stessa unità di termia con l’olio combustibile si arriva ad un costo quasi doppio (non meno di 3 lire).
Sono indagini e stime rigorosamente attendibili perché risultano da studi tecnico-economici di illustri scienziata, quale il professor Carta, ed in genere dell’università di Cagliari e di altri studiosi che a livello internazionale si sono interessati del problema del carbone del Sulcis.
Il dato è tanto più significativo ove si ricordi che in Francia sono ritenute interessanti — ed attivate — produzioni il cui costo in lire si aggira sulle 4,50 per unità di termia. Né vale il discorso che il carbone del Sulcis conterrebbe un certo tenore di zolfo, perché i venti dominanti che battono la costa sulcitana disperderebbero i fumi inquinanti sul mare senza arrecare danni ecologici di alcun genere. Peraltro le moderne tecnologie di desolforazione consentono il disinquinamento dei fumi pressoché totale con costi tollerabili e comunque tali da non compromettere l’economicità della produzione.
In proposito debbo ricordare — e l’argomento mi pare decisivo — che nella maggior parte i carboni di cui gli Stati Uniti d’America stanno rilanciando in larga scala la produzione sono fortemente solforosi, con tenori di certo superiori a quelli riscontrabili nei carboni del Sulcis.
Collegato alla prospettiva del rilancio delle attività estrattive del carbone in Sardegna e della sua utilizzazione a scopi energetici, ma non necessariamente a questa condizionato, ritengo essere l’aspetto di una nuova e più vigorosa politica nel settore minerario piombo-zincifero, presente un po’ in tutta l’Isola, ma in particolare nell’Iglesiente, Gustinese e Arburense.
La Sardegna è in questo settore la regione d’Italia che garantisce le maggiori riserve di minerali non ferrosi all’economia nazionale. Apprendo da giornali che la SAMIN, confermando una tradizione mineraria plurimillenaria, intende potenziare le miniere di Monteponi, Montevecchio. Masua e Fun-tana Raminosa; e questo è senza dubbio positivo. Certo sarà bene, prima di decidere l’eventuale abbandono di altre miniere, verificare rigorosamente la palese antieconomici della loro coltivazione, facendo largo riferimento alle procedure della legge n. 675 sulla riconversione e ristrutturazione industriale. Preoccupa però non poco la dichiarata intenzione della SAMIN di abbandonare il proposto programma di ristrutturazione e di potenziamento dell’impianto elettrolitico di San Gavino per la lavorazione industriale dello zinco. Una tale decisione si tradurrebbe ancora una volta nella rinuncia a un rilevante patrimonio di materie prime presente in Sardegna, costituito dalle cosiddette calamine.
I tenori di zinco presenti in tali mineralizzazioni ne rendono economica l’industrializzazione in loco a bocca di miniera, come suol dirsi, mentre gli eventuali costi di trasporto fuori dall’Isola ne determinerebbero l’automatica uscita dal mercato.
L’errore di una tale scelta avrebbe riflessi negativi molteplici, costituiti in particolare dalla mancata valorizzazione di una rilevante scorta di materie prime e dalla conseguente necessità di sostituirle mediante importazione dall’estero, con evidenti aggravi sulla
bilancia dei pagamenti; effetti certo non positivi per la nostra economia. Effetti negativi sono altresì costituiti dalla perdita di una componente così rilevante dell’economia sarda e dalla perdita di numerosi posti di lavoro in una regione nella quale la disoccupazione e l’emigrazione hanno sconvolto le strutture sociali e talora le possibilità stesse di sopravvivenza; effetti negativi costituiti dall’abbandono di una tradizione industriale metallurgica che trova la sua genesi nelle risorse locali e che quindi fa parte integrante ed essenziale non solo dell’economia, ma della stessa cultura sarda.
Il potenziamento, attraverso una radicale ristrutturazione, dell’impianto elettrolitico di San Gavino rappresenta quindi non già una scelta di opportunità politica motivata da considerazioni di ordine sociale o, peggio, assistenziale, bensì una via obbligata che risponde essenzialmente agli interessi generali del paese in una prospettiva strategica di politica industriale che ci affranchi, per quanto possibile, dalle dipendenze e dai condizionamenti dei paesi stranieri, incentivando nel contempo Io sviluppo economico, l’occupazione, il reddito e, in ultima analisi, la crescita civile e sociale di una regione iniquamente emarginata qual è la Sardegna.
Si darà così concreta attuazione al preciso disposto dell’articolo 14, che leggevo nell’introduzione del mio dire, della legge 268, solennemente votata a grandissima maggioranza, direi quasi all’unanimità, dal Parlamento nel giugno del 1974 per promuovere, spero non a parole, la rinascita sarda. Una diversa scelta significherebbe svuotare di contenuto reale l’impegno dello Stato, proclamato a parole e tradito nei fatti.
Credo fermamente che ima seria programmazione degli interventi non renda incompatibili i previsti investimenti di Porto Marghera e di Crotone con quelli di San Gavino. Ciò che però non è compatibile, e quindi è di per sé inaccettabile, è che si possano abbandonare le materie prime laddove sono economicamente utilizzabili, per privilegiare altre zone nelle quali ile materie prime si debbono importare.
Quanto ho avuto l’onore di sottoporre alla attenzione del Governo e dei colleghi impone che il piano minerario-metallurgico assuma un ruolo strategico che coinvolga ed esalti gli interessi generali del paese. In tale prospettiva le necessarie importazioni minerarie assolveranno la specifica esigenza non già di sostituire le produzioni locali ma di integrarle sul piano quantitativo per riequilibrare, ove necessario, i costi industriali, rendendo così competitive sui mercati le relative produzioni. Ma una strategia delle materie prime non può seriamente ipotizzarsi ove non si dia esecuzione a una organica ricerca mineraria su tutto il territorio nazionale, con particolare, riferimento alle aree indiziate per considerazioni giacimentologiche. Ebbene, la Sardegna è quello che può definirsi uno scrigno ricco di rilevanti prospettive. In fondo, in (termini di ricerca di base, da alcune migliaia di anni in Sardegna non si è fatto più nulla: si continua a grattare sulle coltivazioni già sfruttate all’epoca di Roma e, ancor prima, dai nuragici: siamo quindi fermi nel tempo.
Ebbene, non basta scrivere su un testo di legge che si deve impostare e realizzare un serio programma di ricerca, ma occorre che a supporto della lettera legislativa sussista una forte volontà politica tesa a realizzarla, capace di scuotere l’immobilismo sfiduciato che si protrae nei millenni.
La Sardegna offre vaste ed interessanti prospettive del tutto trascurate, anche laddove sicuri indizi geologici e giacimentologici imporrebbero l’indagine e la ricerca di base. Concordo in proposito con quanto affermato dal collega Ferralasco nel riservare allo Stato un compito di così rilevante impegno: la SAMIN, quale capofila del settore minerario, dovrà in questo ambito svolgere un ruolo significativo e qualificante, senza escludere ovviamente gli enti regionali e gli operatori economici, nel quadro di un’azione di coordinamento, direzione e impulso riservata alla Stato. (Applausi dall’estrema sinistra).